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L'analisi

Perché un altro '68 da noi è impossibile e pure in Cina sarebbe difficile

Dario Di Vico

Dal sociologo Emilio Reyneri una risposta indiretta al filosofo Massimo Cacciari: "Il diverso contesto politico e culturale rende poco probabile che nascano movimenti conflittuali”

Intervistato dal Corriere, Massimo Cacciari ha auspicato un altro ’68. Non come quello “vecchio, distruttivo ed estremista”. Il filosofo non è nuovo a sortite che suggeriscono il titolo ma il caso vuole che di recente un sociologo molto attento ai movimenti sociali, Emilio Reyneri, si sia posto lo stesso tema in un delizioso articolo uscito sulla rivista Stato e mercato. “Perché è poco probabile che un ciclo di lotte operaie come quello del 1968-72 in Europa occidentale si ripeta, pure in altri paesi”. L’obiettivo di Reyneri è tutt’altro che rivolto all’indietro e infatti si chiede se possa nascere un ‘68 cinese, indiano o turco ovvero che un movimento di massa che si sviluppi in paesi in cui le grandi fabbriche tayloriste-fordiste sono ancora largamente presenti.

Nella sua analisi Reyneri sintetizza otto condizioni che resero possibile il ciclo delle lotte ’68-’72. In primis i figli del baby boom del dopoguerra che entrarono non solo nelle università ma anche nel mercato del lavoro. In Italia dal 1966 al 1971 varcò i cancelli della fabbrica un milione di giovani, che non diedero il via al movimento di scioperi – guidato da operai già sindacalizzati – ma furono i protagonisti dei conflitti più accesi. La seconda condizione era che questi giovani in Italia venivano dalle regioni del sud e in Germania dalla Turchia e avevano lasciato la famiglia nel luogo di origine. Quindi erano più disponibili a condotte molto conflittuali. La terza condizione era rappresentata da un’economia in grande crescita ma con una pressione inflazionistica. Dal 1968 l’aumento dei prezzi fu così negativo sui salari da legittimare l’esplosione di richieste di aumenti cospicui. Al quarto punto Reyneri ascrive un mercato del lavoro prossimo al pieno impiego con tassi di disoccupazione europei tra l’1 e il 3 per cento. In Italia è vero che si viaggiava al 5,6 per cento ma nelle regioni del Nord, dove si concentrarono gli scioperi, per i maschi si sfiorava il pieno impiego. E quindi il timore di perdere il posto era molto basso. Arriviamo alla quinta condizione: la concentrazione dell’occupazione di tute blu nelle grandi fabbriche fordiste e tayloriste: nel 1968 l’Italia, paese di piccole imprese, vedeva lavorare in aziende oltre i 500 dipendenti un quarto degli occupati dell’industria manifatturiera.

La sesta motivazione elencata da Reyneri parla di un sistema economico fondato sull’industria manifatturiera. Soprattutto nelle grandi città l’intera società dipendeva dal funzionamento delle fabbriche, che producevano i beni di consumo durevoli e i salari per comprarli. E quando gli operai uscivano dai cancelli bloccavano anche i centri urbani. Siamo al punto sette: la diffusa presenza di un’ideologia marxista che profetizzava un destino dominante per i lavoratori. La classe operaia deve dirigere tutto, era uno slogan condiviso da sindacalisti, attivisti e intellettuali. L’ottava condizione inanellata da Reyneri ci fornisce una lettura molto originale: nonostante le fortissime tensioni e le dure reazioni i sistemi politici dei paesi dell’Europa occidentale rimasero democratici e questo permise che le lotte sfociassero “solo” in un riassetto degli equilibri. “Il fatto che questi movimenti si siano potuti sviluppare in un contesto di democrazia politica è stato spesso trascurato ma non si può ignorare specie ora che il campo di osservazione si allarga oltre i confini europei, dove la presenza di sistemi politici democratici è molto rara”.

Analizzato il passato veniamo ai giorni nostri. È possibile che movimenti sociali simili possano riprodursi? Reyneri risponde di no perché nemmeno una delle condizioni elencate è più presente in occidente. Le nuove generazioni autoctone sono sempre meno numerose, sono cresciuti in gran quantità gli anziani, l’espansione economica di lungo periodo si è ormai esaurita, in Europa l’occupazione nell’industria si è drasticamente ridotta, molte attività sono svolte da persone isolate e le uniche concentrazioni di lavoratori privati sono quelle di banche e assicurazioni. E ancora: al declino della centralità operaia si è accompagnato quello delle ideologie che ne preconizzavano un futuro radioso. Ciò non esclude che nelle vecchie e ricche società occidentali, sottolinea Reyneri, possano nascere conflitti di lavoro anche molto accesi. Non pare probabile però che possano mettere in crisi e modificare gli assetti sociali. Vale per i gilets jaunes, gli agricoltori, i lavoratori della logistica, i riders delle consegne a domicilio.

Ma, detto dell’Europa occidentale, l’autore si pone la domanda più ghiotta: è possibile un ’68 cinese, indiano o turco? A giustificare il quesito è la presenza di alcune delle condizioni di innesco di cui abbiamo parlato, soprattutto grandi fabbriche fordiste e popolazione giovanile emigrata dalle campagne ai centri urbani. “Tuttavia a rendere poco probabile che ne nascano movimenti conflittuali è il diverso contesto politico e culturale”. In primo luogo alcuni di questi paesi sono coinvolti in conflitti militari o attraversati da forti contrasti etnico-religiosi e soprattutto gli stessi paesi sono governati da regimi autoritari che soffocano, anche in modo violento, qualsiasi movimento sociale appena si manifesta. E questo vale anche per la Cina che è governata dispoticamente da un’oligarchia che si professa marxista-leninista e soprattutto proclama che la classe operaia è già al potere. Chiude Reyneri: in una prospettiva ormai necessariamente globale possiamo dire che ora spirano più venti di guerra che venti di conflitti che possano essere accostati a quelli della seconda metà del XX secolo in Europa occidentale.

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