Oriana Fallaci - foto Ansa

Luoghi che cambiano la vita / 6

Sognando Oriana Fallaci

Sandra Petrignani

Journalisme, mon amour. Le stanze e le scale del Messaggero, dove la passione di una ragazzina si è trasformata in realtà quotidiana. Due storie che si intrecciano

Continua con questo articolo la serie “Luoghi che cambiano la vita”. Abbiamo già pubblicato: “Dal paese a Napoli, tutta un’altra vita”, di Ester Viola (8 luglio); “Il miracolo delle pietre nere”, di Giuseppe Sottile (3 agosto); “Sognare una vita nuova”, di Camillo Langone (12 agosto); “Sognando l’autostrada del sole”, di Pierluigi Battista (24 agosto); “La mia Spagna”, di Maria Pia Farinella (31 agosto).
 



Mia madre mi spingeva a iscrivermi al liceo classico, visto che non facevo che leggere e scrivevo poesie. Mio padre sosteneva che scrivere è un hobby con cui puoi baloccarti comunque e tifava per una “carriera moderna”, la segretaria d’azienda, certo sperando di vedermi sistemata appena possibile con qualche manager danaroso sedotto sul luogo di lavoro. Io mi sognavo giornalista, anzi journalist come avevo scritto alla voce “professione” su un passaporto che mi ero costruita per gioco appiccicandoci dentro la foto della testa bionda di una modella che amavo. Il mio mito però era Oriana Fallaci. La seguivo sull’Europeo, mentre stavo leggendo con entusiasmo uno dei suoi primi libri, Il sesso inutile, pescato nella libreria materna, un “viaggio intorno alla donna” – come recitava il sottotitolo – che molto contribuì alla formazione di un mio precoce femminismo.
 

Perciò optai per il liceo e poi, all’università, per Lettere moderne. Di fare la giornalista continuavo a coltivare il sogno pur vedendomi destinata a diventare professoressa, perché non avendo “santi in paradiso”, come diceva mio padre (leggi: raccomandazioni), la via era completamente preclusa. Non esistevano allora scuole di giornalismo, ed era un mestiere che dovevi iniziare dalla gavetta, grazie a conoscenze personali nell’ambiente o alla militanza in qualche partito. Lui era ingegnere, la mamma farmacista. Dove lo andavo a pescare qualcuno che m’introducesse in un giornale anche solo dalla porta di servizio? Veramente qualcuno lo avevo scovato, amico di una mia amica e direttore di un quotidiano di provincia. Presi un treno e andai fiduciosa all’appuntamento, ma solo per sentirmi fare questa proposta: c’era la possibilità di una “supplenza estiva”, ma a una condizione, dovevo accettare di convivere con lui, il direttore, per tutto il tempo della supplenza perché la moglie lo aveva lasciato ed era tristissimo. Non riusciva assolutamente a restare nella casa matrimoniale senza una donna. Ero inorridita (a scanso di equivoci: a vent’anni non ero certo una santarellina, ma avevo ben chiaro il diritto a fare l’amore con chi mi andava a genio e quel tipo non mi attirava minimamente). Lui per convincermi, o forse per disprezzo vista la mia reazione, prese a sfottere: “Guarda che questo mestiere non lo farai mai se non ti rassegni a essere un po’ mignotta. Anche la tua adorata Oriana Fallaci, che credi, non sarebbe mai diventata Fallaci senza essere una gran puttana”. Questo era veramente troppo. Rifeci la valigia e me ne tornai a Roma, sicura che lì finiva ogni speranza e che potevo stracciare il vecchio passaporto dei miei sogni infantili. Pietra sopra. Invece il destino decise diversamente.
 

Avevo una cugina di otto anni più grande che apprezzava la mia determinazione a non finire casalinga come lei. Un giorno mentre aspettava la figlia fuori dalla scuola si era messa a parlare col padre di un altro bambino e aveva scoperto che faceva il giornalista al Messaggero. Il quotidiano che leggevamo tutti in famiglia, tutti i giorni! “Da vera sfacciata” come mi riferì poi in preda a grande eccitazione, gli aveva parlato di me, del mio desiderio fin da quando ero piccola, di quanto fossi curiosa e brillante e indipendente… Insomma, lui era una persona gentile (poi l’ho conosciuto anch’io) e fu subito possibilista: “Dai, dille, di venire da me in redazione. Io sono un semplice cronista, non conto niente. Ma le presento il capo della cronaca che qualche ragazzetto lo fa scrivere: tutti sotto il falso nome di Tony Cardini, ma è un modo per cominciare. Poi, se è brava, va avanti da sola. Senza farsi troppe illusioni. Non posso garantirle niente”.
 

Io lo sapevo dov’era il Messaggero. Ci passavo sempre davanti in autobus diretta al centro di Roma lungo via del Tritone. C’era una fermata proprio di fronte e guardavo incantata dai finestrini la gente che entrava e usciva dal grande palazzo Liberty, che una volta era stato un albergo, il Select. Si trovava dove si trova tuttora, col suo ampio angolo stondato su Largo del Tritone. Inalberava una grande insegna luminosa, Il Messaggero, in eleganti caratteri Victorian, sotto le finestre d’angolo del primo piano, e un’altra gigantesca in alto in alto sopra il tetto terrazzato. Ero, a questo punto, provvista di motorino, un Ciao della Piaggio color verde chiaro che avevo comprato usato con i proventi del mio lavoro da baby-sitter: 40 mila lire, se non sbaglio. E così un bel giorno inforcai lo scooter e andai all’appuntamento con Silvano Rizza, capo della cronaca di Roma, noto per certe idee originali. “Se il conto non torna mandatelo al Messaggero” fu una sua invenzione che fece epoca. Era un bell’uomo dai modi bruschi che non intendeva perdere tempo. “Che proponi?” mi chiese a bruciapelo. Io mi ero preparata: un pezzo sulla mancanza di discoteche per i giovani a Roma. “Ci sono solo night-club costosissimi in questa città” dissi. Gli piacque. Il pezzo, rigorosamente firmato Tony Cardini, uscì il 5 maggio del 1976. Ho qui il ritaglio, conservato come tutti i pezzi successivi da mio padre che divenne il primo dei miei fan.
 

Adoravo il grande atrio dove gli uscieri dietro al bancone cominciarono presto a riconoscermi e a non fermarmi quando passavo, l’ampia chiocciola delle scale attorcigliata intorno all’ascensore, che non prendevo mai perché Cronaca, stanza del direttore e segreteria erano al primo piano. Ma soprattutto mi emozionava la redazione affollatissima, dove nessuno faceva caso a me che andavo dritta nella stanza a vetri di Rizza con le mie proposte. Avevo la sensazione di stare dentro un film americano, era la felicità, la realizzazione di un sogno, un cambiamento enorme della mia vita. Ed era solo l’inizio. Sfogliando i ritagli di mio padre, sempre a firma Tony Cardini, vedo un pezzetto sui vestiti usati in vendita da Cheap, un negozietto di viale Etiopia, un altro sull’unica scuola romana di karate riservata alle donne in via Donizetti, un altro sulle agenzie di baby-sitting con tanto di prezzi, un altro ancora sulle radio libere che imperversavano in quel periodo, e un’intervista al mangiafuoco di piazza Navona che svelava i suoi trucchi, un’altra a uno degli ultimi fiumaroli, “un po’ barcarolo e un po’ filosofo”, che viveva sul Tevere con moglie, cani e gatti e si vantava di non avere un reumatismo e che a lui l’acqua inquinata faceva un baffo… cose così. Finché a fine anno Tony Cardini viene promosso: ora gli articoli sono firmati S. Petrignani. Qui mio padre avrà stappato lo champagne, anche perché intanto mi ero laureata e pure sposata e poteva contare su una figlia un po’ stravagante, ma che in fondo non tradiva le sue aspettative esistenziali.
 

Sì, mi ero sposata perché “al cuor non si comanda”, ma se dovessi dirla tutta, il mio cuore batteva al massimo quando facevo progressi nei miei rapporti con la redazione, conoscevo gli altri giornalisti, chiedevo udienza al direttore implorando “l’articolo 2”, che era l’agognato passaggio a una forma di collaborazione fissa, ben lontana dall’“articolo 1”, che equivaleva a una vera e propria assunzione, ma insomma avrebbe significato un bel passo avanti per smettere di essere mantenuta dal giovane marito. Intanto di piani ne salivo anche due ogni tanto, avendo infilato la testa nella redazione Spettacoli per proporre un fondamentale pezzo sulla nuova stagione del teatro femminista La Maddalena in via della Stelletta. La mia vera meta però era l’ultimo piano. Qui stava asserragliato nella confusione di uno stanzone pieno di scrivanie accatastate, solo e brontolone, Ruggero Guarini, direttore della Cultura, un intellettuale rispettatissimo e temuto. Avevo confessato a Rizza che il sogno dei sogni per me era scrivere per la Terza Pagina (allora il servizio Cultura su tutti i quotidiani era collocato in quella eminente posizione). E lui mi aveva dato il consiglio più ricco di futuro della mia ancora traballante carriera. Assomigliava un po’ a Luciano Salce. Con la bocca leggermente storta e squadrandomi dalla testa ai piedi, disse: “Che aspetti? Non hai che salire qualche piano. Presentati lì e digli quel che hai detto a me: che vuoi scrivere per lui. Se hai anche l’idea per un pezzo, è meglio”.
 

Ce l’avevo l’idea. Bazzicavo l’underground, avevo pubblicato poesie e racconti su riviste specializzate, conoscevo il mondo dell’off teatrale, mi piacevano tutte le avanguardie. In queste mie scorribande intercettavo artisti bizzarri, outsider d’ogni tipo di cui erano pieni i ribollenti anni Settanta, e uno di loro si chiamava Aldo Braibanti, un ex combattente della Resistenza, omosessuale, condannato per “plagio” (reato che ai tempi aveva connotazioni sessuali) perché convivente con un giovane minorenne. Uscito di prigione, era rimasto in silenzio per dieci anni e ora tornava alla ribalta esordendo in teatro. Mi presentai a Guarini e proposi un’intervista a Braibanti. Ne fu entusiasta. Il pezzo uscì il 19 ottobre del 1977 e la firma era intera: Sandra Petrignani. Era fatta. Presto avrei avuto l’articolo 2 e se per essere assunta dovettero passare altri dieci anni, poco importa. Intanto diventavo una firma della Terza Pagina e poi degli Spettacoli, dove era arrivato un altro caposervizio, Luigi Vaccari, che davvero cambiò la mia vita perché per la prima volta mi fece sentire sul serio parte di un gruppo. E il gruppo in quella stanzetta destinata agli Spettacoli era un’isola spavalda e irriverente dentro Il Messaggero fatta di giornalisti pazzi, ma veramente pazzi, per la musica, il cinema, il teatro e destinati a diventare punti di riferimento nel loro campo, dagli “anziani” Guglielmo Biraghi a Renzo Tian, da Fabrizio Zampa a Paolo Zaccagnini, da Renato Minore a Rita Sala, ai più giovani Marco Molendini, Gloria Satta, Dario Salvatori, Diego Mormorio, Alfredo Gasponi, Fabio Ferzetti… Eppoi c’era il più vecchio di tutti, vice di Gigi Vaccari, Mario Galdieri (della stirpe dei Galdieri che hanno fatto il teatro e la canzone napoletana) che quando qualcuno di noi giovani entrava in redazione, lo accoglieva inevitabilmente alzando gli occhi al cielo e sbuffando: “Eravamo scarsi a fetenti…” e tutti a ridere. In effetti eravamo “fetenti”, cioè malvestiti e un po’ mascalzoni, gelosi l’uno dell’altro, pronti a farci le scarpe magari per un solo giorno e ritornare amici il giorno dopo, malati di scrittura e di spazi, di esclusive e rivelazioni. E di celebrità, quella fittizia e brevissima di un solo giorno. Perché tanto durava l’articolo anche più sensazionale o più bello. Era una lotta quotidiana, ma non credo di essermi mai divertita tanto lavorando.
 

E del resto non mi tiravo mai indietro quando si trattava di correre per un’intervista concessa all’ultimo momento, da Marcel Marceau a Renato Rascel, da Anna Proclemer a Eduardo De Filippo, da Franco Zeffirelli a Milva. Sempre pronta a fare la valigia per andare a un festival o per raggiungere Tadeusz Kantor di passaggio a Firenze o inseguire ovunque Roberto Benigni. E siccome passavano gli anni ma restavo sempre un “articolo 2”, m’inventavo grandi inchieste in varie puntate o serie di interviste a grandi scrittori da Moravia e Malerba, da Calvino a Manganelli o alle Signore della scrittura (che divenne poi il mio primo libro), così per un po’ sapevo che un mio pezzo era previsto almeno una volta a settimana e potevo riposarmi dal farmi venire un’idea dietro l’altra. Intanto nascevano amicizie, come quella con Lalla Romano e con Edith Bruck, con Dario Fo e con Giulio Einaudi con esiti importanti per il resto della mia vita.
 

Quando poi, oltre la metà degli anni Ottanta, l’agognato articolo 1 arrivò, non posso dire che la mia vita cambiasse in meglio, anzi. Certo, avevo la possibilità di fare l’esame per diventare una vera giornalista iscritta all’albo, ma conoscevo anche la dura vita del redattore che, oltre a scrivere i pezzi, li deve pure mettere in pagina, e tagliarli e correggerli e titolarli. E scendere in tipografia – come usava una volta – nell’incontro scontro serale con operai che le cose le vedevano diversamente e quando mi mettevo a pensarci su troppo a lungo a come dovevo tagliare un pezzo che non entrava nel suo spazio (non entrava fisicamente, perché erano pezzi di carta da incollare materialmente dentro la forma della pagina che poi sarebbe stata stampata) e allora, armata di forbici cercavo di tagliare qua e là senza rovinare il testo, invece di far fuori semplicemente il finale rinunciando magari a una battuta di chiusura che mi pareva imperdibile, il tipografo spazientito mi diceva: “A Sa’, che stai a perde tempo, tanto domani co sta pagina c’incartano le ova al mercato!”.
 

Ecco, sì, con l’attesa assunzione la mia vita cambiava di nuovo, ma in peggio. Senza contare la morte improvvisa di qualche personaggio importante, magari proprio quando te ne stavi tornando a casa, ed era tutto da rifare: sostituire articoli e fotografie all’ultimo momento, fare sicuramente notte…. Ma il destino mi venne incontro ancora una volta e fui richiesta dalla redazione romana di un settimanale, Panorama, la cui sede principale era a Milano. Voleva dire: una pacchia. Niente più lavoro il sabato e la domenica, orari meno stressanti e nessun testo da sistemare in pagina, perché ci pensavano i milanesi. Oltretutto la tecnica era in evoluzione, trionfavano i computer, libri e giornali non si stampavano più a piombo. La mia vita cambiava di nuovo, ma non clamorosamente come era avvenuto quindici anni prima con il mio ingresso al Messaggero dalla porta secondaria. Quella era stata una favola irripetibile, il sogno di una ex bambina che si voleva journalist e ci riuscì.

Luoghi che cambiano la vita

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