Pasquale Gagliano via Getty Image 

estate con ester

Rossa madeleine. È vero, chi non ha mai fatto la pummarola, forse davvero non ha mai vissuto

Ester Viola

Ognuno ha le madeleine dei paesi suoi, a Luzzano (Bn) questi sono i giorni della pummarola. È importante conoscere il sacro rito, prevalentemente meridionale, anche perché la faccenda è stata appena romanticized su TikTok. Ci hanno fatto anche un articolo sul New York Times, massimo sigillo che una cosa è interessante per gli americani e per tutto il mondo. Making tomato sauce con gli italiani sta incassando milioni di visualizzazioni. E in effetti, se non hai mai fatto la pummarola, forse non hai mai vissuto. 

  

L’acquisto. La pummarola, i pomodori, si acquistano in vari quintali. Si produce la salsa per il fabbisogno invernale (ragù) di molte famiglie. Il frutto che serve è quello grosso, oblungo, che termina con una piccola punta, una virgoletta, immaginare una pancia d’ape. Maturo ma non maturissimo. Il pomodoro è certo il più sensibile dei frutti, peggio dell’uva: soffre il caldo secco, e quindi fa troppi semi e ha la polpa giallo-stopposa, e odia anche l’estate piovosa, si gonfia d’acqua, gli viene un ventre gelatinoso e alla fine il sugo sa di niente. L’estate deve andare in un certo modo, per far felice il pomodoro.

 
Le pummarole vengono prenotate dal contadino quando manca un attimo alla perfezione: gli ultimissimi giorni di maturazione li devono fare in casa. I pomodori albergavano da noi nel massimo comfort una intera settimana.

  
La distesa dei pomodori. La casa diventava una tana di tigri. Il pavimento del piano taverna, un seminterrato, veniva pulito a specchio con passate di candeggina, asciugato, e si adagiavano, separati e belli, i pomodori uno accanto all’altro, lasciando delle piste libere per il passaggio dei sovrintendenti (mia madre, zie e tre aiutanti). La sorveglianza prevede un occhio preciso e classista: i pomodori in quei giorni perdono molti fratelli. Addio a quello acerbo, quello troppo maturo, quello con indizi di marcio, no quelli troppo butterati, quelli morsicati da qualcosa, quelli stentatelli e ancora verdi perché sono nati male, sotto qualche foglia troppo larga e lontani dal sole. 

 
Era una stanza magica e vietata, i minori erano interdetti. Il sogno era entrare in bicicletta e farsi largo nelle stradine cercando di non schiacciare i pomodori. 

 
Il lavaggio e la bollitura. La sciacquatura avveniva in bacinelle azzurre infinite, quasi piscine. I pomodori puliti venivano poi immersi in paioli di rame, nerissimi di fuliggine all’esterno, e messi al fuoco con acqua. Bollivano e bollivano, un rumore lento di secoli, e il paese, intero, prendeva a profumare di autunno, di velluto, di pioggia nella terra e non so che altro. Una cosa acre ma morbida prendeva tutta l’aria, il contrario del profumo di biscotti caldi che escono dal forno. 

 

La passata. La poltiglia finale – i pomodori superlessati – veniva travasata in una macchina con imbuto, una specie di tritacarne dal cui becco usciva un fiotto rosso, che finiva a cascata di nuovo nelle bacinelle azzurre. A quel punto avevi venti pozze di petrolio rosso da lavorare. Ci si sedeva intorno con mestoli e imbuto, con le bottiglie davanti, per il sabba finale, il travaso. Si concludeva con il tappo e prima, nel collo della bottiglia, il suggello finale: una foglia di basilico. Era quello uno spaccamento di schiena i cui dolori t’avrebbero accompagnato fino a Natale. Ci si salvava solo con il ciclo mestruale: la ragazza in quel caso veniva tenuta lontana dalla sacra pozione perché – se toccava qualsiasi boccaccio (barattolo) – la salsa sarebbe finita d’acido. 

 

La seconda bollitura. Le bottiglie venivano infine messe tutte insieme in grossi fusti di metallo pieni d’acqua, sul fuoco, a cuocere lentamente dalla sera alle 22. Così poteva capitare che di notte si sentisse un botto di guerra, dall’eco terrificante e metallico: la bottiglia scoppiata per errori di filiera. Una probabile cretina che aveva avvitato male un barattolo, una con le braccia deboli, che era meglio non averla intorno, tanto una salsa nella vita non l’avrebbe mai fatta, era destinata a comprarsela, quella del supermercato – ed ero sempre io.
 

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