Il diritto o la forca?
Baby gang e ragazzi assassini: come punirli, come salvarli
Dalla Londra di Dickens alle riot xenofobe in Inghilterra, dai besprizornye sovietici alla gioventù bruciata di Putin. Così la criminalità minorile mette in crisi i benpensanti e scatena l’odio
La scena del delitto mi è familiare. Un muretto di mattoni rossi sormontati da una siepe di more. All’interno, un edificio scolastico. Dove si teneva il corso di danza intitolato alla superstar Taylor Swift. Ce ne sono in tutta l’Inghilterra. Una volta c’erano solo minuscole casette a un piano, o due. Tutte uguali. Affittate ai minatori o agli operai dai proprietari di miniere e fabbriche. In mezzo un edificio più imponente, elegante: il pub, stesso proprietario. Serviva a riprendersi parte del salario. I pub antichi sono rimasti, sono edifici protetti.
E’ in una strada simile, in un edificio simile che talvolta, quando sono lì, accompagno al suo corso “da ballerina” – come dice lei – la mia nipotina di 4 anni. E’ lì che un ragazzo diciassettenne ha ucciso a coltellate tre bambine, rispettivamente di 6, 7, e 9 anni, ne ha gravemente ferite altre sei, e due adulti. Folle inferocite hanno accerchiato la locale moschea e gli ostelli per richiedenti asilo. E’ iniziata una caccia al musulmano e all’immigrato. I social, e anche il solito X di Elon Musk, avevano diffuso la notizia che l’assassino sarebbe stato un migrante clandestino. Un video messo in rete da uno dei più noti leader xenofobi, in cui si diceva “un immigrato senza documenti, arrivato nel Regno Unito via mare, ha accoltellato sei bambine”, aveva registrato 14,9 milioni di visioni. Un altro noto agitatore islamofobo si era chiesto in un post “perché mai il nostro governo (ora guidato dal laburista Starmer) consente che questo immigrato siriano uccida bambini innocenti”. Il giudice, per smentire le fake news, ha autorizzato che si pubblicassero nome e generalità del diciassettenne assassino, contrariamente a quel che di norma si fa per i minori. E’ nato a Cardiff, è figlio di rifugiati dal Ruanda, scampati al genocidio. Non è neanche musulmano.
La rivolta violenta è andata avanti per settimane, a Bristol, a Londra e in altre città. Incitata sui social da formazioni xenofobe di estrema destra, alcune dichiaratamente fasciste. Organizzata con spostamenti in auto, bus, treno. Scontri con decine di poliziotti feriti. Tra gli arrestati, ancora ragazzini: 10, 11 anni. E poi contromanifestazioni, assai più numerose. Non s’era visto niente del genere da quando nel 1936 gli antifascisti si scontravano con le squadracce del ducetto filonazista Oswald Mosley, che prendevano d’assalto l’East End di Londra, rifugio dei profughi ebrei, ha notato qualche giornale.
Altra scena. Pescara, Italia. Un sedicenne viene accoltellato, in un parco pubblico in stato di abbandono. E’ un ragazzino difficile. Figlio di madre colombiana e padre italiano, era stato abbandonato dai genitori e cresciuto dalla nonna. Pregiudicato per piccolo spaccio, era stato affidato a un centro di riabilitazione, che aveva lasciato per incontrare i suoi aggressori. Questi sono ragazzi “di buona famiglia”. Diciassettenni che vanno a scuola. Uno è figlio di un’avvocata. Un altro è figlio di un ufficiale dei carabinieri. Gli hanno assestato venti coltellate. Gli hanno anche spento una sigaretta in faccia, e coperto di sputi mentre era agonizzante. Poi si sono fatti un selfie, e sono andati a fare il bagno in spiaggia, come se nulla fosse. L’hanno ucciso per una “mancanza di rispetto”, un debito di 200 euro, hanno raccontato agli inquirenti. Il branco è sempre un moltiplicatore della violenza. E ancora, storie a non finire di ragazzini che stuprano in gruppo ragazzine. L’accoltellatore di Liverpool è un mostro isolato. Quelli che volevano linciare gli immigrati erano un branco. “La follia è rara negli individui – ma è la regola per i gruppi, le fazioni, i partiti, le nazioni”, aveva intuito Nietzsche.
Altra scena ancora. Dall’altra parte del mondo, in Cina. Una ragazzina di otto anni viene accoltellata, e il corpo lasciato in un boschetto di pioppi. Il padre della ragazzina è disperato che il perpetratore non sia punibile con la sentenza capitale. L’assassino è un ragazzino tredicenne. Ha confessato di aver agito “per odio verso le femmine”, perché ce l’aveva con la mamma che lo maltrattava da piccolo. Ma le confessioni in Cina si sa, lasciano il tempo che trovano. La mamma, intervistata dal giornale locale, Stella rossa, dice che il ragazzino veniva bullizzato a scuola: i compagni lo avrebbero costretto una volta a mangiare feci.
Bambini che ammazzano altri bambini. E’ un fatto di cronaca diventato molto comune. Suscita sempre molta emozione e un intenso dibattito sui media. Il caso di due ragazzini tredicenni che avevano attirato un compagno di scuola in una serra in cui avevano scavato una buca, e l’avevano ucciso e sepolto lì, ha prodotto oltre un miliardo – sì, un miliardo – di click. L’argomento è sempre lo stesso: il fatto che i minori non siano punibili alla stregua degli adulti. Gli interventi chiedono maggiore severità. Qualcuno invoca la pena di morte. Indigna che si cerchi di giustificare i colpevoli col fatto che spesso provengono da famiglie disagiate, povere. I ragazzini diventano criminali perché sanno di non essere punibili, l’argomento degli indignati. Un professore di diritto criminale, che ha 30 milioni di followers, accusa di “relativismo morale” chi è contrario a punire i ragazzini come se fossero adulti.
Il paradosso è che la Cina, così severa nel punire, anche con la pena di morte, delinquenti e dissidenti, supera in clemenza l’occidente in fatto di severità nel giudicare e nel punire i minori. Le convenzioni internazionali suggeriscono un’età minima di 12 anni per essere incriminabili e punibili. Negli Stati Uniti varia da stato a stato, in molti non c’è nemmeno età minima. In Cina l’età minima era 14 anni. Nel 2021 è stata abbassata a 12. Le autorità incoraggiano i tribunali ad alternative alla prigione, come programmi di rieducazione o servizio civile. Anche se la cosiddetta “rieducazione” in Cina non è mai stata rose e fiori. Tanto che qualche genitore preferisce che vadano in prigione. Tra 2008 e 2022 le condanne di minori sono diminuite del 70 per cento. L’opinione pubblica protesta. Chiede a gran voce inasprimenti delle pene. Pare che alcuni tribunali abbiano già deciso di ascoltare la vox populi, comminando ai minori pene che vanno ben oltre quelle previste dalle leggi.
Si tratta di un dilemma che si è già presentato in altre epoche e ad altre latitudini. La Russia degli anni 20 e 30 era percorsa da orde di besprizornye, bambini abbandonati, orfani creati dalle guerre civili, dalle collettivizzazioni forzate e dal terrore staliniano, dalla carestia e dalla repressione dei kulaki. “Bambini senza tetto” è la traduzione dell’espressione russa. Si contavano a milioni. Vivevano per strada, nei cassonetti, negli anfratti delle stazioni ferroviarie (ci sono foto d’epoca impressionanti). Campavano di espedienti, furti, rapine, promiscuità, accattonaggio. Si cibavano di rifiuti, e in qualche caso anche di carne umana. Bevevano miscugli alcoolici micidiali. Per tirarsi su, sniffavano colle, o anche cocaina. L’uso del marafet, la “polvere bianca”, pare fosse abituale non solo tra intellettuali e artisti, ma anche tra i più disagiati. Erano organizzati in bande. Erano feroci, crudeli. Si ammazzavano tra di loro (e di questo nessuna se ne curava). Ma ammazzavano anche gente per bene. Su 29.257 reati commessi dai besprizornye nel 1924 in Russia, senza contare Mosca, si registrano 118 omicidi. Tra questi 20 compiuti da bambini tra i 10 e gli 11 anni, e 22 da bambini di età inferiore ai 10 anni. Le statistiche forse sono per difetto, gli omicidi sono pochini rispetto alla popolazione (e d’altronde come poteva essere diversamente nel nuovo ordine comunista?). Ma è significativa l’età dei perpetratori. I romanzi dell’epoca (erano proibiti, gli autori vennero mandati al gulag o fucilati), le autobiografie, le numerose inchieste ufficiali, ne parlano in abbondanza. In Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica. 1917-1935 (Adelphi 2019) Luciano Mecacci ne fornisce copiosa quanto agghiacciante documentazione.
La gente non ne poteva più. Ne avevano paura. Era diventata una psicosi di massa. Dopo un fatto di cronaca che aveva particolarmente scosso l’opinione pubblica, l’assassinio, in casa loro, di una coppia di anziani coniugi a Mosca (erano stati torturati, perché dicessero dove avessero nascosto i preziosi, prima di venire uccisi) aveva fatto traboccare il vaso. Il Consiglio dei commissari del popolo (il governo sovietico), nell’aprile 1935, aveva deciso di abbassare il limite di età per la persecuzione penale. “A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furto, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passibili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive”, suona il provvedimento. Il limite a 12 anni fu aggiunto, di suo pugno, da Stalin sulla bozza preparata dal procuratore generale Vyšinskij. Una circolare segreta trasmessa agli organi competenti chiariva che tra le misure punitive andava annoverata anche la pena capitale (mediante fucilazione). Così venne accontentata l’opinione pubblica.
I ragazzi di strada a Mosca ci sono ancora. Ma si vedono, e soprattutto se ne parla molto meno. Li chiamano ora bomzhi, senza fissa dimora. Un tempo li avrebbero chiamati huligani, teppisti, termine che sotto il comunismo si applicava a tutta la gioventù disubbidiente. L’Arbat, ristrutturato per assumere le sembianze di una via russa dell’Ottocento, è diventato zona franca per balordi: ragazzini scappati di casa o da situazioni violente, punk, hippie, raver, skinhead, satanisti, “tolkienisti”, travestiti da fantasy medievale. Oltre che di giovani appassionati di musica, poesia, canzoni, come ai bei tempi della protesta dei “dissidenti”. Certi studi parlano addirittura di un “sistema Arbat”, con le sue regole e i suoi riti. E’ un magnete per ragazzini e ragazzine scappati di casa, lasciati indietro dai genitori migranti da un angolo all’altro della Russia, clandestini a Mosca. Ce ne sono di provenienti dalla Moldavia o dalla Bielorussia. E’ tollerato l’askat (accattonaggio soft, neo-russo dall’inglese to ask, chiedere). Non il borseggio o i fatti di sangue. Infastidirebbero i turisti. I ragazzini dell’Arbat sono un po’ l’élite della gioventù bruciata. Un gradino sopra quelli della Russia profonda. Putin ha la possibilità di arruolarli nei riformatori e mandarli a morire in Ucraina.
I ragazzini delle banlieue francesi di immigrati, o quelli delle inner cities americane, affollati di neri e ispanici, di immigrati irregolari o regolari, o i ragazzini arruolati dalla malavita nelle nostre Gomorre, non sono più teneri né più innocenti. Innocenti sono certo i bambini e gli infanti costretti a stare, e talvolta crescere in carcere con le loro mamme. E devo confessare di non aver ben capito se il recente decreto carceri se ne cura o meno. A New York per la prima volta c’ero andato negli anni 70, che c’era la psicosi dei quartieri “difficili” dove scorrazzavano piccoli delinquenti, giovani tossici pronti a tagliarti la gola per pochi dollari. “Non andare a Harlem, nel Bronx, nel Queens, downtown Manhattan sulla Bowery”, era il refrain di consigli degli avveduti. Mi è capitato di vedere di recente, zappando in tv, un vecchio film ambientato in quegli anni, “L’amico silenzioso” (titolo originale The Guardian, 1984). Un condominio per bene assume un buttafuori inquietante. Il protagonista, recatosi nel Queens in cerca di una spiegazione col guardiano, viene attirato in una trappola da un ragazzino di colore di pochi anni. I guerrieri della notte (del 1979, su una banda di ragazzini che attraversa tutta Manhattan braccata da altre bande) mi capitò di vederlo a Venezia in uno dei rari ritorni da Teheran dove erano inviato a seguire la rivoluzione di Khomeini. In confronto l’Iran sembrava un’oasi di tranquillità. Quando, a fine anni 80, mi trasferii in America a fare il corrispondente, Los Angeles era infestata da gang rivali di ragazzini e ragazzine, distinte dal colore della bandana, che si mitragliavano con gli Uzi. Non oso pensare che piega prenderebbe la campagna per le presidenziali Usa se anche quest’anno, come sempre succede col gran caldo, scoppiassero riot razziali.
Non riesco a cancellare due scene viste e lette quando ero bambino. Hanno lasciato una traccia indelebile. Quasi traumatica. Le ricordo con angoscia ogni volta che mi tornano in mente o le sogno. Una è una scena di un film in bianco e nero. L’avevo rivisto anche di recente, ma continuo a cancellare dalla memoria il titolo del film. Un bambino ruba una borsetta. Si nasconde in un luogo umido e scuro, dove gronda dell’acqua dalle pareti. Forse un cesso pubblico. Apre la borsetta e ne esamina il contenuto. La tensione è insopportabile. L’altra è una lettura, sempre da bambino. Anche qui la memoria vacilla. L’ho ritrovata da qualche parte, non molto tempo fa. Poi mi si è ricancellata dalla memoria. Ma anche in questo caso l’inconscio censura. Forse si tratta de Il principe e il povero di Mark Twain. Il protagonista povero, sosia del principino, è un ragazzo di strada che vive di espedienti. E’ orfano, la mamma è stata giustiziata in modo atroce: calata in una calderone di olio bollente.
Non mi angosciò invece la storia che ci raccontò l’insegnante di religione. In terza elementare, la prima scuola in Italia, dopo aver frequentato i primi anni in una scuola turca. Un figlio, spinto a ciò da cattivi maestri, o cattive compagnie, uccide la propria madre, e le strappa il cuore. Mentre corre a portare il trofeo a chi lo ha messo sulla cattiva strada, inciampa e cade. Il cuore della mamma gli dice: ti sei fatto male figlio mio? La trovai semplicemente stupida. Chiesi a mio padre di farmi esonerare dalle lezioni di religione.
I bambini delle favole non sono particolarmente edificanti. Sono capaci di crudeltà terrificanti a danno dei loro “nemici”. Va bene che quelli sono orchi e streghe, gli volevano fare anche di peggio, è legittima autodifesa. Nelle guerre in giro per il mondo i più cattivi, i più spietati sono sempre i giovanissimi, i soldati bambini. Carnefici e vittime al tempo stesso.
Un vero e proprio trattato sulla crudeltà infantile è Il signore delle mosche, scritto da William Golding all’indomani della Seconda guerra mondiale. Un gruppo di ragazzini ben educati e di buona famiglia, finiti su un’isola deserta a causa di un incidente aereo, si scatena in un crescendo di crudeltà e di orrori, prima a danno degli animali (“Ammazza il maiale. Tagliagli la gola. Versa il suo sangue”), poi nei confronti dei più diversi e deboli nel gruppo, infine nei confronti dei dissidenti (“Era una pippa; grasso, miope, col suo ass-mar [gioco fonetico di parole tra asma, culo e asino] e le sue idee noiose”, dicono del primo “diverso” che fanno fuori. Si fanno un loro dio (la testa del maiale infissa su un palo, e circondata da sciami di mosche) e un loro leader autoritario e populista. Non si limitano a subirlo, se lo creano, se lo inventano. C’erano appena stati un conflitto mondiale sanguinoso, disumano e spietato, l’Olocausto, Hitler. L’Europa meglio educata e più “civile” era stata capace di escogitare il peggio che mente umana può concepire. La favola, apologo, allegoria che dir si voglia, ha impressionato generazioni di lettori, è stata analizzata, anatomizzata, nelle maniere più disparate. Scomodando etica, pedagogia e psicoanalisi, Nietzsche e Freud. “Il problema non è solo la violenza, ma la menzogna per cui commettiamo atrocità di continuo ma facciamo finta di non farlo. Pretendiamo che coloro che abbiamo tormentato, umiliato, mutilato, ucciso, sfollato, abbandonato e ignorato, siano essi stessi violenti, immorali o eretici”. Per mia fortuna, mi è capitato di leggerlo che ero già adulto.
Pura goduria invece altre letture giovanili sulle avventure dei ragazzi di strada. Il Lazarillo de Tormes l’avevo divorato in un pomeriggio. Poi ho scoperto che era uno dei libri preferiti da Shakespeare. Molto più divertente di Huckleberry Finn. E del loro prequel al femminile, la Celestina. Il picaresco del Siglo de Oro spagnolo, che parla di giovani vagabondi e delinquenti è uno dei “generi” letterari più sublimi. Solo in apparenza Cervantes preferisce scrivere di gentiluomini un po’ svitati traviati dai libri di cavalleria anziché dai romanzi picareschi. Il suo Rinconete y Cortadillo (Cantuccio e coltellino, la simpatia è già nei diminutivi) è uno dei gioielli delle Novelle esemplari. Sono due ragazzini tredicenni che hanno scelto la vita vagabonda e si iscrivono all’“università del crimine” di Siviglia. Pare che abbiano ispirato l’Oliver Twist di Dickens, che li lesse nella libreria di suo padre. I picari sono violenti, talvolta cattivi. Ma arguti, spiritosi. Spesso sono spinti alla vita vagabonda per scelta (vengono da famiglie bene), per voglia di avventura e di libertà, anziché dalla miseria, per necessità. Non ammazzano nessuno. Ma se presi rischiano di venire giustiziati. La Francia dell’Ottocento aveva intere biblioteche di libri dedicati agli Enfants de la route, ai piccoli vagabondi. Il Gavroche dei Misérables è un eroe.
Per tornare alla vecchia, cara Inghilterra, i romanzi di Charles Dickens narrano l’entroterra, a distanza di oltre un secolo e mezzo, di quello che le cronache di questi giorni ci dicono di Liverpool, Manchester, Birmingham, Londra. Oliver Twist e Casa desolata sono anche romanzi autobiografici. Dickens aveva seguito per un certo periodo in carcere il padre imprigionato per debiti. Quale lettore non è rimasto turbato all’idea della brutta strada in cui rischia di andarsi a ficcare il giovanissimo e delicato Oliver quando lo costringono a tradire e derubare il suo benefattore e riunirsi nuovamente alla banda di piccoli delinquenti organizzata dal bieco Fagin? Fagin non è neanche tanto cattivo, ha sprazzi di umanità, vuole anche bene ai suoi ragazzi. La sua è una figura ricalcata su un personaggio reale dell’epoca, l’ebreo Issac Salomon, esperto organizzatore di bande di ragazzini borseggiatori. Dickens era tra gli autori più letti nella Germania nazista. Leggevano Londra e pensavano Berlino, Alexander Platz e dintorni. Leggevano orfani e pensavano alle orde di ebrei immigrati dall’est, organizzati da sfruttatori senza scrupoli in bande di ladruncoli, giovani prostitute, criminali. La favola sarebbe servita da giustificazione dello sterminio. Le lezioni di borseggio di Fagin sono tra le pagine più spassose del libro. E’ stato immancabilmente rappresentato nelle illustrazioni, e in tutti gli innumerevoli film, fino ai giorni nostri, con stereotipati torvi tratti semitici.
L’Ottocento britannico brulica di romanzi, memoriali, inchieste giornalistiche e di riformatori sociali che trattano di quartieri malfamati, carceri, infanzia abbandonata o maltrattata da genitori depravati, di bambini traviati e abbrutiti dalle condizioni in cui vivono, avviati alla criminalità. “Ho osservato a Newgate (il carcere famoso per le pubbliche esecuzioni) ragazzini condannati a morte (anche se il ragazzo, così come il giudice e tutti i presenti sapessero bene che alla sentenza non sarebbe seguita impiccagione), assumere un’aria di superiorità rispetto ai ragazzi condannati (solo) alla deportazione (in Australia). Così come il ragazzino condannato alla deportazione a vita si sente più importante di quello condannato a (soli) sette anni […] Borseggiatori e responsabili di furto con scasso guardano dall’alto in basso meri taccheggiatori, quelli che hanno rubato per procurarsi del cibo. O si trovano in carcere solo per accattonaggio”, osserva l’autore di un rapporto del Select Committee on Criminal and Destitute Juveniles (1852). Liverpool era seconda solo a Londra. Nel 1800 un ragazzino di 10 anni fu condannato a morte, e il giudice si rifiutò di commutare la sentenza citando “il pericolo infinito rappresentato dal fatto che un bambino possa commettere crimini simili restando impunito”. Nel 1808 un ragazzo di 13 anni fu impiccato per aver appiccato un incendio; stessa sorte toccò a due sorelline di 8 e 11 anni. Nel 1801 un ragazzo di appena 9 anni fu impiccato per essersi introdotto con effrazione in una casa e aver rubato un cucchiaio. Nel 1833 un altro ragazzino di 9 anni fu condannato a morte per avere spaccato una vetrina ed essersi impossessato di un vasetto di colori da stampa del valore di pochi penny. Per non dire del sovraffollamento e della promiscuità nelle carceri.
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