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Polemiche evergreen

Il dibattito sull'egemonia culturale ancora zavorrato da Gramsci e Gentile

Andrea Minuz

C’è quella ortodossa del Pci, quella cultural-berlusconiana e televisiva edificata, e ancora quella del neoliberismo ma anche del politicamente corretto: un guazzabuglio di egemonie à la carte bersagliate da sinistra e destra, tagliando via dal discorso l’area liberale e riformista, e senza evocare mai la sua forma più onnipresente: quella del vittimismo

"Considerato che siamo appena tornati dalle vacanze, il tema è abbastanza pesante”, dice giustamente il deputato Antonio Giordano, vicepresidente della Fondazione Alleanza Nazionale, aprendo il convegno, “Da Gramsci a Gentile. Esiste l’egemonia culturale?”. Siamo a Palazzo Madama, a Roma è tornato anche il caldo, eppure la grande “sala Koch” è gremita. C’è il pienone. Tanti giovani con facce da destra perbene, elegante, col Phd. L’aria da studiosi oxfordiani. Sfilano il capogruppo di FdI al Senato Lucio Malan, Roberto Menia (FdI), Giuseppe Valentino della Fondazione An, Francesco Giubilei, Claudio Velardi e Luca Telese che gioca fuori casa ma fa il moderatore. Concetto gramsciano vasto e presuntuoso, pescato da Lenin, rimontato da Togliatti, sganciato ormai da Gramsci come la “leggerezza calviniana” da Calvino, l’egemonia culturale si ripresenta puntuale, a ogni vittoria della destra, come nodo sempre irrisolto del paese. Anche Giorgia non smette di evocarla, aggiornandola all’èra dello storytelling, nella fatidica “narrazione del paese” che va cambiata. Che cos’è? Chi ce l’ha oggi quest’egemonia culturale?

Si parte col botto, cioè col primo “bagno inclusivo” inaugurato nel liceo di Malan, cui la cosa non va giù. Ed è subito “schiavitù del pensiero unico”, egemonia della globalizzazione, “se c’è un’egemonia da combattere oggi è questa”. Si ripercorrono i grandi spartiacque storici dell’egemonia, sorvegliati dai ritrattoni di Gentile e Gramsci che hanno anche zazzere e occhiali simili, e visti così sembrano fatti l’uno per l’altro. C’è quella tosta e ortodossa del Pci, quella della Nuova Sinistra, poi, secondo Telese, un’egemonia cultural-berlusconiana edificata sugli spot televisivi. Quindi i famigerati “nuovi media”, le polarizzazioni di oggi, figlie di vent’anni di risse sui social, dove un discorso “cultural-novecentesco” pare improponibile. Anche Gramsci ora si appassionerebbe all’IA, ai meme, ai troll, alle fake news, agiterebbe newsletter e canali Telegram, s’incanterebbe su Instagram e TikTok e dopo un po’ neanche lui si ricorderebbe cosa stava scrivendo (sensazione che in effetti si prova leggendo i “Quaderni dal carcere”, anche se distrazioni lì non ne aveva). E la destra? Dice giustamente Velardi, “dalla fine degli anni Novanta la destra è maggioritaria ma non si sente tale perché ha un complesso di inferiorità culturale”, mentre “la sinistra ha ancora il potere culturale, il complesso dei migliori, ma da tempo non ha i voti”. Uno scontro tra complessati. “Non si tratta di mettere su una contro-egemonia”, dice Giubilei, “ma di riequilibrare le percentuali di rappresentanza nei Festival, nei saloni del libro”, eccetera.

E “se c’è una battaglia da fare, è quella per la libertà”, vaste programme! (Giubilei è bravo, si presenta bene, ha studiato, ma non graffia, annaspa un po’ nel nozionismo, dovrebbe togliersi quell’aura tra il professorale e l’agente Tecnocasa che ti vende l’Enciclopedia di Gentile a rate). Entra a sorpresa La Russa. Telefonini in alto. Stupito anche lui per le sedie piene, “in genere a queste cose non viene nessuno”. Si lancia in un paragone tra quote rosa e quote nere: “Gli intellettuali di destra ci sono sempre stati, ma dovevano essere graditi alla sinistra, così come le donne che in passato hanno ricoperto ruoli apicali, penso a Nilde Iotti, lo hanno potuto fare perché gli uomini erano d’accordo”.  Ma alla fine sembra l’unico liberale lì dentro. E propone se non altro di “stendere praterie di dialogo al posto delle casematte di Gramsci”.  Che però qui l’alternativa sia ancora tra Gramsci e Gentile è un po’ desolante. Rattrista che si consideri ancora seducente un’idea leninista come l’“egemonia”, sballottata tra una sinistra massimalista e una destra cavalleresca, tagliando via l’area liberale, riformista, antitotalitaria, i Chiaromonte, i Silone, i Flaiano, non a caso mai evocati nella sala Koch.

Ma è anche questo, si sa, il destino di ogni terzo polo in Italia. Nelle tante egemonie à la carte contro cui scagliarsi oggi, “l’egemonia del neoliberismo”, del “politicamente corretto”, del “gender”, del “patriarcato”, del “pensiero unico”, qualsiasi cosa voglia dire, nessuno evoca lo spettro di una “egemonia del vittimismo”, che più di altre sembra dettare la fatidica “direzione intellettuale e morale”. L’intellettuale o scrittore o regista che fallisce ma se la prende col “mainstream”, coi salotti della sinistra coi “poteri forti”, coi fascisti, con l’egemonia “sottoculturale” del pubblico che non capisce, “io non sono mai piaciuto a…”, “ho avuto tutti contro”, e a volte sarà anche vero, altre proprio no. Cose di cui Gramsci non aveva tenuto conto. Finisce tra gli applausi e i selfie con La Russa. Si torna a casa un po’ immalinconiti. Pensando che ci vorrebbero più “ceneri di Orwell” che di Gramsci, più conferenze di Isaiah Berlin che enciclopedie Einaudi o Gentile.