La riflessione

Perché un anno fa il “siamo tutti israeliani” è durato solo qualche ora

Pierluigi Battista

La più grande carneficina di ebrei dopo la Shoah è stata subito archiviata, ridotta a un incidente di percorso. Mancava solo il “se la sono voluta” spudoratamente proposto dal capo dell'Onu Antonio Guterres

Dopo l’11 settembre, il “siamo tutti americani” sarà durato qualche mese, forse anche qualcosa di meno. Dopo l’invasione russa del febbraio del 2022, il “siamo tutti ucraini” è durato una settimana, con i putiniani del circo dei talk-show già chiamati a fare da primattori mentre si consumava la strage di Bucha. Dopo il 7 ottobre, il “siamo tutti israeliani” è durato al massimo una manciata di ore. Basta scorrere i giornali. Dal 9 ottobre, dimenticate d’un tratto le donne ebree stuprate e i bambini decapitati dai predoni di Hamas, ha cominciato a rombare il coro della “reazione sproporzionata”, e financo del “genocidio”. Ha scritto Bernard-Henri Lévy nel suo “Solitudine di Israele”, pubblicato in Italia dalla Nave di Teseo, che “raramente il negazionismo ha funzionato così bene, così in fretta, in tempo reale” e “raramente la gomma per cancellare l’immondizia umana ha operato così efficacemente”. E anche Paolo Mieli, nel suo “Le fiamme dal passato” (Rizzoli) ha allineato un po’ di date.


Ecco, i bombardamenti israeliani su Gaza erano appena iniziati e l’ingresso delle truppe via terra era ancora di là da venire, e le vittime di Israele venivano già dipinte come i carnefici. I primi appelli al “cessate il fuoco” arrivano già attorno al 20 ottobre e del 17 ottobre la notizia (falsa, costruita ad hoc da Hamas) di un missile israeliano puntato su un ospedale era stata già accettata come verità assoluta, con un’opinione pubblica che già ruggiva contro l’arrogante aggressione sinistra. E sugli ostaggi ancora nelle mani di Hamas? Silenzio totale. Anzi, per aver osato distribuire volantini con le facce dei bambini rapiti, i baldi militanti di Amnesty International, un tempo associazione seria, ora ridotta a strumento di propaganda per intrupparsi nella bande “antisioniste”, sono intervenuti per allontanare i molestatori. E sullo stupro di massa del 7 ottobre nella manifestazione contro il femminicidio, e siamo solo alla fine del novembre del 2023? Niente, silenzio totale. Anzi no: una donna con il cartello che ricordava quelle vittime è stata insultata e cacciata dal corteo. Era solo il 5 dicembre del 2023, a neanche due mesi dal 7 ottobre quando le rettrici, dell’un tempo prestigiose università americane, Harvard, Mit e Penn University alla domanda semplice della deputata Elise Stefanik: “Fare appelli per il genocidio degli ebrei vìola i codici i vostri codici di condotta o le regole su molestie e bullismo?”, hanno risposto con un “dipende dal contesto” e “solo se quel che si dice diventa una condotta”, che è come dire: “Solo se il genocidio invocato viene realizzato”. Surreale, ma è la surrealtà fanatica e ideologica che ha vinto, anzi stravinto, sul raccapriccio iniziale ed effimero per il sadismo crudele del pogrom di Hamas.


Subito si è mosso Antonio Guterres, capo di quell’Onu che assegna la presidenza della commissione sui diritti umani all’Iran che impicca in piazza i dissidenti e uccide le donne senza velo, sproloquiando sull’azione di Hamas che non era avvenuta “nel vuoto” ma doveva essere inquadrata. Dove? Preso detto: “nel contesto dell’occupazione israeliana” (che in seguito diventerà “soffocante occupazione”) che non c’è più a Gaza dal 2005. Una consigliera dell’allora ministro degli Esteri britannico, il conservatore David Cameron, non esitò a rompere il principio secondo cui “la parola di una donna è sacra”. Ma non è sacra se la donna stuprata è israeliana, non solo ebrea, ma anche araba israeliana: “non abbiamo le prove e comunque non sappiamo se a commettere lo stupro del 7 ottobre siano stati quelli di Hamas o schegge ‘deviate’, diremmo noi nel nostro lessico frusto della dietrologia, dell’esercito israeliano”, e questo a una manciata di giorni dal pogrom, quando i feroci bombardamenti su Gaza erano solo all’inizio”. Non poteva mancare l’antisemita Jean-Luc Mélenchon che si è rifiutato di definire “terrorismo” la carneficina del 7 ottobre. Anche la Croce Rossa si rifiutata di visitare i prigionieri israeliani segregati nelle grotte di Gaza e si è rifatta viva sotto i riflettori solo quando la tregua del 24 novembre consentì la liberazione di alcuni ostaggi in cambio della scarcerazione in Israele di moltissimi terroristi. Poi abbiamo visto la vicedirettrice dell’organizzazione Un Women Sarah Douglas, cioè un’organizzazione istituzionalmente preposta alla tutela delle donne in tutto il mondo, “posare davanti a una bandiera palestinese” e addirittura, come scrive sempre Bernard-Henri-Lévy, a “ripostare decine di tweet pro Hamas. E tutto questo mentre si invocava “la fine immediata dei combattimenti”. Mai la liberazione degli ostaggi, mai lo smantellamento dell’imponente armamentario come indispensabile premessa per la sempre più evanescente possibilità di “due stati per due popoli” (stati “democratici”, amava puntualizzare Marco Pannella), mai la messa in sicurezza dei bambini di Gaza nel labirinto di tunnel sotterranei costruiti per attaccare Israele, ma solo e soltanto “la fine immediata dei combattimenti” da parte degli israeliani. Fine immediata, unilaterale, solitaria: premio per l’atto di “resistenza” compiuto il 7 ottobre.


La più grande carneficina di ebrei dopo la Shoah è stata subito archiviata, ridotta a un incidente di percorso. Mancava solo il “se la sono voluta” spudoratamente proposto da Guterres per chiudere l’orrore di quel capitolo, declassandolo a normale atto di guerra, un colpo certo forse accompagnato da un surplus di crudeltà (sapete, il “contesto”) alla prepotenza colonialista degli ebrei che hanno usurpato la terra e non esitano a promuovere un genocidio per restare in una terra che non è la loro. Stupefacente la velocità con cui questo plateale ribaltamento ha avuto modo di realizzarsi e di installarsi nel cuore dell’opinione pubblica mondiale, sfondando ogni capacità di resistenza anche nel mondo democratico non aprioristicamente contrario all’esistenza dello Stato di Israele. Come se il 7 ottobre fosse stato il pretesto per sfogare ostilità inespresse o represse nei confronti dello stato degli ebrei. Come se la declamazione del “mai più” recitato nei giorni della memoria avesse rivelato la sua vacua e retorica inconsistenza. Come se un pertugio si fosse spalancato per dire impunemente l’indicibile. Indicibile fino al 6 ottobre del 2023.

Di più su questi argomenti: