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La retorica dell'apocalisse

Ecco tutte le bugie che l'ecologia bio-illogica mette in giro per spaventarci

Antonio Pascale

Dalle api in pericolo, che sarebbero le uniche agenti dell’impollinazione nel mondo, agli Ogm, bestia nera di chi non si rende conto che anche in natura tutto si modifica. Catalogo contro l'isteria

L’ecologismo dovrebbe essere un movimento troppo serio, importante, vitale e foriero di innovazioni per essere lasciato in mano a quegli ecologisti che hanno un’indole conservatrice e preferiscono lanciare slogan utili pro domo sua, nella fattispecie per accreditarsi nei talk o favorire certe ascese politiche. Gli ecologisti conservatori tendono a semplificare parecchie questioni, mancano di uno sguardo di insieme: quello che risulta  necessario per valutare sia lo stato dell’arte, sia gli strumenti per cambiare lo stato dell’arte, sia stabilire realisticamente la fisiologica velocità della transizione. È bello lanciare frasi a effetto, per esempio “le fonti fossili sono figlie del patriarcato”, come scrisse nel 2018 Cara Daggett, introducendo il termine “petromascolinità”. Più faticoso tuttavia è studiare come funziona il mondo, attraverso quali meccanismi energetici (grazie alle fonti fossili) abbiamo costruito una società più benestante e libera. Dove, tra l’altro, grazie all’emancipazione di classi sociali da millenni sotto ricatto, sono nati movimenti come l’ecologismo e il femminismo. Le fonti fossili non possono più essere usate, ovvio, non possiamo estrarre ogni anno 10 miliardi di tonnellate di carbone, e tuttavia la petromascolinità polarizza la discussione.
 

Questo termine, anche se nello studio di Cara Daggett è usato per contestare giustamente i negazionisti (climatici e non, insomma quelli che si credono virilmente invincibili), nel complesso della comunicazione è servito solo a sentirsi dalla parte giusta del mondo. Ma questo genere di narrativa, appunto, molto polarizzante, non ci fa capire quali sono le caratteristiche chimiche/fisiche delle fonti fossili e del petrolio, che al momento, nonostante i picchi annunciati a intervalli regolari a partire dagli anni 70, è purtroppo ancora una fonte importantissima (e inquinante, chiaro). Non solo, altra tendenza degli ecologisti conservatori, i quali hanno fatto buone scuole di comunicazione, è aver fondato un immaginario bucolico, insistendo sui bei tempi andati, inquadrando le opere umane tutte in chiave catastrofista. Per esigenze comunicative raccontano sciocchezze, imprecisioni e tutto ciò non giova al movimento ecologista (quello serio, vitale e foriero di innovazioni), ma alimenta caos e confusione. Molto spesso questo atteggiamento, nel bailamme in cui viviamo, non fa capire quali sono gli strumenti utili (a che prezzo lo sono) e quali quelli inutili (o utili per pochissimi benestanti).
 

Vediamo qualche esempio di imprecisione o falsità che caratterizza da decenni un certo pensiero ecologista. Concentriamoci sulla terra. Ha senso la vecchia e mai paga campagna di Greenpeace che sostiene che le api vanno salvate (e quindi bisogna finanziare coloro che si battono per la loro salvezza)? Questa campagna pubblicitaria è un buon esempio del regime di semplificazione (e in alcuni casi di falsificazione) a cui spesso siamo sottoposti quando leggiamo di cose agricole. Senza le api non ci sarebbero molte specie vegetali – si dice – nemmeno fragole e pomodori. E’ vero? O la questione è più complessa? Vediamo. Circa il 90 per cento delle piante usa un animale per trasferire il polline durante l’impollinazione. Questi animali, anche definiti pronubi, sono spesso insetti. La prima semplificazione consiste nell’associare la vasta famiglia di insetti pronubi alle api, più precisamente alle api da miele, quelle che gli entomologi chiamano Apis mellifera. Questo abbinamento è così forte che molto spesso quando si parla di impollinatori si stampano brochure solo con le api mellifere. In realtà, sono circa tra cento e duecentomila le diverse specie in grado di agire da impollinatori, e solo il 15 per cento dei vegetali si  appoggia alle api domestiche e per giunta non in forma esclusiva: molte piante preferiscono infatti affidarsi contemporaneamente a più servizi di trasporto. A livello globale, il 75 per cento delle principali colture agrarie si basa sull’impollinazione operata da animali, mentre in Europa la produzione di circa l’80 per cento delle 260 specie coltivate dipende dall’attività degli insetti impollinatori. Se ci riferiamo invece alle sole api domestiche, le piante che dipendono esclusivamente da loro sono poche: kiwi, frutto della passione, sorbo, anguria, zucca e zucchine, mentre per molte altre piante le api domestiche sono importanti, ma anche bombi e api solitarie danno un contributo decisamente rilevante. Ad esempio, per impollinare i pomodori in serra si preferiscono i bombi alle api. Aggiungiamo che le 12 colture che forniscono il 90 per cento del cibo mondiale – riso, grano, mais, sorgo, miglio, segale, orzo, patate, patate dolci, manioca, banane e noci di cocco – sono impollinate dal vento o autoimpollinate, oppure si propagano agamicamente o si sviluppano senza necessità di fecondazione sfruttando la partenocarpia. Parlare solo delle api domestiche è riduttivo, bisognerebbe parlare di  impollinazione data da apoidei ma questa precisazione rischia di far crollare la lancia della comunicazione a effetto e/o ricattatoria.
 

Il fatto è che a partire dai primi anni 2000, negli Stati Uniti ma anche in alcune nazioni europee (tra cui Francia, Belgio, Svizzera, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia e Spagna), vi è stata un’importante diminuzione delle popolazioni di api. Nel corso degli ultimi 20 anni sono stati condotti numerosi studi per capirne le cause, ma mancano risultati conclusivi. La convinzione diffusa tra i ricercatori è che lo spopolamento degli  alveari derivi da un insieme di più fattori, che comprendono sia la diffusione di patogeni e parassiti delle api, sia la presenza nell’ambiente di alcuni principi attivi a cui le api domestiche sono particolarmente sensibili. Secondo alcuni ricercatori anche la frammentazione degli habitat, le estese monocolture e il nomadismo (molto comune in particolare in America dove le api sono spostate per centinaia di chilometri per impollinare ampie aree coltivate) sono parte del problema. In Italia? Molto meglio, la perdita è stata contenuta rispetto alle altre nazioni europee. In Italia ci sono stati alcuni casi che hanno avuto ampio risalto mediatico, ma comunque non sono state identificate cause univoche (un virus che deforma le ali delle api o l’utilizzo non corretto di alcuni agrofarmaci). Su scala globale? Qui i dati della Fao ci dicono che in Asia e Africa gli apiari sono in continuo aumento dagli anni 60 ad oggi. Negli Usa le perdite, seppur ancora presenti, sono divenute meno diffuse. Per aggiungere una sana dose di  complessità, ricordiamo che il crollo (europeo) della popolazione di api domestiche mostra un picco intorno al 1989/90, periodo conseguente alla caduta del Muro. C’erano infatti molti cittadini della Germania Est che coltivavano api (il regime glielo concedeva) per integrare il reddito statale. Poi molti apicoltori smisero l’attività.
 

Sappiamo che la monocultura non è proprio il massimo come pratica agricola e che tutti noi risentiamo dell’ambiente che muta, tuttavia, concentrare le risorse su poca terra e spingere la produzione è purtroppo una necessità: siamo otto miliardi. Nessuno di noi discetterebbe a lungo sulla necessità di allungare la vita e di abbassare la mortalità infantile, siamo tutti d’accordo che questi parametri sono un bene. Ma per farlo dobbiamo nutrirci. Più e meglio ci nutriamo, più e meglio viviamo. La crescita della popolazione, avviata in maniera esponenziale negli anni 60, la dobbiamo alla migliore alimentazione, ai vaccini, agli antibiotici, alle pratiche igieniche e alle fognature. Le campagne ecologiste come quelle di Greenpeace, impattanti dal punto di vista emotivo, rischiano solo di farci emozionare ma non pensare (come dice il protagonista di una celebre vignetta di Altan o come per anni ha sostenuto Bertolt Brecht). Non ci fanno riflettere sulla complessità, sulle interazioni tra noi e l’ambiente. Ci impigriscono e ci impediscono di  analizzare la materia del mondo.
 

Per anni una certa narrazione ecologista ha portato avanti l’immagine del mondo come paradiso terrestre. L’esempio più lancinante (per gli ecologisti razionali) lo si ritrova nel fondatore di Slow Food Carlo Petrini (amato da tutti, anche perché la gastronomia è un must nel dibattito pubblico), che ha svolto un ruolo importante di opinionista su Repubblica. Nel bel mezzo del dibattito sugli Ogm, nel 2010, Petrini pubblicò una specie di tavola della Legge: dieci motivi per dire no agli Ogm. Il punto otto  recitava: “Le piante infatti mal sopportano le modificazioni genetiche e questa scienza è ancora rudimentale e in parte affidata al caso”. È un punto che invalida tutti gli altri punti. Insomma, se questa affermazione fosse vera dovremmo riscrivere la storia del mondo. È un po’ come dire: la Terra è piatta. Le mutazioni sono il pilastro fondativo della vita sulla Terra e non riguardano solo le piante: a prescindere dalla presenza dell’uomo, gli organismi viventi mutano eccome. A partire dagli anni 60, dopo la scoperta del Dna, siamo diventati molto bravi a cercare mutazioni a noi utili.
 

Possibile che ci facciamo suggestionare da quelle belle immagini stile catechismo? Purtroppo sì, l’immaginario creazionista finisce solo per alimentare la retorica delle cose antiche e tradizionali, dunque intoccabili, da preservare, i confini, il sovranismo, salvo poi lamentarsi della cultura trumpiana. Finisce che, incarcerati da queste convinzioni, quando la ricerca ci fornisce strumenti utili per abbassare gli input e risparmiare risorse, pensiamo che il diavolo in persona abbia creato gli Ogm. Difatti, a causa di alcune suggestive quanto imprecise campagne ecologiste, abbiamo perso una grande occasione per ridurre la nostra dipendenza dalla chimica. Ma ci arriviamo. Prima, a proposito di chimica, approfittiamone per smontare un altro mostro: gli agrofarmaci (i produttori li chiamano così, i tecnici preferiscono fitofarmaci, gli ecologisti pesticidi). Gli agrofarmaci non sono il male, anzi, fate caso al seguente conflitto: la mattina chiamate un esperto per chiedere se i pomodori che avete comprato sono veramente liberi da residui di agrofarmaci. Poi la sera chiamate sempre lo stesso esperto perché avete i gerani pieni di orribili vermi (così chiamate lo stato larvale dei lepidotteri) e desiderate un agrofarmaco potentissimo tipo Napalm per bruciare tutti i vermi e liberare le potenzialità del geranio. Non è schizofrenia. È solo l’espressione di un conflitto: quando siamo consumatori vogliamo un prodotto buono, gustoso e sano, quando siamo produttori vogliamo offrire un prodotto buono, gustoso e sano.
 

Estendiamo questo conflitto a tutte le attività umane, e faremo un passo in avanti. Nel senso che possiamo valutare i conflitti: vogliamo le auto elettriche? Bene, hanno bisogno di una quantità di rame di circa tre volte maggiore, non più 23 chili di rame ma più di 80. Ci sono un miliardo e passa di veicoli da sostituire, quanto rame dovremmo prelevare dalle miniere, e in quali miniere? Il mondo è tutto un conflitto, perché i pasti gratis non esistono. Quelli, forse, li avremo nel paradiso terrestre, ma sulla terra l’energia ha le sue regole e limitazioni, che andrebbero descritte in maniera chiara e popolare. Quaggiù siamo continuamente chiamati a valutare (si spera con sana epistemologia) i benefici e i danni (che i benefici portano con sé) e a prendere in considerazione e con coraggio alcuni paradossi: “L’elettricità è la cosa migliore al mondo dopo Dio e anche la nostra più grande speranza per affrontare i cambiamenti climatici. Tuttavia anche in base alle previsioni più ottimistiche sui progressi che possiamo fare nel riciclo avremo bisogno di incredibili quantità di rame: estrarre il rame da sotto terra o dal mare è un bel pasticcio. L’ennesimo paradosso del mondo materiale, per provare a uscirne potremmo dover far affidamento sul combustibile fossile che ci ha precipitai in questo disastro” (Ed Conway). Ma torniamo al paradosso degli agrofarmaci. Hanno curato una piaga millenaria, la carestia dovuta a infestazioni di patogeni. Se siete scettici provate a mettere su un’azienda agricola in alcuni stati africani dove c’è carenza di chimica (niente concimi, niente agrofarmaci e poco miglioramento genetico). Finirete come l’intellettuale nel secondo episodio di “Caro diario” di Nanni Moretti, scapperete verso la civiltà al grido di diserbanti, concimi, maritozzo con la panna ecc.
 

La chimica ha risolto molti problemi ma dosi eccessive (negli anni 70) hanno causato guai seri. Anche sotto la spinta dei movimenti ecologisti sono stati prodotti agrofarmaci sempre meno impattanti e che funzionano in dosi minori, basta consultare un qualsiasi manuale del perito agrario degli anni 80 e uno moderno. In termini di uso pro capite, per dare da mangiare a un italiano per un anno intero, tutti gli agricoltori del Belpaese messi insieme utilizzano poco più di 900 grammi di sostanze attive, senza i quali, peraltro, è impossibile proteggere le colture agrarie dalle avversità. Quelli spruzzati nei campi non sono ovviamente quelli ingeriti pro capite. Quelli si possono stimare oggi, mediamente, in alcune decine di milligrammi l’anno, pari a circa un centinaio di microgrammi al giorno: i livelli di sicurezza sono oggi altissimi e quello che resta sui frutti alla raccolta è spesso decine o centinaia di volte al di sotto dei limiti di legge, già di per sé cautelativi. Poi l’ortofrutta la laviamo, la asciughiamo, la sbucciamo, la cuociamo. Non è solo la quantità delle sostanze a essere scesa drasticamente, è migliorata anche la qualità di questi prodotti. Vi sono oggi agrofarmaci meno tossici di gran parte dei prodotti usati in casa per lavare e igienizzare. Questo perché rispetto al 1990, nel volgere di pochi anni, il 67 per cento delle molecole impiegate è uscito dal mercato, in quanto obsoleto e non più in linea con i nuovi criteri autorizzativi, molto più stringenti rispetto ai precedenti (per rispettare questi  parametri le industrie chimiche impiegano anni di lavoro e spendono centinaia di milioni di euro per provare la bassa tossicità delle molecole). Solo il 26 per cento di ciò che usavamo in passato ha infatti meritato di sopravvivere al vaglio normativo, con in più un’ulteriore lista di 77 molecole in attesa di sostituzione. Ciò significa che se dovessero arrivare molecole ad azione simile, ma migliori dal punto di vista tossicologico e ambientale, queste verrebbero revocate e non si potrebbero usare più. E fra queste 77 molecole nel “braccio della morte”, per così dire, c’è anche il rame, cioè il pilastro portante dell’agricoltura biologica, la quale senza questo metallo non riuscirebbe più a contenere le patologie contro le quali ne fa oggi ampio uso. Quindi la chimica veramente non è più  quella di una volta, perché è più sostenibile.
 

Ma arriviamo al demonio: gli Ogm. Avrebbero meritato quanto meno un applauso e un approfondimento. Vale la pena riassumere la questione, ora a bocce ferme, per capire come imprecisioni, bugie consapevoli, ignoranza in materie specifiche, hanno bloccato culturalmente e politicamente questi strumenti innovativi. Partiamo dall’Abc. L’uso di prodotti chimici è diffuso anche in regime biologico. Non cambia molto se sono naturali e non di sintesi, quella che uccide il patogeno è un molecola. E poi la natura può essere tossica: la cicuta è molto naturale, cresce anche in campi incolti, non trattati. Dunque, anche in regime biologico è impossibile pensare di eliminare la chimica totalmente. Si può tuttavia tentare di sviluppare strategie per ridurne l’uso il più possibile. Per fortuna che c’è il Bacillus Thuringiensis, le cui proprietà sono note fin dai primi anni del Novecento. Si tratta di  un batterio che al momento della sporulazione produce tossine nocive per varie famiglie di insetti, lepidotteri, coleotteri, ditteri, ma innocue per i mammiferi e per l’uomo. Perché? Perché le tossine si attivano in ambiente basico. Nelle specie come i mammiferi il primo ambiente, quello dello stomaco, presenta com’è noto PH acido, quindi la tossina viene denaturata; manca poi in ambiente intestinale il recettore, dunque la tossina, per usare un termine non tecnico, non viene “agganciata” e passa via senza colpo ferire. La sicurezza è dunque garantita: è l’insetticida più studiato al mondo, infatti è diventato il principe dell’agricoltura biologica, visto che  sono a base di Bacillus Thuringiensis la maggior parte delle formulazioni insetticide usate in questo campo (ovviamente dietro queste formulazione c’è un’industria chimica, le multinazionali producono sia princìpi attivi per l’agricoltura convenzionale sia quelli per l’agricoltura organica).
 

Ora, prendiamo un insetto che infastidisce molto i maiscoltori, la piralide: è molto affamato, divora foglie e pannocchie. Possiamo usare questo batterio per contrastare efficacemente la piralide? Certo! Per esempio mettendo in atto tecniche di lotta integrata. Prepariamo delle trappole per la piralide, così da definire, contando le larve a campione, quanti adulti avrebbero potuto infestare il campo. Dopo di che, introduciamo una certa quantità del batterio Bt, proporzionale alle larve di piralide attese. Tuttavia c’è un problema non secondario: le spore di Bt sparse a caso, anche se sono considerate naturali, possono uccidere pure quegli insetti che non predano il mais, come la coccinella, un coleottero molto utile, che preda altri insetti. Dunque, in un’ottica di riduzione degli sprechi e di aumento della biodiversità, un ecologista inquieto si renderebbe conto che la diffusione delle tossine ricavate dal batterio presenta qualche inconveniente. Si renderebbe altresì conto che alcuni maiscoltori coltivano grandi appezzamenti. Per loro, dunque, la suddetta procedura risulta costosa, faticosa e impattante: devi entrare nel campo per diffonderlo, dunque maggior inquinamento, compattamento dei terreni. Come rendere dunque l’uso del Bt più sostenibile? Provare con l’ingegneria genetica. Trasferire quel segmento di Dna Bt (poche basi) che producono le spore alla pianta stessa di mais. Così la pianta stessa produce la tossina e solo quegli insetti che predano la pianta muoiono. Le coccinelle si salvano. E poi si hanno meno spese. Non devi comprare l’insetticida, né prendere il trattore, consumare gasolio e compattare il terreno con le ruote. Come mai una pratica così sostenibile, efficace, è stata abiurata da tanti? Uno strumento biotecnologico che può essere applicato non solo alle grandi commodities ma anche, grazie a programmi di ricerca pubblica internazionale, a piante come sorgo, miglio, cassava e vigna e che dunque opportunamente migliorate potrebbero cambiare la disponibilità alimentare dell’Africa sub-sahariana.
 

Perché il dibattito, in Italia, è stato portato avanti da associazioni ambientaliste che facevano ampio uso delle suddette suggestioni e da intellettuali come Mario Capanna e Pecoraro Scanio. A questo proposito è da ricordare un vecchio sondaggio del 2003, a cura del Food Policy Institute della Rutgers. Il sondaggio prevedeva una decina di domande alle quali bisognava rispondere barrando la casella vero o falso. Più della metà degli intervistati hanno preso un voto insufficiente per avere risposto male a molti quesiti. Per esempio, solo il 47 per cento degli intervistati ha capito che l’affermazione “il pomodoro normale non contiene geni, mentre quello modificato sì” era falsa. Ciò vuol dire che buona parte di quei partecipanti al sondaggio pensano che le piante ogm siano “velenose” per il solo fatto di contenere geni. Un’altra parte degli intervistati pensava che se avesse mangiato un pomodoro modificato geneticamente, quei geni passati nel frutto avrebbero modificato i geni umani. Forse alcuni intellettuali che hanno prodotto le suddette imprecisioni sarebbero rientrati in quel 47 per cento. Incatenati a questo immaginario, per decenni abbiamo discusso se questi strumenti siano o no naturali (la natura non è naturale, la natura è un artificio mutevole creato dalle interazione tra ambiente, esseri viventi e movimenti tettonici della placche), se fanno male (fanno bene a noi e all’ambiente), e si è discusso poco o niente sull’unica cosa che andava discussa e non solo per gli Ogm: la brevettazione. Altro conflitto: da una parte dobbiamo premiare con le royalties chi ha inventato nuove procedure, dall’altra bisognerebbe impedire che queste innovazioni favoriscano posizioni di dominanza sul mercato, bloccando altre innovazioni, non potendo infatti sfruttare, se non pagando, le procedure sotto precedenti brevetti. Ci sono soluzioni in campo e sarebbe veramente il caso di focalizzare la nostra attenzione su questi temi, ma agli ecologisti conservatori piace molto suggestionare, sedurre, spaventare, appunto conservare, dunque alla fine ci si impantana in sciocchezze e qui spesso, nella palude, impigriti, con scarsa preparazione per affrontare il conflitto, culturalmente e politicamente si muore. Forse si tratta anche qui di una narrazione tossica, non so dire bene se è figlia, anche questa, del patriarcato. Quello verde ovviamente.

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