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L'analisi

Totalitarismi e morte della verità. Putin, Trump e il potere della menzogna visto con gli occhi di Swift e Orwell

Alfonso Berardinelli

"So di essere vecchio, ma so anche distinguere fra verità e menzogne", ha detto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Una frase poco da "politico", perché in politica, la verità è marginale: a contare di più è l'astuzia retorica. Una riflessione da due saggi del nostro tempo

Credo che la migliore frase che il presidente Biden ha pronunciato prima di rinunciare alla sua nuova candidatura sia questa: “So di essere vecchio, ma so anche distinguere fra verità e menzogne”. È una frase che sembra poco adatta a un politico. In politica la verità (dirla, non capirla) è piuttosto secondaria. L’astuzia retorica vale molto di più. È più utile anche quando si mente proclamando di dire la verità. Bisogna piuttosto galvanizzare l’uditorio, la massa degli elettori, riuscendo a convincerli della propria onestà e delle proprie capacità.
 

Mi capita di nuovo fra le mani, dopo circa un quarto di secolo, il saggio di Jonathan Swift “L’arte della menzogna politica”, scritto nel 1710. La sua attualità è sconfortante, dato che stiamo vedendo in azione due campioni mondiali della bugia come Putin e Trump, leader politici dei più grandi avversari del momento. Come negli anni tra il 1945 e il 1990, gli anni della Guerra fredda, oggi ancora una volta si fronteggiano Russia e America per imporsi usando, sebbene in misura diversa e per scopi diversi, la menzogna politica. Da un lato un dittatore che elimina fisicamente gli oppositori e scatena una guerra espansionistica in Europa senza neppure dichiararla; dall’altro un grottesco tycoon, un affarista avido e un ex personaggio televisivo con diverse migliaia di cause legali e varie bancarotte alle spalle. Putin è figlio di un regime totalitario tra i più mostruosi del Novecento; Trump è uno straricco avventuriero cinicamente disposto a raccontare e sbandierare qualunque balla megalomane e xenofoba, pur di galleggiare e non farsi emarginare dalla competizione politica. In pratica due spudorati tradizionalisti che hanno assolutamente bisogno di menzogne per conservare un consenso sociale fondato sulle più illusionistiche convinzioni nazionaliste: la grande Russia e la grande America di sempre, da restaurare e da rilanciare.
 

In fondo si tratta di menzogne politiche vecchio stile, mentre le vere novità vengono dal sistema tecnologicamente irrefrenabile, difficilmente governabile e controllabile, della comunicazione informatica. Una novità, questa, che stranamente fa pensare proprio alle parole con cui Swift, agli albori della modernità, formulava la sua denuncia, essendosi “lasciato convincere da amici” a scrivere un saggio sull’arte della menzogna in politica. A quanto pare, allora come oggi, questa si diffonde essendo “l’estremo sfogo di una fazione sconfitta e ribelle”, una “vendetta dopo che il potere lo si è perso”. E’ la “diceria” che comunque deve diffondere “rumore”, facendo sembrare “un ateo un santo e uno squilibrato un patriota”.
 

La menzogna politica, dice Swift, è “un mostro” che vola a grande velocità e “schizza melma negli occhi della moltitudine” costringendola poi a “scendere sempre di nuovo nella melma”. Nella sua descrizione di un tale ripugnante fenomeno pubblico, Swift è trascinato da un’immaginazione e da un’ira satirica visionaria. Parla di “sciami di menzogne che aleggiano sopra le teste di certe persone come mosche intorno alle orecchie di un cavallo”. Menzogne che “oscurano il cielo” e si diffondono soprattutto in periodo elettorale. E c’è sempre “un certo grand’uomo famoso” dotato di uno speciale talento o genio nel distribuire menzogne politiche “ogni volta che apre bocca”. A questo non ci sono rimedi realmente efficaci: “La falsità vola e la verità zoppicando le viene dietro, cosicché quando la gente arriva a ricredersi è troppo tardi, la beffa è finita ma il suo racconto ha già avuto il suo effetto (…) questa nostra isola, per quasi vent’anni, è rimasta sotto l’influenza di individui e organizzazioni il cui principio e interesse è stato di corrompere i nostri costumi, di ottenebrare i nostri intelletti e con il tempo di distruggere le nostre istituzioni”.
 

È nota l’ammirazione che Orwell aveva per Swift, un “tory anarchico”. Lo considerava il maggior prosatore inglese e disse che “I viaggi di Gulliver” erano stati per lui “il libro più importante in assoluto”. In una intervista immaginaria a Swift del 1942, Orwell aveva certo in mente le esperienze politiche del ventennio precedente, con l’Europa avvelenata da Mussolini, Hitler, Stalin, che avevano portato prima alla creazione di regimi totalitari e infine alla guerra. Scherzosamente ma non solo, Orwell dice a Swift di non condividere la sua totale sfiducia nel genere umano e nel progresso; ma gli fa anche dire che in fatto di “vera saggezza o vera raffinatezza” non ci sono mai stati miglioramenti. Del resto Orwell condivideva la spietata satira del progresso scientifico e delle ricerche degli inventori di cui si parla nella terza parte dei “Viaggi”, definendola “forse la cosa più brillante” uscita dalla penna di Swift.
 

Nei regimi totalitari la menzogna politica aveva trionfato e il controllo dello stato sulla società e sulla vita quotidiana di tutti non era dovuto solo alla violenza e alla repressione poliziesca, ma anche alla metodica cancellazione delle verità più elementari. Nel 1947, quando nazismo e fascismo erano stati ormai sconfitti ideologicamente e militarmente, il problema per Orwell era soprattutto la menzogna comunista: “Da una decina di anni sono convinto che la distruzione del mito sovietico sia essenziale se desideriamo una rinascita del movimento socialista”. Il mito del comunismo russo è stato in effetti la più gigantesca e longeva menzogna politica del Ventesimo secolo. In questo, la menzogna politica ha fatto straordinari progressi. C’è stato e c’è anche oggi qualche eminente professore che ancora ci crede.

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