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I missionari dell'alfabeto: così la stampa evangelizzò il Nuovo Mondo

Giorgio Caravale

La carta europea fu lo strumento chiave della colonizzazione spagnola nelle Americhe, con la scrittura che consentì agli spagnoli e ai portoghesi di esercitare il controllo attraverso leggi e decreti. Traduzioni e resistenze indigene
 

Il vero conquistatore del Nuovo Mondo fu la carta europea. Sì, avete capito bene: la scrittura, la carta e l’inchiostro sono state le armi più efficaci della colonizzazione spagnola nelle Americhe. Le armi da fuoco, i germi epidemici, la violenza fisica aprirono la strada all’occupazione territoriale dei conquistadores ma la costruzione della prima società coloniale passò per una più sottile e non meno pervasiva colonizzazione alfabetica. La scrittura consentì agli spagnoli prima, ai portoghesi dopo, di colmare la distanza oceanica che li separava dalle corti europee, esercitando la loro autorità attraverso la piuma, i fogli e l’inchiostro: lettere, ordinanze, registri furono gli strumenti di una macchina comunicativa e informativa che permise loro di appropriarsi, non solo materialmente, del Nuovo Mondo.
 

La scrittura fu il mezzo attraverso il quale i conquistatori trasformarono una brutale e violenta invasione in una catena di concessioni e privilegi, trasferiti di padre in figlio attraverso la sola virtù dell’atto scritto e dell’osservanza formale delle regole del diritto. La scrittura insomma fu la versione più presentabile dell’aggressione militare, il volto buono dell’invasione, della guerra e della conversione forzata degli indios. Anche i papi la utilizzarono per legittimare la conquista di nuove terre, ergendosi a notai della nascente mondializzazione: il più famoso pezzo di carta di fine Quattrocento è la bolla con la quale papa Alessandro VI tracciò una linea immaginaria in mezzo all’oceano Atlantico, assegnando alla giurisdizione spagnola tutte le terre a ovest, e a quella portoghese i territori a est di quel fantasioso meridiano: un foglio passato alla storia come il trattato di Tordesillas (1494).
 

Carta e inchiostro significano naturalmente anche libri a stampa. A distanza di 50 anni dall’invenzione del torchio da parte del tipografo tedesco Johannes Gutenberg le stamperie di tutta Europa producevano ormai un flusso interminabile di volumi di ogni dimensione. Un intraprendente stampatore tedesco di stanza a Siviglia, di nome Juan Cromberger, figlio d’arte, comprese per tempo che la conquista di nuovi territori oltreoceano apriva orizzonti impensabili per il mercato del libro spagnolo. Investì tutte le risorse ereditate dal padre per stampare testi destinati a essere utilizzati da ecclesiastici e nobili spagnoli trapiantatisi nella Nuova Spagna.
 

I libri venivano imbarcati nelle stive delle navi in partenza da Siviglia e da altri porti spagnoli, non prima però di aver superato il controllo degli ufficiali della Casa de Contratación, un’istituzione fondata nel 1503 per vigilare sui flussi commerciali tra Vecchio e Nuovo Mondo. I libri non servivano solo a chi si era trasferito nei viceregni spagnoli di Messico e Perù, ma anche a chi doveva affrontare intere settimane in mezzo all’oceano e non aveva altro strumento di intrattenimento che quelle pagine stampate: libri di cavalleria, oggi diremmo romanzi, ma soprattutto libri spirituali e devozionali, perché gli uomini di Chiesa che sorvegliavano le operazioni di imbarco non apprezzavano i libri di vanità, così li chiamavano. Quelle lunghe giornate sulla tolda dei galeoni dovevano servire, nelle loro intenzioni, ad accrescere la devozione dei viaggiatori, a nutrire la loro anima, come si diceva allora.
 

A un certo punto, il vescovo di Tenochtitlán, il vecchio nome di Città del Messico, si rese conto che non era sufficiente far arrivare casse di libri stampati nelle città spagnole. Le traversate oceaniche erano lunghe e piene di insidie, spesso i carichi delle navi finivano in fondo al mare insieme alle imbarcazioni. I frati incaricati di evangelizzare i popoli indigeni, di convertirli cioè alla religione cattolica, dovevano poter contare su una tipografia in loco dove stampare i libri utili alla loro missione in tempi più rapidi e con costi minori. Così Juan de Zumárraga, questo il nome del vescovo messicano, incaricò Cromberger di aprire la prima stamperia della Nuova Spagna. La carta continuò ad arrivare dalla Spagna fino a quando nel 1580 a Tenochtitlán furono impiantati i primi mulini per la produzione locale. A partire dalla fine degli anni Trenta del Cinquecento però nobili spagnoli e missionari ebbero a disposizione libri stampati direttamente in Messico. Se ne occupò, per conto di Cromberger, un tipografo italiano, originario di Brescia, di nome Giovanni Paoli, il quale comprese che per trasmettere agli indigeni i rudimenti della fede cristiana occorreva imparare a comunicare nella loro lingua. Bisognava mettere frati e sacerdoti nelle condizioni di predicare e confessare nelle lingue amerinde e occorreva iniziare a stampare libri che gli indigeni potessero leggere direttamente nel loro idioma. Operazione più facile a dirsi che a realizzarsi.
 

Le lingue dell’altopiano messicano, il nahuatl su tutti, erano lingue orali, non avevano un proprio alfabeto. Occorreva di fatto inventare una o più lingue scritte che non esistevano in natura. Le popolazioni amerinde usavano rappresentazioni grafiche di oggetti e concetti, le pittografie, oppure incidevano petroglifi rupestri come in Amazzonia, oppure ancora si servivano di quipos, cordicelle annodate utilizzate per conteggi matematici o calcoli astronomici, come gli Inca delle Ande. Tutto fuorché la scrittura alfabetica. Fu necessario dunque trascrivere nell’alfabeto europeo le loro lingue parlate, stabilire un’equivalenza tra i suoni pronunciati dagli indigeni e le vocali e consonanti degli alfabeti europei. Si dovettero produrre vocabolari e grammatiche utili per tradurre l’oralità indigena in scrittura. Per farlo ci fu bisogno dell’aiuto degli indigeni stessi, impossibile fare altrimenti. Educati al latino e alla cultura umanistica nelle scuole e nei collegi fondati in terra messicana dai frati francescani, i più letterati tra loro misero a disposizione degli europei le loro straordinarie capacità linguistiche. Bilingui o trilingui, molti di loro lavorarono nelle tipografie messicane per comporre e stampare catechismi o opere spirituali direttamente pubblicati nelle lingue amerinde, nahuatl, huaxteca, tarasca. Opere di filosofia, di linguistica, di diritto amministrativo, trattati umanistici, ma soprattutto opere spirituali, testi devozionali, e catechismi, destinati per l’appunto all’opera di evangelizzazione. Fu attraverso questi testi che i missionari coltivarono l’ambizione di colonizzare l’immaginario indigeno, riempiendolo di nuovi contenuti cristiani, testi e parole in grado di tradurre nella lingua e nella cultura indigene il messaggio salvifico cristiano.
 

Naturalmente le immagini svolsero un ruolo di primo piano. La colonizzazione alfabetica avanzò di pari passo con la colonizzazione iconografica. Le culture amerinde erano visuali, società in cui la pittura era espressione suprema del sapere e della speculazione intellettuale. I pittografi messicani, chiamati tlacuilos (“colui che scrive dipingendo”) erano un’élite altamente specializzata di funzionari statali educata, prima della conquista, a definire i codici pittografici e a decorare i monumenti aztechi. Furono loro ad assicurare la transizione visuale tra il mondo di prima e quello dopo, a svolgere quell’imprescindibile funzione di mediazione culturale che nella cultura tipografica veniva svolta da traduttori e correttori indigeni al servizio degli stampatori europei. I tlacuilos familiarizzarono con un’iconografia per loro esotica e iniziarono i loro simili alla concezione cristiana della rappresentazione. Adattarono al pubblico locale le immagini cristiane di pietà, rendendo le figure che le animavano leggibili e riconoscibili agli occhi delle popolazioni amerinde. Così, migliaia e migliaia di metri quadri, pareti e volte dei conventi su tutti, vennero ricoperte di affreschi dipinti da mani indigene dietro ispirazione di un’iconografia cristiana riadattata ai gusti del pubblico locale.
 

La colonizzazione alfabetica e iconografica sembrava procedere spedita. Se non che, due ostacoli si frapposero sulla sua strada. Il primo fu la resistenza esercitata dagli uomini di Chiesa più conservatori che si opposero alla diffusione di libri di argomento religioso nelle lingue indigene, proprio come in Spagna (e in Italia) si erano opposti alla circolazione delle sacre scritture e di qualsiasi opera contenesse brani del Vecchio e del Nuovo Testamento in lingua volgare. Nella penisola iberica e in quella italiana ne ottennero la proibizione da parte dell’Inquisizione, nel Nuovo Mondo cercarono di utilizzare gli stessi strumenti repressivi per limitarne la diffusione: quello che si configurò fu lo scontro tra due diverse concezioni di evangelizzazione, una più incline all’adattamento degli insegnamenti di fede alle forme della cultura indigena, la seconda più convinta dell’opportunità di imporre senza troppi indugi le verità della fede cristiana.
 

Il secondo ostacolo fu la resistenza esercitata dalle popolazioni indigene. Non si trattò quasi mai di forme di resistenza violenta, non ne avevano gli strumenti materiali e forse neppure concettuali. Sfruttarono i margini di manovra offerti dal ruolo di mediazione attribuitogli dagli europei per conservare almeno una parte delle loro tradizioni religiose e culturali. Tradurre fedelmente i testi dalla lingua europea alla nuova versione alfabetica delle lingue amerinde era tecnicamente impossibile, tanto più lo era trasferire un universo concettuale in un altro dotato di coordinate del tutto differenti. In alcuni rari casi, i letterati indigeni seppero sfruttare a loro vantaggio la misura di questa intraducibilità.
 

È il caso di un testo per molti versi straordinario, intitolato Psalmodia christiana, un’opera stampata in Messico in lingua nahuatl nel 1583 il cui autore, Bernardino de Sahagún, missionario francescano, già autore di una delle più note inchieste etnografiche sulle società preispaniche, fu uno dei maggiori conoscitori del mondo indigeno. Lo storico francese Serge Gruzinski, senza dubbio il maggior storico dell’America coloniale, ha ricostruito nel suo ultimo libro la vicenda editoriale di questo testo, facendone la chiave per tratteggiare un affascinante affresco del processo di penetrazione della stampa nel Nuovo mondo (Quand les Indiens parlaient latin. Colonisation alphabétique et métissage dans l’Amérique du XVIe siècle, Editions Fayard).
 

Si tratta di una raccolta di cantari o salmi che non assomiglia però, se non molto alla lontana, ai salteri o alle raccolte di salmi che circolavano nell’Europa cattolica. Dopo una breve introduzione in cui vengono indicati i comandamenti e le preghiere che ogni cristiano dovrebbe conoscere, presenta una cinquantina di salmi destinati a essere intonati in occasione delle grandi feste del calendario cristiano. Ciascuno di essi è accompagnato da un commentario che ne adatta il senso al contesto amerindo e da immagini che mostrano al lettore indigeno una serie di santi e di scene della vita di Cristo e della Vergine, insomma cercano di illustrare il Nuovo Testamento e rappresentare i grandi santi della Chiesa.
 

Come recita il sottotitolo della Psalmodia christiana, si tratta di canti in lingua indiana esplicitamente destinati ad accompagnare le danze o areitos che gli indigeni performavano in stile preispanico nelle loro chiese durante l’epifania, la resurrezione o altre feste della Vergine e dei santi. È un’opera che ebbe una lunghissima gestazione, durata quasi venti anni, durante i quali l’autore si avvalse dell’aiuto di informatori e collaboratori indigeni i quali parteciparono all’impresa editoriale traducendo e adattando i testi sacri ma anche interpretando i canti in vere e proprie performance di musica, danza e teatro che aiutarono Bernardino de Sahagún a calibrare sempre meglio la sua proposta.
 

Sarebbe difficile, quasi impossibile per lo storico di oggi immaginare, tantomeno visualizzare, questa testimonianza insieme testuale e pittorica della resistenza indigena alla colonizzazione alfabetica europea, quest’opera indecifrabile secondo le nostre tradizionali categorie interpretative se non venisse in nostro aiuto l’estro di Pina Bausch. Se cioè a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, la straordinaria artista tedesca non avesse disintegrato con il suo Tanztheater le classiche nozioni di teatro danza musica e canto, riformulandone il senso complessivo all’interno di performance inaudite sino a quel momento. La dissoluzione della distinzione tra attori e spettatori, tra spettatore e performance, e dunque tra l’opera artistica e la sua ricezione, operate da Pina Bausch, ci invita all’ascolto di quelle lontane pratiche nelle quali la dinamica rituale, la musica, la danza, l’intonazione, il ritmo della parola e il fervore dei partecipanti si mescolavano in un tutt’uno inscindibile. Presentando il senso ultimo della performance proprio nell’incontro tra i cosiddetti danzattori e gli spettatori, sottoposti questi ultimi a una valanga di emozioni, suggestioni, memorie attraverso un lavoro maieutico, quasi psicoanalitico, Pina Bausch ci spalanca le porte di uno spettacolo risalente a più di cinque secoli fa nel quale cantori, danzatori, musicisti, costumisti e spettatori intrecciavano i loro ruoli per omaggiare le festività cristiane nel momento stesso in cui offrivano una delle ultime testimonianze della strenua resistenza delle popolazioni indigene alla colonizzazione europea.

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