Magazine

Quest'estate l'Italia è tutta un festival

Ginevra Leganza

Più di mille in tutta la penisola, sono la prosecuzione dei talk show televisivi, ma con altri mezzi. Da Aosta a Leuca, è l'ospite che conta. Una rassegna

Marchette, forchette, valore del territorio. Motore di clientele e business ben calibrato. Chiamateli pure eventi o se preferite “vacanze intelligenti”. Ma quel che ancora non s’è detto, dei festival italiani, è che sono la prosecuzione con altri mezzi del talk. Perché d’accordo: l’Italia sarà pur stata, ed è, la patria dei festival – come diceva Ennio Flaiano – ma oggi, si capisce, è anzitutto terra promessa del salotto tivù. E cioè della tribuna che gonfia i palinsesti d’inverno e che trasmigra, nell’arco dell’ora legale, nelle suddette parate estive.
 

Stando al sito TrovaFestival, attivo dal 2016, sarebbero circa 1.100 tra penisola e isole. Precisamente: 217 festival di cinema, 315 di teatro, danza, circo, 70 di arti visive e ben 311 di libri. I fantasmagorici libri che per la gioia di chi organizza raccolgono sopra e sotto il palco esordienti, premiati, stregati, avventori e in generale tutto fuorché lettori. Tanto che gli stessi Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino, curatori del sito e autori di In giro per festival (Altraeconomia, 2024), si sorprendono che l’ipertrofia caratterizzi “un paese come il nostro, che ha consumi culturali molto inferiori alla media europea”. Un paese che non difetta certo di bestseller – Enrico Vanzina dixit – ma di best reader, visto che pure in piazza, come quando lo presenti in tivù, il libro sta sullo sfondo. Tipo ologramma.
 

A tale proposito, Pierluigi Battista, che i cosiddetti festival li frequenta da anni, anzi decenni, ci racconta di quella volta che, dovendo presentare un suo libro nel basso Lazio, gli organizzatori tralasciarono di allestire il tavolo con le pilette del volume. Se l’erano scordato. Incredibile? Manco troppo. “E’ la mitica legge di Carlo Freccero”, spiega Battista, “per la quale, a Polignano a Mare, dove transitano all’incirca 700.000 persone, non più di 70.000 sanno del festival; solo 700, fra queste, si fermano per la presentazione; 70 scarse sanno che la presentazione riguarda proprio… un libro; e infine 7, solo 7, lo comprano”. E a quanto pare non gli organizzatori.
 

E sono i festival, dunque, i figli illegittimi del talk-show. Festival la cui esistenza – libri a parte – è antichissima (la parola, scrive Treccani, è francese medievale: sta per feste popolari), e che, volendo semplificare, son di due razze. Quella dei pesci grandi, e cioè dei Pordenonelegge, del Libro Possibile, delle Economie e delle Filosofie che avendo più sponsor (e mille mila loghi) hanno giocoforza più autonomia, e poi, secondariamente, la razza dei pesci piccoli. Delle festicciole di paese la cui proliferazione risale al costume nazionale dell’assessorato alla cultura (fine Prima/inizio Seconda Repubblica). 
In parallelo quindi – per stare ancora sul calco televisivo – abbiamo i festival chic parenti della tivù generalista e quelli freak, dell’emittente locale. Dove però la presenza di politico, premio letterario, artista, comico o vignettista – parterre, fateci caso, di qualsivoglia talk – se non è garantita è in entrambi i casi auspicata
. Giacché è di tale mistura, ci spiegano gli esperti, che vivono le kermesse (vuoi per attirare il pubblico se sono grandi, vuoi per marcare il territorio se paperini).
 

In ogni caso, grandi o piccoli, fintanto che i paesi si spopolano, le luminarie paesane spopolano. Perché i festival in Italia sono tanti, anzi tantissimi. All’incirca uno ogni sette comuni. Di borgo in borgo, essi rimestano le ossessioni della nazione, e cioè la vacanza gratis (per gli ospiti) e la polemica (per il pubblico). E come i talk, appunto, anche loro prendono i nomi più suggestivi. A occhio, nomi copiati e speziati di minime variazioni sul tema. Non foss’altro perché ce ne sono talmente tanti che a una certa l’estro sfuma. Il genio frana. E un po’ come accade all’estero, in quei paesini bavaresi dove a ogni angolo spunta un gelataio italiano dal sapore e dal nome oleografico (Bella Vita, Dolce Vita, Dolce e Bella Vita), ecco che anche qui, per la stessa ragione (la proliferazione), succede che i nomi siano a occhio e croce sempre gli stessi. Sicché, dopo Sanremo e i festivaloni di Economie e Filosofie, il menu propone: Un Mare di Libri, Una Marina di Libri, Libri d’aMare. E poi Il giugno dei Libri, MARetica e – stile risotto mari e monti – Una Montagna di Libri e la Gita al Faro. Senza dimenticare il rainbow-washing di Book Pride, Libriinfesta e, dulcis in fundo, di LibriCome. E questo solo per stare sull’editoria, con Capalbio Libri e Taobuk. Ma vabbè. Oltre il nome, come si dice, c’è di più.
 

E dunque torniamo al succo. Quel succo magico che mescola il piccolo schermo al mini tour. Torniamo alla formula che segna il successo, o se non altro il galleggiamento, delle 1.100 realtà che da Aosta a Leuca quietano la vanità di chi le presiede e tracciano la vacanza intelligente (ovvero gratis) dei politici in replica del format prime time.
 

Ed ecco. Sarà che il cinema italiano è morto (o è perlomeno fossile come la statua Venusia a Cinecittà), sarà che lo star system lo consacra tutt’al più il Grande Fratello, e cioè la tivù. Ma basterebbe fare mente locale sui clamori estivi per cogliere il legame tra eventi di piazza e talk-show. E, in generale, per capire quanto la tivù, più del cinema, marchi a fuoco tutto quanto si muove e ha vita. Almeno da noi.
 

Basterebbe quindi partire dai clamori estivi, dicevamo. Ovvero dai grandi eventi che al paese nostro non sono i pistoleri contro i capi di stato (Trump), né tantomeno i missili balistici… Ma le balle: il più son balle. Talché, pensando ai grandi fatti dell’estate 2024, la domanda sarà: dov’è che i fuochi nostrani (non contro capi di stato ma contro “casa bruciata”) si consumavano a inizio luglio? Detto altrimenti: dov’era il ministro Gennaro Sangiuliano (“casa bruciata”, ma solo in apparenza) allorché lo fischiarono una prima volta? Risposta: al festival. Egli era al festival famigerato di Taormina. Il Taobuk di Antonella Ferrara che con la malizia dell’autore tivù mescolava intanto Mario Monti (il politico) a Piergiorgio Odifreddi (il matematico a tratti comico) e organizzava, poi, bellissimi tour con Enit per far sentire i turisti in ciabatte come la Garbo o Capote in città… E ancora, domanda: dov’era sempre lui, il ministro della cultura, al suo secondo giro di fischi, lazzi e contumelie estive? Risposta: egli era al festival, ovviamente. Stavolta a Polignano a Mare: Il Libro Possibile. Stessa kermesse dove, fra una battuta di Osho e la ricomparsa di Mario Monti (è un vizio), Sigfrido Ranucci, un uomo chiamato “Report”, annunciava che per la prima volta in trent’anni sarebbe mancato alla presentazione dei palinsesti Rai, a proposito di tivù, grande fatto dell’estate, questo sì (anche se poi, visto il tono di cotanto annuncio, lui, Sigfrido, eroe dell’epica norrena, non avrebbe potuto optare per un festival del pari epico? Dall’epica nordica a quella calabra, per dire, sarebbe stato perfetto il Festival del Lamento. Che no, non è un’invenzione e neanche un gioco di parole, bensì una tre giorni che esiste – ne ha scritto Alberto Mattioli su questo giornale – e che si tiene a Soveria Mannelli, vicino Catanzaro). Comunque, tornando a noi (sempre perché fuori tutto cambia e qui, da Foligno a Polignano, ci sentiamo al centro del mondo): cos’era, ancora, che si prendeva la scena su Rainews24, sia pure per pochi istanti, fintanto che il sanculotto Mélenchon espugnava Parigi? Risposta (oramai ovvia): un festival. Era un festival a Pomezia. O, per la precisione, la terza serata delle Città Identitarie di Edoardo Sylos Labini.
 

Ed ecco. Tutto questo per dire che là dove non arrivano l’anchor woman su La7, il pretino sul Nove o, ancora, i lupi del Palatino, d’estate, arrivano loro. Le passerelle che, un po’ come il web 3 “distribuito” o l’albergo diffuso, sono il talk decentralizzato. E tracciano la mappa sentimentale e polemica della stagione. Con la presenza di scrittori politicizzati e di politici-scrittori a fondamento delle rassegne endogamiche di Capalbio. Dove gli ospiti sono i residenti stessi, ci dice un assiduo nonché malizioso frequentatore, e si risparmia perciò su vitto e alloggio. Anche se poi, da Capalbio a Taormina, il principio è sempre quello: che il libro sia subordinato all’ospite il cui volto è un brand e il nome un richiamo (della foresta, s’intende). Col politico grafomane che, garantendo folla allo sponsor, garantisce a sé stesso il mini tour rigorosamente non oneroso (come il patrocinio del suo ministero).
 

Ma adesso, ancora un po’ di attenzione sul punto. Perché un politico non vale l’altro. E le vacanze a gratis (vacanze intelligenti) bisogna pur meritarsele. Con Filippo Rossi – direttore di Thesocialpost che oggi parla in nome di “un sogno che non c’è più”, il Caffeina Festival di Viterbo di cui fu direttore artistico – cerchiamo così di venire a capo del merito.
 

“Il personaggio politico che divide la piazza”, ci dice Rossi, “allo stesso tempo la riempie”. Ma a una condizione, “e cioè che il politico sia famoso”. Detto altrimenti, ci vuole una star, non uno stratega. Ci vuole il politico social. Il tribuno della plebe “come Alberto Angela, Saviano, oppure come Cruciani”. Ed è perciò fondamentale – prima regola del talk – che l’uomo o donna della cosa pubblica, in piazza, sia riconoscibile. Che sia se possibile premier, vicepremier, anti premier o – perché no – principe della gaffe acciocché la piazza si riempia di militanti e più in generale di gente che, foss’anche astensionista, accorre per vedere il politico “come si fa col Papa, che si vede a prescindere, anche se non si è cattolici”. O come si fa coi feticci cui si tendono le mani per una questione di sogno collettivo, d’immaginario.
 

L’attinenza del festival col sogno collettivo, del resto, e dunque con la festa religiosa – che poi è la sagra – la si metteva già a tema agli inizi del fenomeno. Giuseppe Berto ne Il male oscuro lo chiamò appunto “sagra culturale”, il Festival dei Due Mondi. Il che fu forse impietoso, nel 1964, per la passerella spoletina. E tuttavia, dal ‘64 a oggi, è ancora nella festa patronale che si condensa l’atmosfera. È nella “festa sacra” – orgoglio delle pro loco – che trovano compimento il talk, prima, e il festival poi. Festival che è certo frutto di un upgrade – di pro loco in assessorato – ma resta sempre votato alla sagra popolare. Quindi all’atmosfera che muta i signori in camerieri, le cape in sangue di popolo. Che induce a fischiare e gettare uova marce al potere.
 

Ma forse, alla fine del nostro viaggio, la chiave è proprio questa. Perché i festival sono bovarismi, certo. Velleità per le Palma Bucarelli di periferia che col vip superano il borgo natio e finiscono sul quotidiano nazionale (che come i libri, salvo gli addetti ai lavori, non legge quasi nessuno). E però, prima di tutto, i festival sono e restano sagre, come diceva Berto, benché decorati adesso di finger food e chilometri zero (e va da sé che del Km 0 c’è il festival, a Ruvo di Puglia).
 

Sono e restano sagre, i festival, nel senso etimologico di “feste sacre”; nel senso antropologico di saturnali rivisitati o di carnevale. Vale a dire di eventi che assolvono al sogno antico di metterci a tu per tu. Noi e loro. Il palazzo (magari Chigi) e lo spiazzo. In altre parole, la casta e i fuoricasta che però – in questa sospensione estiva della realtà – fischiano e contestano. Cosa che a pensarci bene già accade d’inverno con la tivù, e cioè con l’informazione in video che noi fuoricasta fingiamo di dileggiare ma che, per insopprimibile istinto carnascialesco, ancora amiamo. Ma solo a patto che il talk ci porti Giorgia in salotto, Elly in tinello, la casta in casa. E poi ancora, da maggio a settembre, ce li riporti su un carro in piazza. Qui sotto il balcone, chilometro zero.

Di più su questi argomenti: