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L'anti-patriarca

Il matriarcato che avanza: il fantasma della donna al potere

Annamaria Guadagni

Grandi madri, amazzoni, suffragette, fino alle nuove leader internazionali: ogni epoca e ogni cultura ha colorato ipotesi matriarcali secondo uno spirito proprio, ma occorre cogliere le novità dell'attualità, lontana da un passato mitico in cui a comandare non erano gli uomini

Uno spettro si aggira tra noi sotto forma di sogno o incubo, utopico orizzonte o distopia, di buon augurio o minacciosa prospettiva, di decadenza inesorabile o speranzosa rigenerazione. Chi si rivede: il matriarcato! Il suo vecchio ricorrente fantasma volteggia nell’immaginario collettivo, inconsapevole suggeritore di satira e scherno nei meme sulla risata compulsiva di Kamala Harris, “gattara senza figli”, o sulla severità del duo Meloni che licenzia a mezzo stampa first gentlemen inadeguati e imbarazzanti. Forse il mondo corre verso l’avvento di Harris, prima donna alla presidenza degli Stati Uniti d’America in un contesto già segnato dall’ascesa al potere di molte figure femminili. In Europa Ursula von der Leyen è stata confermata alla massima carica dell’Unione, Roberta Metsola alla presidenza del Parlamento, mentre la politica estera è affidata all’ex premier estone Kaja Kallas e Christine Lagarde guida da cinque anni la Bce dopo essere stata per otto direttore operativo del Fondo monetario internazionale.


In Italia le sorelle Meloni hanno saldamente in mano governo e partito di maggioranza relativa, la maggiore forza d’opposizione è guidata da Elly Schlein. Marine Le Pen ha perso all’inizio dell’estate la sfida delle politiche francesi, costringendo le forze di un centrosinistra lacerato a fare fronte, e ora si prepara con buone possibilità per l’Eliseo nel 2027. Secondo dati del 2023, forniti dalle Nazioni Unite, non c’è mai stato un così alto numero di donne al top della politica: l’11,3 per cento dei paesi ha donne capi di stato e quasi il 10 per cento capi di governo. Nelle Americhe le parlamentari hanno superato il 39 per cento. Nell’Europa dei primi anni Venti sono state elette o si sono alternate al potere nove premier (Islanda, Lituania, Estonia, Danimarca, Finlandia, Serbia, Moldavia, Francia, Italia) e sette presidenti (Slovacchia, Moldavia, Grecia, Slovenia, Ungheria, Bosnia, Kosovo). Del resto negli Stati Uniti Kamala Harris è l’attuale vice presidente e nelle più importanti poltrone dell’amministrazione Biden siedono tredici donne, tra le quali Janet Yellen, segretaria del Tesoro ed ex presidente della Federal reserve. 

 

                                                            


Chi guarda il bicchiere mezzo vuoto dice che i numeri generali non sono ancora da sballo, vista la proporzione con la quantità di donne con profili di alto livello; e che comunque nelle professioni gli stipendi femminili restano molto più bassi. Ma l’obiezione più forte è che questo potere non è incisivo rispetto a politiche di promozione della condizione e delle libertà femminili. La carriera, se non ci si fa mentori di altre donne, è per sé; il femminismo è o dovrebbe essere per tutte. Vacilla l’idea che rompere il soffitto di cristallo possa produrre grandi risultati. E’ un fatto però che lo vediamo così incrinato per la prima volta nella storia.


Il fenomeno non riguarda soltanto i paesi altamente sviluppati, dove i numeri sono ovviamente più alti, e forse muterà la percezione del potere nelle generazioni future. Come non lo sappiamo ancora. In giugno Claudia Sheinbaum è diventata presidente del Messico, il paese delle scarpette rosse, dove si trova Ciudad Juárez, la città dei femminicidi, della strage di ragazze raccontata nell’agghiacciante, straordinaria inchiesta di Sergio González Rodriguez “Ossa nel deserto” (in Italia l’ha pubblicata Adelphi). Il posto dove la poetessa Susana Chávez, rischiando la vita, ha lanciato la parola d’ordine Ni una mujer menos, ni una muerta más. Perché sì, il più alto numero di donne altamente scolarizzate, potenti e consapevoli di sé coesiste con la diffusione globale del femminicidio e con l’inasprimento dell’apartheid sessuale. Quello che nei paesi dell’islamismo radicale uccide le ragazze che bruciano hijab e niqab per correre libere col vento tra i capelli, quello che le vuole obbligate al matrimonio combinato o alla castità coatta, che le priva del diritto all’istruzione e della libertà di muoversi da sole. Convive con la strage di mogli e fidanzate che evadono da rapporti tossici ma finiscono ammazzate da uomini incapaci di sopportare lo scacco di non poterle più manipolare. Sembra anzi che la forbice tra questi due poli estremi sia destinata ad allargarsi: più cresce l’ombra del potere femminile, più diventa cruenta e barbarica la guerra dei sessi. 


Dietro il potere femminile siedono acquattati da secoli il fantasma del matriarcato e la fantasia di un suo possibile ritorno. E il matriarcato, nell’immaginario, soprattutto maschile, è il mondo patriarcale alla rovescia: al posto degli uomini ci sono donne che si comportano come loro, che li usano per fare figli come api regine, li schiavizzano e li declassano sul lavoro, li molestano sessualmente. L’abbiamo visto in film e commedie di successo e proprio quest’estate è uscita da Argolibri l’edizione italiana dei sogni distopici di Annie Denton Cridge, femminista e suffragista dell’Ottocento, naturalizzata americana, con il titolo “A voi starebbe bene? I diritti degli uomini” (traduzione di Ilaria Mazzaferro e Stella Sacchini, introduzione di Valeria Palumbo).


Con molta ironia, viaggiando su Marte – per questo i suoi racconti furono classificati fantascienza – Annie Denton immaginava una società dove le donne comandano e agli uomini spettano ruoli femminili subalterni: fare i lavori di casa, partorire e accudire molti figli, indossare busti e corsetti che tolgono il fiato, ambire al matrimonio come unica possibile carriera… Una parodia del mondo patriarcale con i ruoli al contrario, per mostrarne l’assurdità e chiedere agli uomini: vi piacerebbe? Occhio alle date: i primi sogni di Denton Cridge furono pubblicati a Boston nel 1870. Negli Stati Uniti la battaglia per i diritti delle donne era partita nel 1848 con la Convenzione di Seneca Falls ed era del tutto evidente che, per avere il voto (ci si arrivò nel 1920), era necessario conquistare il consenso degli uomini. Quindi quella domanda – vi piacerebbe? – era assolutamente carica di senso, mirava a renderli consapevoli, voleva dire: provate a immedesimarvi.


L’Ottocento è forse stato il secolo di maggior circolazione del fantasma del matriarcato. Ma l’esistenza di una antica organizzazione familiare e sociale dominata dalle donne l’aveva già teorizzata Thomas Hobbes nel “Leviatano” due secoli prima, ipotizzando un’epoca in cui la paternità dei figli era nota solo su indicazione delle madri: da questo discendeva il loro potere, che finì nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile. Lì le donne l’avrebbero ceduto in cambio di un nuovo patto sociale, il matrimonio.

Nel Settecento, con lo studio etnologico delle società primitive, si individuò nella discendenza matrilineare la chiave del potere femminile. Il gesuita Joseph-François Lafitau, che aveva vissuto con le tribù irochesi del Nordamerica studiandone i costumi, aveva notato che per questa ragione quel popolo riconosceva alle donne un ruolo più importante. Anche Livingstone notò qualcosa del genere presso alcune tribù africane. Nell’Ottocento, Henry Lewis Morgan, etnologo e antropologo americano, descrisse una successione di stadi nello sviluppo delle civiltà: dalla promiscuità dell’orda primitiva al gruppo famigliare a discendenza matrilineare, per arrivare alla famiglia patriarcale prima poligamica e poi monogamica come forma più alta e progredita. L’etnologo evoluzionista scozzese John McLennan, autore nel 1866 di “Primitive mariage”, scrisse che al tempo dell’organizzazione matrilineare vigeva la poliandria, più uomini per una sola donna, orrore


Per tutti, in sostanza, l’avvento del patriarcato segnava l’inizio della civiltà e l’uscita dalla barbarie. A mettere in discussione questa visione, nel 1861, fu il giurista svizzero Johann Jakob Bachofen. Anche per lui, tutte le società avevano attraversato una serie di fasi storiche: dalla primitiva promiscuità, quando gli uomini sottomettevano le donne con la forza, passando per il matriarcato, età in cui le donne imposero il matrimonio monogamico e una visione religiosa del mondo, assumendo il potere dentro e fuori dalla famiglia, per arrivare al diritto paterno come ultimo stadio, rigettando la legge delle madri. A differenza di altri, Bachofen, che pure considerava la nascita del patriarcato inevitabile e necessaria alla creazione dello stato, pensava alla società matriarcale come a un’epoca felice, di fratellanza tra gli umani e di sintonia con la natura. 


Le tesi di Bachofen furono accolte da Engels che le riprese ne “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”: erano in sintonia con l’idea marxista per cui la famiglia, il concetto di proprietà e le forme sociali e giuridiche corrispondenti sono storiche e mutano nel tempo. Ma l’ipotesi di un periodo matriarcale ha trovato ascolto anche a destra, piacque a Evola per l’identificazione della civiltà con il principio virile. Mentre la psicoanalisi di orientamento junghiano colse nell’archetipo della Grande Madre un elemento indispensabile a nutrire la cultura cercando l’equilibrio tra valori maschili e femminili.


Sono solo tracce del percorso di una parola nei secoli a noi più vicini. A destrutturarlo ha pensato Eva Cantarella, storica e giurista del mondo antico, nei suoi lavori sul matriarcato: dalla voce dell’Enciclopedia Treccani al saggio su Quaderni di Storia n. 28 - 1988, alle introduzioni alle opere di Bachofen; l’edizione più recente è “Il potere femminile. Storia e teoria”, Mimesis 2021. Eva Cantarella mostra come Bachofen fosse innovativo per la sua epoca e, insieme, fuori strada. Innovativo perché utilizzò il mito come fonte di conoscenza: ciò che i miti raccontano può non essere accaduto, ma è stato pensato. Fuori strada perché suppose nei miti la proiezione di una realtà più antica. Al contrario, oggi gli antichisti ritengono che il mito possa anche rappresentare l’opposto della realtà, cioè il mondo capovolto, l’impensabile. 


Tra i miti greci che hanno avvalorato l’idea del matriarcato ci sono quello delle Amazzoni, crudeli guerriere che accoglievano gli uomini solo come schiavi, generavano con gli stranieri, uccidevano i figli maschi e alle femmine tagliavano un seno perché potessero maneggiare meglio l’arco e la lancia. Oppure il mito delle Lemnie, che governavano l’isola su cui vivevano da sole, inavvicinabili per il cattivo odore. I loro uomini le avevano rifiutate per gettarsi tra le braccia di giovani tracie e, per vendicarsi, in una notte le Lemnie li uccisero tutti. Le matriarche sono efferate; solo accogliendo di nuovo i maschi le Lemnie sarebbero guarite dalla loro terribile puzza. 


Più che evocazioni di un passato matriarcale, questi miti sono parabole, ammonimenti sulla crudeltà delle donne di potere e sulla brutta fine che le aspetta se osano infrangere le regole del mondo greco. Da più di mezzo secolo storia e antropologia diffidano della discussione su un passato matriarcale che, fin dall’inizio, sostiene Eva Cantarella, ha avuto “una forte valenza ideologica” ed è slittata sul terreno della politica. A questo destino – precisa – non si sottrae neppure l’ultima affascinante versione, quella che piace al femminismo.  


Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’archeologa lituana Marija Gimbutas ha collocato in Europa, tra il 7000 al 3500 avanti Cristo, la presenza di popolazioni in cui le donne avevano ruoli di potere (capi, sacerdotesse), che credevano a una Grande Dea, e presso le quali gli uomini non erano dei sottoposti. Esisteva tra i sessi e con la natura una buona armonia che Gimbutas chiama gilania. Questa civiltà sarebbe stata poi travolta dalle migrazioni di tribù indoeuropee che imposero i loro valori e i loro costumi patriarcali. Ma anche la gilania, obietta Cantarella, resta un’ipotesi storicamente fragile, più sogno che realtà. 


Insomma ogni epoca e ogni cultura ha colorato ipotesi matriarcali secondo uno spirito proprio. Allora meglio cogliere le novità del presente e analizzarle per quello che sono, scacciando i fantasmi del passato. E quando si parla di amazzoni contemporanee è solo un antico e misogino racconto che sta tornando.