L'analisi

Quant'è difficile fare ricerca sulle fake news: chi ammetterebbe di cascarci?

Marco Gambaro

Con l'avvicinarsi delle elezioni americane aumenta l'attenzione sulle bufale online. I rapporti di NewsGuard e la tecnologia di Cyabra offrono strumenti utili per combatterle, ma è il momento di pensare a soluzioni strutturali, come una maggiore alfabetizzazione e attività di fact-checking

Con l’avvicinarsi delle elezioni americane le fake news ritornano prepotentemente in gioco e sotto osservazione. Un rapporto di NewsGuard ha esaminato il fenomeno dei finti siti di informazione locali che si mascherano da fonti autorevoli e che sfruttano la desertificazione informativa seguita alla chiusura di numerosi quotidiani locali. Ne ha trovati ben 1.265, ossia il 4 per cento in più dei siti dei quotidiani locali che ancora continuano a operare. Cyabra, una società di ricerca tech israeliana, usa l’intelligenza artificiale con machine learning per identificare gli account fake su X e ha verificato che il 15 per cento del totale dei profili che sostengono Trump e criticano i democratici sono falsi, e così il 7 per cento di quelli che sostengono i democratici e accusano Trump.
 

La qualità delle informazioni è importante nel processo elettorale democratico perché i cittadini per poter valutare i politici devono essere informati correttamente sulle loro attività e sulle loro intenzioni. È stato verificato molte volte come la disponibilità di informazione adeguate aumenti la partecipazione elettorale e limiti il successo dei partiti populisti.
 

Una ricerca italiana (Cantarella, Fraccaroli, Volpe, su Research Policy), usando i dati dell’Alto Adige nelle elezioni del 2013 e 2018 e le variazioni storiche dei votanti parlanti tedesco o italiano nella regione, verifica come le fake news favoriscano i partiti più populisti individuati con un’analisi testuale dei loro post su Facebook. Allo stesso tempo però conclude che le fake news spiegano solo una parte del voto populista.
 

Le fake news sono un campo minato sia perché la definizione può essere incerta, sia perché abbiamo spesso informazioni un po’ sommarie sul loro funzionamento e il loro contesto. Una definizione stretta di fake news riguarda gli articoli che sono intenzionalmente falsi, che sono verificabili e che possono trarre in inganno i lettori. Questa definizione esclude gli errori non intenzionali, la satira, le affermazioni false dei politici, le ricostruzioni fortemente partigiane ma non fattualmente false. All’inizio le fake news erano fortemente collegate al fenomeno del click-bait, cioè siti o pagine che attiravano navigatori incuriositi con affermazioni inverosimili o palesemente false. La pubblicità su ogni pagina cliccata remunerava ampiamente gli sforzi, per cui in alcuni paesi con scarsi controlli erano nate piccole cottage industries che sfruttavano il fenomeno. All’estremo opposto ci sono le operazioni di guerra psicologica per intervenire e influenzare il dibattito o le elezioni di altri paesi. In mezzo, tutta una serie di distorsioni o di vere bugie. Nel dibattito italiano, inoltre, la brutta abitudine di molti politici di gridare alle fake news ogni volta che un interlocutore dice qualcosa di sgradito contribuisce a rendere evanescente e confuso questo fenomeno importante.
 

Inoltre le informazioni di cui disponiamo sono spesso inadeguate. Nella tipica ricerca sulle fake news si chiede all’intervistato se si ritiene capace di distinguerle, se ne ha incontrate e inoltre su che fonti si informa, tutte domande a cui è difficile che gli intervistati rispondano in modo veritiero. Per fare un esempio, in una ricerca con interviste oltre l’80 per cento degli italiani dichiara di vedere il telegiornale tutti i giorni, ma osservando i dati auditel chi guarda almeno un minuto di tg al giorno è solo il 23 per cento. Invece alla domanda su quale telegiornale guarda le due ricerche danno risultati identici, confermando che la distorsione del risultato deriva dal fatto che guardare le news viene considerato meritorio.
 

Del resto le fake news non sono un’esperienza nata con il digitale. In ogni sezione di partito della Prima Repubblica si dicevano le stesse bugie. Quello che cambia è la verosimiglianza data dalla produzione digitale e la rapidità di diffusione. La possibilità di modificare filmati, ritoccare foto, montare audio, addirittura produrre voci altrui con l’IA cambia il concetto di verità a cui siamo abituati. E al contrario di quanto si racconta nelle favole, le bugie hanno le gambe lunghe. Secondo una ricerca pubblicata su Science, il primo un per cento delle fake news su X raggiunge tra 1.000 e 100 mila persone, mentre le notizie vere mediamente stanno sotto le 1.000 persone.
 

Una bella ricerca di Charles Angelucci e Andrea Prat, presentata anche al Festival dell’Economia di Torino, ha provato a misurare la capacità di distinguere notizie vere e false. Per 11 mesi un panel di giornalisti esperti ha selezionato le tre principali storie del mese sul governo americano e ha poi prodotto altre tre notizie false, ma verosimili. Negli stessi mesi le sei notizie sono state sottoposte a un panel di 1.000 votanti americani. Quindi è stato costruito un modello econometrico per individuare quali fattori sociali influenzano la capacità di riconoscere effettivamente le fake news. In media l’82 per cento degli elettori identifica correttamente le storie vere di fronte a una coppia tipica di notizie, una vera e una falsa. Inoltre il 47 per cento degli individui è molto sicuro delle storie vere (9 a 1) e il 3 per cento delle fake. La partigianeria conta. Le persone identificano il 2 per cento in più di storie vere se la storia parla favorevolmente della propria parte politica. Riguardo alle variabili socioeconomiche riconoscono meglio le storie vere, in modo statisticamente significativo, le persone più anziane della media, quelli con almeno una licenza media superiore, uomini, bianche e con reddito familiare oltre 60 mila dollari. I votanti indecisi sono meno in grado di distinguere le fake news.
 

Cosa è possibile fare per limitare questo fenomeno? La risposta principale sembra essere legata alle capacità culturali e a una maggiore familiarità con il funzionamento dei mass media. Questo dovrebbe farci riflettere quando guardiamo con fastidio i risultati di test come l’Invalsi e quando ci dimentichiamo che abbiamo un livello di diplomati di circa il 15 per cento inferiore a quello dei paesi Ocse. Progressi nella scolarità e nelle competenze linguistiche e comunicative oltre che in tanti altri ambiti sono essenziali anche contro le fake news. Invece sembra di dubbia utilità l’ipotesi di qualche autorità specializzata. L’idea che qualche politico, assieme a una schiera di funzionari, si trovi a discettare su quali notizie sono fake, oltretutto con tempi incompatibili con la comunicazione digitale, mette parecchi brividi. Invece può essere utile favorire lo sviluppo di attività di fact checking, magari con qualche standard concordato che favorisca la facilità di verifica di notizie e fonti.

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