Chi vuol essere “civis romanus”
Cittadinanza, una questione universale. E pure San Paolo fu "Sans Papiers"
Molto ius sanguinis, un po' di ius soli. La burocrazia imperiale romana per ottenere i documenti, un labirinto. Ma persino Cicerone giudicava "disumano impedire agli stranieri di vivere tra di noi"
Era scoppiato un tumulto presso il Tempio di Gerusalemme. La folla aveva circondato un uomo e ci si accaniva a calci e pugni. Era intervenuta la guarnigione. I soldati, come succede in casi del genere, non se la presero con gli aggressori. Che erano più numerosi. Arrestarono il malcapitato che veniva aggredito. Gli chiesero di identificarsi. E cominciarono a malmenarlo. Quello rispose: “Mi chiamo Paolo, sono un ebreo di Tarso, in Cilicia (sulla costa meridionale dell’attuale Turchia)”. E aggiunse: “Sono cittadino di una città di una certa importanza”. Lo portarono, ben legato, alla presenza del loro comandante. Il tribuno gli chiese se era cittadino romano. Paolo rispose: “Civis romanus sum, sono cittadino romano”.
Non sappiamo con certezza se Paolo avesse davvero acquisito la cittadinanza. O fosse un modo per cavarsela dai guai. Lui stesso ci fa sapere che aveva funzionato anche in altre circostanze. Il tribunus gli fece sapere che era pure lui cittadino romano, aveva comprato la cittadinanza sborsando un’ingente somma di denaro. Paolo replicò che lui invece l’aveva acquisita per nascita. Ma non aveva documenti che lo potessero provare. Era insomma un sans papiers. Un’ulteriore complicazione era che il nome di nascita non era Paulus, come si faceva chiamare, ma Saul, nome ebraico. Il tribunus diede ordine che fosse trasferito, sotto scorta armata, a Cesarea, per essere giudicato dal governatore. Paolo rispose che come cittadino romano aveva il diritto di rivolgersi direttamente all’imperatore. Il tribunus, dopo un attimo di esitazione, acconsentì. Forse per togliersi una grana. Succedeva sotto Nerone. Gesù, che non era cittadino romano, non se l’era cavata. La vicenda ci viene raccontata negli Atti degli Apostoli, che risalgono a un paio di secoli dopo i fatti.
Essere cittadini romani dava garanzie. Innanzitutto di sicurezza. Sicurezza personale, e sicurezza collettiva. Un tiranno qualsiasi non poteva farti del male. I romani avevano fatto guerra a Mitridate quando questi aveva fatto massacrare 50.000 romaioi che risiedevano nei suoi territori. Dall’antica Roma si migrava, oltre che venirci da migranti. Non potevi più essere aggredito dalla prima folla di scalmanati che ce l’avesse con te. Per le tue idee, per il tuo orientamento politico, per il colore della tua pelle, la tua lingua, la tua religione, o altre “diversità”. Ci avrebbero pensato due volte prima di bruciarti la casa, prendersela con la tua famiglia, con la tua donna, con i tuoi figli. Ti dava libertà che venivano negate ai non cittadini. Non ti potevano arrestare senza motivo, tenere in ceppi, seviziarti o torturarti. Conveniva a te, e agli altri. Conveniva all’erario. I cittadini pagavano le tasse. Gli schiavi, gli irregolari, i reietti, quelli spinti e tenuti ai margini non pagano tasse.
Fosse davvero cittadino romano, o pretendesse di esserlo, Paolo aveva difficoltà a dimostrarlo. Non c’erano carte di identità né passaporti. Solo più tardi entrò in uso di fornire a coloro che ottenevano la cittadinanza una placchetta di legno o bronzo. Sono giunte sino a noi quelle di bronzo. La procedura per ottenere un attestato ufficiale era lunga e complicatissima: attese burocratiche estenuanti, rimpalli da un ufficio a un altro. Lo sappiamo dai documenti in cui i richiedenti in questa o quella provincia (spesso le richiedenti, per una ragione che spiegherò tra poco) riassumono a un’autorità superiore la via crucis che hanno dovuto percorrere da quando hanno richiesto il documento.
Mi fischia nelle orecchie il canto di inizio Novecento delle mondine: “Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare”. Provate voi a chiedere la cittadinanza, se vi sembra facile, mi viene da cantargli a chi fa barricate sulla cittadinanza agli immigrati. Non se ne ha diritto se si nasce in Italia da stranieri. Non se ne ha diritto se non sei figlio di italiani. Non se ne ha diritto punto e basta. Si ha solo la facoltà di richiederla, se ricorrono determinate condizioni. È sempre una concessione. Che può esserti data o meno. Se i documenti sono a posto, se provi questo o quello, se ti sei rivolto all’ufficio giusto…
Una donna non cittadina, magari rimasta vedova, doveva dimostrare un regolare vincolo matrimoniale. Altrimenti i figli restavano stranieri. Potevano diventare cittadini anche gli schiavi, se liberati da un cittadino romano con tutti i crismi (legitime). Oppure si acquisiva la cittadinanza per meriti militari. Succede ancora quasi ovunque: l’arruolamento nelle forze armate Usa, o nella Legione straniera francese garantisce quasi automaticamente la cittadinanza. Livio narra che già nel 211 a. C. due disertori cartaginesi che avevano contribuito alla presa di Siracusa erano stati ricompensati con la cittadinanza e con appezzamenti di terra. Si poteva acquisire anche per meriti di studio o professionali, nel caso di celebrità dello sport, del circo e dello spettacolo, o per speciale concessione da parte dell’imperatore. Vecchia, untuosa abitudine: quando le cose sono difficili bisogna avere santi in paradiso. Nel Libro X delle Lettere, Plinio il giovane si fa latore di quattordici richieste di cittadinanza al suo amico Traiano. La cittadinanza era automatica solo nel caso di chi ricopriva un incarico amministrativo o militare importante. I senatori, anche se provenienti dall’Africa, dalla Siria o altre terre lontane, erano cittadini romani di diritto, anzi per definizione. Insomma, molto ius sanguinis, un pochino di ius soli, un pochino di ius scholae. La cosa su cui non ci piove è che lo ius amoris, l’idea, sia pure carina, che nell’antica Roma si diventasse cittadini “per amore, per quello che rappresentava Roma all’epoca”, c’entra poco o nulla.
Gli veniva concessa residenza e cittadinanza se erano utili, se servivano. Giulio Cesare aveva concesso la cittadinanza ai medici, da qualunque parte provenissero, e agli intellettuali “di modo che fossero invogliati a risiedere a Roma, e altri cercassero di ottenerla”, ci dice Svetonio (Cesare, 42). Augusto nell’anno 6 aveva espulso gladiatori e schiavi, ma aveva trattenuto medici e insegnanti. Vespasiano creò cattedre di retorica e grammatica greca e latina (Svetonio, Vespasiano, 18). Evitavano la fuga dei cervelli. Anzi, attiravano cervelli come calamite. Col costante afflusso di intellettuali stranieri da ogni parte, Roma divenne l’indiscussa capitale intellettuale del mondo.
Mercanti e uomini d’affari erano sempre benvenuti. Agli ebrei fu imposta una tassa speciale: lo definirono un contributo per avergli permesso di finanziare i propri templi. Ma al tempo stesso erano durissimi nei confronti di chi non gli serviva, degli stranieri indesiderati, di quelli che turbavano l’ordine pubblico, degli sfaccendati. Le Pandette, la raccolta di testi giuridici compilata all’epoca di Giustiniano, hanno gran copia di termini tecnici specifici per il fenomeno: ignavia, desidia, pigritia, neglegentia, inertia. Furono stilate norme che distinguevano tra accattonaggio “buono” e “cattivo”, “legittimo” e “illegittimo”. La distinzione di base era tra quelli che potevano pagare una tassa e quelli che no. Si veniva tassati anche per il diritto di chiedere la cittadinanza. Caracalla, che l’aveva esteso a tutto l’impero, raddoppiò, al 10 per cento, le imposte gravanti sulla manumissione di schiavi e la liberazione di schiavi per testamento. Non c’era molta tolleranza per vecchi, disabili e malati. Il vescovo di Milano, Ambrogio, dette parere favorevole a una legge della sua epoca contro l’accattonaggio, ma a patto che contenesse una distinzione tra quelli in buona salute, che avrebbero potuto lavorare, e vedove e infermi. Di tanto in tanto venivano espulsi dalla città. Una legge del tardo impero prevedeva l’esilio di chiunque avesse messo su una baracca o una tenda sul Campo Marzio. Ma non c’è niente che provi che la discriminazione fosse tra locali e stranieri.
Per gli schiavi che restavano schiavi non c’era nulla da fare. A quelli non restava che suicidarsi, o ribellarsi. La cosa strana è di quante poche ribellioni di schiavi si abbia notizia. Rispetto al numero infinito di guerre di conquista, guerre civili, guerre tra fratelli e concittadini, guerre di fazione, guerre per la successione al potere. Ci sono molte più rivolte e sommosse di strada della plebe contro gli schiavi, o contro l’ammissione di nuovi cittadini, di quante ce ne siano a fianco degli schiavi. Tanto che l’obiettivo dei rivoltosi di Spartaco non era affatto l’abolizione del sistema schiavistico, tanto meno era la rivoluzione. Non pretendevano di diventare cittadini. Volevano tornarsene a casa. Ci provarono trattando con i pirati perché gli facessero attraversare lo Stretto con la Sicilia, o l’Adriatico. Quelli accettarono la proposta, incassarono i contanti, poi li tradirono, li lasciarono in asso. Prima ancora i rivoltosi di Spartaco avevano cercato di raggiungere le Alpi, attraversarle e dirigersi via terra alle rispettive terre di origine, da cui erano stati strappati a forza.
C’erano limiti di età alla concessione della cittadinanza. Si era cittadini romani solo da adulti. I bambini, e in una certa misura anche le donne, era come se non esistessero. Augusto tra le sue restrizioni dell’eccesso di manumissioni, cioè di liberazioni di schiavi, introdusse l’età minima di 20 anni per i padroni e 30 per lo schiavo. C’erano mugugni da parte di chi riteneva che la cittadinanza venisse concessa con troppa liberalità, troppa facilità. Nell’Apokolokyntosis, la parodia della “zucchificazione” del divinizzato Claudio, Seneca prende in giro il defunto imperatore per la facilità con cui faceva piovere cittadinanze a favore delle comunità di peregrini, cioè stranieri. E comunque ottenere la certificazione di essere cittadini richiedeva nelle province procedure complicatissime, produzione di documenti a non finire, lunghissime inchieste. Potevano volerci anni, decenni di pratiche burocratiche.
La cittadinanza romana si era mano a mano estesa dai cittadini di Roma vera e propria a tutta l’Italia, e infine, con la Constitutio Antoniniana, promulgata da Caracalla, si estendeva a tutto l’impero, compreso l’Egitto sino a quel momento escluso. “In apparenza per onorarli, in realtà perché in tal modo si accrescessero le sue entrate; infatti i peregrini [gli stranieri] erano assenti da queste imposte”. Così il commento di Cassio Dione, nel Libro LXXVII delle sue Storie. Ma, anche prima, non tutti erano cittadini a pieno titolo. Molte città, anche italiane, erano rimaste a lungo escluse. Erano municipia indipendenti, civitates sine suffragio, con alcuni diritti, ma non quello di voto, ad esempio. Cesare aveva esteso la cittadinanza a tutta la Gallia cisalpina già nel 49 a. C. Augusto la estese a tutta l’Italia, totam Italiam. Gli serviva come ricompensa aggiuntiva a chi aveva parteggiato per lui. Per la stessa ragione, nel corso delle guerre civili, anche Silla, Pompeo, Antonio, oltre allo stesso Ottaviano, avevano fatto ampio ricorso ai propri poteri discrezionali per concedere la cittadinanza a questi o a quelli. Ma poi a un certo punto Augusto aveva emanato restrizioni. Forse perché i pretendenti erano divenuti troppi, costavano troppo, avevano diritto a distribuzioni alimentari. Forse perché non ne aveva più bisogno per consolidare il proprio potere. L’ultimo censimento tenutosi prima della sua morte registrava 5 milioni di cittadini. Su una popolazione stimata a 40-50 milioni per l’insieme delle province dell’impero, i cittadini erano una minoranza.
Eppure aprire le porte agli stranieri, accoglierli come cittadini, veniva considerato un cardine della civiltà romana. Cicerone non era precisamente un progressista. Il nostro ministro della Cultura lo arruolerebbe nella sua Destra. Ma difende in linea di principio l’immigrazione, pur precisando che non tutti possono avere diritto alla cittadinanza: “Fanno male coloro che impediscono agli stranieri di vivere nelle loro città, e li tengono fuori dai loro confini […] È giusto che non possa mettersi al posto di un cittadino colui che cittadino non è […] ma impedire agli stranieri di vivere in città è disumano [inhumanum est]”. (De officiis, Libro terzo, 11, 47-49).
Cicerone ritorna più volte sull’argomento. Al processo in difesa di chi aveva concesso la cittadinanza allo spagnolo Lucio Cornelio Balbo, per aver contribuito alla guerra contro il ribelle Sertorio. “Senza dubbio consolidò fortemente il nostro potere ed accrebbe la fama del popolo romano, che quel primo creatore di questa città, Romolo, dimostrasse che era opportuno incrementare lo Stato anche accogliendo dei nemici […] Così molti latini, come quelli di Tuscolo, di Lanuvio, e intere popolazioni delle altre regioni e città, come i Sabini, i Volsci, gli Ernici, furono tutti accolti nella cittadinanza […]” (Cicerone, Pro Balbo, 31).
Ci volevano molti anni, oltre dieci, per acquisire la domiciliazione. Pare ci fosse una lista d’attesa lunghissima, tanto che ad un certo punto decisero di estrarre a sorte gli aventi diritto. Come la lottery per avere la green card in America. Una volta, quando facevo il corrispondente New York, ci provai, per vedere come funzionava. Essendo nato a Istanbul, finii nella quota per i turchi. Conclusi che era un imbroglio per spillare soldi.
Tito Maccio Plauto, lo Shakespeare dell’antica Roma, era umbro, quindi, a metà del II secolo a. C. a rigore ancora “straniero”. Non si sa se abbia mai avuto la cittadinanza romana. Il suo Persa (Il persiano) è un finto persiano. Sono veri cartaginesi invece i protagonisti del suo Poenulus (il piccolo cartaginese). Tema delicato, perché siamo in epoca di guerre puniche, e i cartaginesi sono nemici veri. Ma non vengono trattati da nemici. Solo un pochino presi in giro. Affettuosamente, come sembra indicare anche il vezzeggiativo del titolo. Il primo cartaginese a entrare in scena è un padre che percorre il Mediterraneo in cerca delle figlie che gli sono state rapite bambine. Le sue battute iniziali sono in lingua punica, come in un film in versione originale. Per gli spettatori romani poi vengono tradotte. Poi veniamo a sapere che “conosce tutte le lingue”, compreso il greco che è la lingua dell’isola in cui è approdato. Ma non vuole che si sappia, per non ostacolare la sua ricerca. Malafede punica, come da stereotipo? Dei punici non c’è da fidarsi, come dei cretesi, bugiardi per definizione. Forse, ma l’astuzia è giustificata. Tra i “cattivi” c’è invece un soldato innamorato di una ragazza ospite in un bordello. Plauto non ha molta simpatia per i soldati, sbruffoni e forti solo con i deboli. Il soldato è geloso. “Arrabbiato come sono, vorrei proprio incontrarla in questo momento: a suon di pugni la farei nera, nera come un merlo. La farei più nera di un egiziano…” (Poenulus, atto IV, scena quinta). Pregiudizio sul colore della pelle e violenza nei confronti delle donne, niente di nuovo sotto il sole.
Non è per niente politically correct il caro vecchio Giovenale, con i suoi vaffa, le sue tirate e le sue frecciate a non finire contro gli stranieri che hanno fatto fortuna a Roma, i figli di liberti e di schiavi che si atteggiano a gran signori, i clientes che gli fanno concorrenza presso i patroni, contro gli uomini d’affari imbroglioni, contro filosofi, medici, pittori, massaggiatori, mimi, attori, acrobati, ballerine, maghi, fattucchiere. Tutti inevitabilmente con nome che tradisce provenienza straniera. Unica eccezione un povero grammatico, a cui riserva una certa benevolenza. Potrebbe essere stato un suo maestro. Insopportabile xenofobo, razzista, romanocentrico, con stereotipi e pregiudizi fin sopra il collo? Certamente. Ma da prendersi cum grano salis. La critica letteraria e la filologia più recenti argomentano che non è tutto xenofobia e razzismo quanto a prima vista appare tale. Giovenale fa satira, non propaganda dell’odio. Non ce l’ha tanto con gli stranieri, quanto con i romani che imitano gli stranieri.
Sin dalla prima lettura, ai tempi del liceo, io che ero straniero (immigrato dalla Turchia) ed ebreo, ho trovato spassosissimi i versi della Satira VI, in cui, più che con gli ebrei, ce l’ha con la matrona che si fa abbindolare dalle superstizioni alla moda. E’ una delle cose più carine che nell’antichità siano state dette dei giudei, l’immagine dell’“ebrea tutta tremante, che, deposto il suo cesto e il suo fieno, mendica di soppiatto all’orecchio; ella è interprete delle leggi di Gerusalemme, grande sacerdotessa dell’albero, fedele messaggera del cielo. Anche a lei si riempie la mano, ma con meno: per due soldi i giudei vendono tutti i sogni che vuoi (aere minuto qualiacunque voles Iudaei somnia vendunt)!” (Satire, VI, 542–547). Come faceva a prevedere Freud e Hollywood?
Giovenale insomma non è Vannacci, e neppure Coluche o Zemmour. Non è nemmeno Trump. Una cosa è lo stereotipo etnico, un’altra l’odio per lo straniero. Col diverso si può convivere, anche se lo si prende in giro. Col nemico giurato no. Della mia infanzia a Istanbul ricordo che in casa si parlava con simpatia degli armeni. Sia pure con qualche stereotipo: astuti, attaccati ai soldi (esattamente quello che gli altri dicevano di noi ebrei). Ma in una raccolta di storielle ebraiche in giudeo-spagnolo-turco dei sefarditi (lingua pressoché in estinzione) ho scoperto che la maggior parte prendeva in giro i pope armeni. Sempre in tema di stereotipi, nel giudeo-spagnolo antico che si parlava in casa nostra, negro significava “cattivo”, non solo nero. Per dire nero di pelle si diceva preto. “A Sara la preta / Le cayó la teta / Bushka, bushka / Y no la topó”, “a Sara la Nera le cadde la tetta, cerca e cerca ma non la trovò”, queste le parole di una filastrocca della mia infanzia, insulse come lo sono molte filastrocche.
Fa impressione che le pulsioni xenofobe, anti immigrati, anti concessioni di cittadinanza, divengano ai giorni nostri così facilmente argomenti autolesionisti, in prospettiva auto distruttivi. Dovrebbero averlo capito anche le zucche vuote che senza immigrati si va a ramengo. Anche il Mid-West americano, che nel 2016 aveva fatto pendere la bilancia dalla parte di Trump, ora cerca disperatamente immigrati. Peggio ancora della xenofobia, non sopporto la stupidità di chi si dà la zappa sui piedi, si gioca il presente e il futuro di un paese per un pugno di voti. Vale per l’Italia e l’Europa, in calo demografico spaventoso, nel momento in cui avrebbero bisogno più che mai di nuova linfa. Fa senso, ancora più che per gli altri, per l’America, nata da afflusso di profughi e migranti, che deve la sua fortuna, l’essere riuscita a restare e crescere un passo in più, anche negli ultimissimi anni e decenni, al riequilibrio demografico, al fatto che i migranti, desiderati o meno, legali o illegali, accettati o vilipesi, hanno continuato malgrado tutto ad arrivare.
Capisco che si tratti di un tema molto controverso, ostico per l’opinione pubblica (deliberatamente male informata), che rischia di far perdere voti (spero anche a quelli che gli immigrati vorrebbero ributtarli in mare). Quel che non capisco è l’imbarazzo, anche a sinistra, di parlare di immigrazione “per motivi economici”, oltre che di fughe da guerre e persecuzioni. È forse infamante, un delitto, voler vivere meglio e in modo più dignitoso? Tra le personalità politiche di sinistra solo Giuliano Amato solleva il tema ogni volta che può. E solo Papa Francesco ha avuto il coraggio di parlare di ius migrandi come diritto universale.