Intervista
Gli ottimisti hanno ragione. La lezione di Steven Pinker
Crisi economica, conflitti, cronaca nera: domina la percezione di un mondo che va a rotoli. E invece su tutti i fronti – guerre, crescita, criminalità, malattie, povertà – l’umanità sta vivendo un costante miglioramento. Solo che non ce ne accorgiamo. Da Harvard al Foglio, la lezione dello scienziato canadese
Ieri è successa nel mondo una cosa straordinaria di cui non avete sentito parlare. Giornali e social media non se ne sono occupati e neppure i grandi network tv. In un solo giorno, 137 mila persone sono uscite da una condizione di povertà estrema. A darci la breaking news è Steven Pinker, che la fa seguire da una pausa a effetto, per poi aggiungere: “Ed è successo tutti i giorni negli ultimi 25 anni. Perché questo non dovrebbe essere un grande titolo per i media?”. Il mondo raccontato da Pinker appare lontano anni luce da quello che domina l’ecosistema dell’informazione, tradizionale o digitale che sia. E’ un mondo fatto di tendenze di lungo periodo che mettono a dura prova la percezione quotidiana dominante, quella di essere in una continua spirale che ci trascina verso un costante peggioramento. La realtà raccontata da Pinker, dati e grafici alla mano, ci svela quanto siamo miopi quando si tratta di riconoscere cosa sta accadendo davvero intorno a noi. Certo, le sfide sono tante, le tragedie sembrano accavallarsi, in un continuo inseguimento tra crisi economiche, conflitti e casi di cronaca nera. Eppure su tutti i fronti – guerre, aspettative di vita, crescita economica, criminalità, fame, malattie, povertà – l’umanità sta vivendo un costante miglioramento. Solo che non ce ne accorgiamo.
“La migliore spiegazione possibile per l’idea che abbiamo dei bei vecchi tempi passati, è che abbiamo la memoria corta”, ama ripetere Pinker, citando Franklin Pierce Adams, un celebre opinionista dell’America del secolo scorso, una delle penne pungenti della Tavola Rotonda dell’Algonquin, il circolo creativo che dominava il pensiero della New York degli anni Venti e Trenta.
Sabato alla Festa dell’ottimismo del Foglio, a Firenze, il professor Pinker è stato un po’ l’ospite d’onore e non poteva essere altrimenti, perché dell’ottimismo basato sulla razionalità è diventato una sorta di teorico planetario. Sono molti anni che con i suoi studi e i suoi libri si batte contro la mentalità dominante che vede il mondo solo in tonalità di grigio e nero. Senza negare assolutamente la drammaticità delle condizioni di tanti umani, ma cercando di contestualizzare i dati per offrire una prospettiva che cerchi di leggere dove sta andando la storia, senza fermarsi alla cronaca quotidiana.
Pinker è uno scienziato settantenne canadese naturalizzato americano che vive a Boston e insegna a Harvard, dove occupa la cattedra Johnstone Family al dipartimento di Psicologia. Ha avuto riconoscimenti internazionali di ogni genere per le sue ricerche in campo cognitivo, i suoi studi sul linguaggio, i suoi scritti sulle relazioni sociali. Qualche tempo fa Time lo ha inserito tra i cento pensatori più influenti del nostro tempo, lo stesso riconoscimento che gli ha tributato per quattro volte Foreign Policy.
Ha pubblicato una dozzina di libri, buona parte dei quali usciti anche in Italia per Mondadori. Da “L’istinto del linguaggio” (1997) a “Come funziona la mente” (2000), da “Tabula rasa” (2005) al celebre “Il declino della violenza” (2013), fino al più recente “Razionalità” (2021), ogni suo libro ha aperto dibattiti e offerto innumerevoli spunti agli editorialisti del New York Times, dell’Atlantic o dell’Economist.
“Se si guardano i dati e i trend, il mondo appare diverso”, racconta Pinker, sbarcato a Firenze per rispondere all’invito del Foglio dopo aver scoperto che i suoi studi vengono citati spesso su queste pagine. Nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, Pinker è arrivato insieme alla moglie Rebecca Goldstein, a sua volta una celebre scrittrice e scienziata della filosofia, premiata dal presidente Barack Obama nel 2014 con la medaglia per le National Humanities, uno dei maggiori riconoscimenti culturali della Casa Bianca. Prima di parlare al pubblico del Foglio, Pinker si è lasciato incuriosire dalla politica italiana passata e contemporanea. Gli affreschi e le opere di Palazzo Vecchio hanno portato il discorso sull’Italia del Rinascimento e di Machiavelli, per poi tornare all’attualità quando il professore di Boston ha incrociato la segretaria del Pd Elly Schlein e il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e ha chiesto che gli si riassumesse lo scenario politico italiano.
“Quando si tratta di politica – ironizza Pinker in attesa del suo intervento – i partiti al potere sono sempre quelli ottimisti e quelli all’opposizione sempre pessimisti. Io vengo spesso categorizzato come un ottimista, ma non è una questione di bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Si tratta di guardare la realtà per quella che è, di fare valutazioni basate sui dati”.
In politica però tutto è reso più complicato dall’estrema polarizzazione di questi anni, che lo scienziato americano studia da tempo anche dal punto di vista dei meccanismi psicologici che l’accompagnano. “Non c’è dubbio – spiega – che la percezione polarizzata della realtà che abbiamo ha portato a cambiamenti significativi in tempi recenti sulle due sponde dell’Atlantico. La crescita dei populismi è avvenuta in parallelo in Europa e negli Stati Uniti. Qualcosa è accaduto intorno al 2016, negli anni di Trump e della Brexit, una rivolta contro le cosiddette élite. Penso che una larga parte della spiegazione del fenomeno sia da cercare nei flussi di immigrazione, che si sono andati a incrociare con le conseguenze della grande recessione del 2008. C’è un’intera generazione cresciuta in un momento in cui si sono ristrette le opportunità economiche ed è cresciuto il cinismo riguardo a tutto il sistema. Una rivolta contro l’establishment”.
Se gli anni intorno al 2016 sono stati un momento di svolta, non si può non notare che sono esattamente quelli della “maturità” dei social media, il momento in cui il mondo digitale decolla per assumere le caratteristiche che ha oggi in termini di bolle di pensiero, echo chambers, ansia da viralità. Pinker però sfugge sempre dalle semplificazioni e dubita che fenomeni epocali come la polarizzazione o il proliferare delle teorie della cospirazione siano spiegabili solo con il boom dei social media.
“Sono senz’altro una parte importante della storia – ci dice – ed è vero che quello è il momento in cui sono diventati davvero rilevanti. Sicuramente c’è un ruolo che hanno avuto i generatori di viralità che ha studiato accuratamente Jonathan Haidt (autore del bestseller internazionale ‘La generazione ansiosa’, ndr). Ma quando vengono a galla fenomeni come il populismo e la polarizzazione attuali, significa che sotto crescevano da tempo molte altre bolle che poi vengono a galla. La crisi economica è tra queste, ma negli Stati Uniti per esempio uno dei fattori di radicalizzazione è la carenza di abitazioni. Sembra una spiegazione un po’ noiosa, ma i grandi fenomeni si capiscono spesso meglio guardando dati e grafici noiosi. La casa è sempre stata un fattore centrale nella cultura americana, ma oggi costruire sta diventando impossibile per le mille restrizioni che esistono, le città non hanno più spazio e i prezzi inevitabilmente salgono. Questo crea un enorme malumore”.
Un altro fattore decisivo per la polarizzazione è quello che Pinker descrive come “segregazione da livello di educazione”. In America si assiste a una progressiva migrazione verso le città di persone con laurea e master, mentre le aree rurali perdono i cittadini con i migliori titoli di studio e si crea un divario, che poi si traduce anche in scelte politiche. In questo scenario si inserisce poi quella che le autorità sanitarie americane hanno caratterizzato come “epidemia di solitudine”, attribuendo a questo male oscuro americano anche la responsabilità della crescita di morti “per disperazione” legate all’alcolismo e all’abuso di droghe e antidolorifici.
Anche su questo fronte, però, Pinker si muove con la cautela dello scienziato che guarda i numeri e sfugge dalle etichette: “L’idea dell’epidemia è stata un po’ esagerata, perché i dati non ce la mostrano con chiarezza. So che le mie spiegazioni sono sempre un po’ noiose, rispetto a quello che piace ai giornalisti per fare un titolo, ma ci sono spiegazioni noiose anche a questi fenomeni. Per esempio il semplice fatto che ci sono oggi molte più persone single che in passato. Ci sono famiglie sempre più piccole, non abbiamo figli e cugini intorno come un tempo, i nostri cerchi sociali si restringono e certamente per questo c’è più solitudine. Se lo racconti così – prosegue Pinker – ti dicono che sei di destra e che vuoi mandare un messaggio ‘fate più figli’, ma è la semplice realtà dei dati, è demografia. Poi, certo, in un contesto così i social media contribuiscono a polarizzarci ancora di più, ma il punto di partenza è che viviamo in una società che sta cambiando e che oltre alla segregazione per educazione, ha anche una segregazione residenziale. Si vive in contesti dove ci sono sempre meno spazi di confronto, luoghi comunitari. C’erano istituzioni che un tempo facevano da ponte tra le classi sociali e tenevano uniti: l’esercito quando c’era la leva obbligatoria, le chiese, che oggi sono in crisi, realtà come i Lions, i Rotary, i circoli di volontariato, i progetti caritatevoli. Luoghi dove incontravi posizioni culturali diverse dalla tua e dovevi farci i conti”.
In questi ambiti, segregati e privati di luoghi di confronto e valvole di sfogo, fiorisce la tentazione di lasciarsi conquistare dalle teorie della cospirazione, un fenomeno che Pinker, con il suo approccio da psicologo sperimentale, studia a fondo da tempo. E anche su questo fronte va contro le semplificazioni e la mentalità comune. “Diciamo subito che le connspiracy theories non sono niente di nuovo”, spiega il professore. “Ci sono studi come quelli di Joseph Uscinski che ci aiutano a capirle meglio. Uscinski andava alla ricerca di dati che fossero costanti nel tempo per capire se siamo più cospiratori oggi del passato o se ne siamo semplicemente più consapevoli.
Uscinski ha trovato una curiosa chiave di lettura che lo ha aiutato a rispondere: le lettere inviate ai direttori dei giornali americani. Grazie agli archivi di giornali come il New York Times, ha potuto studiare cento anni di lettere, che un tempo erano la modalità principale con cui la gente si sfogava e tirava fuori le storie più assurde (non c’erano i social). Analizzando questa mole di contenuti spesso folli che venivano riversati sulle redazioni dei giornali, possiamo dire che le teorie della cospirazione non sono certo un fenomeno recente. Fanno parte della natura umana”.
Quello che è sicuramente cambiato, aggiunge Pinker, “è il fatto che abbiamo strumenti per diffondere queste idee bizzarre in un modo molto più veloce e con enorme ampiezza rispetto al passato. Ma non siamo diversi dai tempi delle green ink letters, come le chiamano gli inglesi: le folli lettere ai direttori scritte in inchiostro verde. La domanda che dovremmo farci è perché le fake news che un tempo erano confinate ai tabloid da supermercato, ora sono dovunque. E perché persone razionali ci credono. Una cosa è cercare un po’ di intrattenimento sui tabloid come accadeva in passato e leggere storie inverosimili sul mostro di Loch Ness. Altra cosa è vedere persone che vivono vite normali, portano i figli a scuola, fanno la spesa come tutti, e poi credono e difendono con forza la teoria secondo la quale nel governo americano ci sarebbe una fazione segreta di pedofili guidata dai Clinton che fa cerimonie in pizzerie alle porte di Washington”.
Non si tratta, ci spiega Pinker, di persone completamente irrazionali. “Ci sono due aree, psicologicamente parlando, che racchiudono le esperienze comuni. Una è quella della quotidianità, degli oggetti fisici con cui fai i conti tutti i giorni, delle persone che incontri. L’altra è l’area del mito, delle grandi domande esistenziali, delle questioni cosmiche. Queste non sono cose che sono cambiate con l’avvento del digitale, l’umanità è sempre stata così, il digitale ha solo amplificato certi fenomeni. Il problema è che quando si tratta delle cose quotidiane, stiamo attenti ai dettagli. Ma quando si parla di cose ‘cosmiche’, psicologicamente le persone sono sempre state un po’ indifferenti rispetto alle prove, alla logica, alla plausibilità di tanti racconti. Ci piace la mitologia, siamo umani e apprezziamo le belle storie. E poi siamo profondamente tribali, abbiamo la tendenza naturale a credere alle storie che ci raccontano quelli ‘della mia parte’ e a difenderle contro quelli dell’altra parte. Ci piace tutto quello che ci fa apparire in una buona luce e che fa apparire cattivi i nemici. Niente di nuovo sotto il sole. Però ciò che è cambiato è che per la prima volta dall’Illuminismo e dalla rivoluzione scientifica abbiamo gli strumenti per cercare risposte alle grandi domande. Abbiamo una scienza che ci sta dando risposte sul cosmo, ci sta facendo vedere parti dell’universo lontanissime, ci sta spiegando cose che erano impensabili centocinquant’anni fa”.
Per questo quando si scende sul terreno dei possibili antidoti alle polarizzazioni e alle teorie cospirative, secondo Pinker, un compito importante e decisivo ce l’hanno i media e le istituzioni educative, università in testa. La battaglia per descrivere una realtà basata su dati di fatto non è perduta, ma richiede secondo Pinker un approccio razionale per il quale gli uomini hanno tutte le risorse disponibili, se sanno utilizzarle. “Non siamo completamente vulnerabili a queste infezioni cognitive che sono le cospirazioni, abbiamo un qualche sistema immunitario che ci ha permesso di non estinguerci. Abbiamo sviluppato le lingue anche per questo, comunichiamo, abbiamo filtri e scetticismo, tutte cose che hanno aiutato l’umanità a diventare quella che è. Abbiamo difese cognitive che ora per esempio dovremo mettere in azione di fronte ai rischi dell’intelligenza artificiale. Perché l’AI è una cosa bellissima, ma può essere un altro ambito in cui sviluppare storie false sempre più sofisticate”. Le risorse per difenderci le abbiamo, ma non sarà facile. “Dobbiamo sviluppare queste doti e vincere il bias cognitivo più forte che abbiamo: quello della ‘mia parte’”, insiste il professore. “E’ la tentazione di credere a qualsiasi cosa che faccia apparire più forte la mia nazione, la mia religione, la mia squadra preferita. È l’unico bias che non riusciamo a collegare con l’intelligenza”.
Un esempio evidente della fatica necessaria a superare questo tipo di preconcetti, secondo Pinker, è il tema del cambiamento climatico. “Molti scienziati pensano che il non riconoscere il problema sia solo legato all’educazione scientifica ricevuta. Spieghiamo tutto meglio e più a fondo, dicono, e sarà chiaro a tutti che andiamo incontro a problemi seri per il clima. Ma non è così semplice. Gli studi ci dicono che le persone che riconoscono che esiste un cambiamento climatico antropogenico, non ne capiscono le ragioni scientifiche. Se chiedi a gran parte di loro, non sanno se il gas che provoca problemi nell’atmosfera sia idrogeno, nitrogeno o biossido di carbonio. La verità è che il vero fattore che fa la differenza su questo tema non è l’istruzione, ma la politica: più sei di destra e meno credi al cambiamento climatico, e viceversa”.
Serve quindi uno sforzo per rimuovere l’ideologia dai dibattiti scientifici e possibilmente tenere lontana la politica: “Ci sono alcuni scienziati del clima che sostengono che la cosa peggiore che è accaduta alla battaglia per sensibilizzare sul climate change, sia stato il documentario di Al Gore ‘Una verità scomoda’ del 2006, perché ha politicizzato e polarizzato il tema”. Consapevoli dei bias cognitivi e delle ideologie che ci imprigionano, dobbiamo comunque cercare una via d’uscita e Pinker la vede soprattutto nella contestualizzazione. I media, per esempio, devono provare a raccontare di più il mondo non limitandosi a quello che è accaduto ieri, ma mettendolo in relazione ai trend di più lungo periodo.
“Il dato delle 137 mila persone uscite dalla povertà ogni giorno – spiega il professore di Harvard – fa parte del trend più complessivo sul miliardo di persone che nell’ultimo quarto di secolo hanno visto cambiare le loro aspettative di vita e di cui non parliamo. C’è la tendenza a raccontare solo ciò che è inusuale. Se per vent’anni l’aspettativa di vita sale e poi all’improvviso un anno cala (per esempio per il Covid), ci si concentra solo sul calo mentre in realtà se si guarda il trend le cose stanno migliorando da decenni. Sui giornali andrebbero pubblicate meno parole e più grafici, le persone molto spesso si convincono di più di fronte a un’immagine e in particolare a un grafico, che non con una descrizione”.
“Ci tengo a dire – aggiunge Pinker – che essere ottimista non significa affatto negare che le cose a volte peggiorano. Che l’aspettativa di vita sia calata per il Covid è un dato di fatto, anche se adesso in gran parte dei paesi è tornata come prima. Ma è anche un dato di fatto che sia comunque molto migliore del passato. E’ un dato anche che negli ultimi due anni sia salito il numero delle vittime per le guerre nel mondo. Non è certo un miglioramento, è un dato legato all’invasione di Putin in Ucraina, alla guerra civile in Etiopia, alla situazione in Sudan e anche a Gaza, anche se è la meno distruttiva tra le guerre in corso, ma la più raccontata. Nello stesso tempo però, se guardiamo il trend, siamo tornati ai livelli della fine degli anni Ottanta del secolo scorso, ma siamo lontani da dove eravamo negli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta, quando le cose andavano assai peggio. Non si tratta certo di essere felici per come vanno le guerre, ma di metterle in prospettiva”.
Diventa però difficile farlo quando l’ideologia finisce per dominare anche negli ambienti accademici, come sta accadendo in particolare negli Stati Uniti. Pinker è da tempo protagonista di intense battaglie per la libertà accademica, in un’istituzione che è presa d’assedio da cancel culture, cultura woke e di recente anche da un’ondata di antisemitismo che rendono difficile parlare di attualità. “Se prevale la convinzione che puoi essere licenziato per le tue idee – spiega il professore nel Salone dei Cinquecento al pubblico del Foglio – allora nessuno rischierà più, anche nella ricerca scientifica. Non puoi essere uno scienziato se non segui un metodo in cui ti confronti con chi la pensa diversamente da te e sottoponi le tue idee al giudizio degli altri. Per questo serve la libertà di espressione, non si possono punire le idee. Quello che è accaduto nei campus americani è anche legato al fatto che gran parte dei professori sono di sinistra e tendono ad assumere e a discutere solo con chi è di sinistra, e questo sta riducendo la capacità di confronto. Si progredisce solo in un confronto continuo di idee anche con chi la pensa diversamente, se le università si chiudono ideologicamente abbiamo perso tutti”.
Le conseguenze si vedono nelle standardizzazioni come quelle che riguardano la necessità di rispondere a certi requisiti riassunti nell’acronimo Dei (diversity, equity e inclusion) che sono nati con le migliori intenzioni, ma “stanno diventando discriminatori e spingono ad adeguarsi al pensiero dominante, invece di sfidarlo”. Sono temi culturali con una forte valenza politica che si innescano anche sull’attuale corsa alla Casa Bianca, su cui Pinker non si sbilancia “perché i numeri sono equilibratissimi e abbiamo un sistema elettorale folle. Io non guardo molto i sondaggi, mi convincono più i sistemi predittivi che tengono insieme tanti fattori: e qui al momento lo scenario è che una vittoria di Kamala Harris è prevista nel 55 per cento dei casi, contro un 45 per cento per Donald Trump”.
C’è giusto il tempo, dopo questa cavalcata nella razionalità dei dati, per provocare Pinker sulle cose che non si possono misurare: che spazio c’è, in questo contesto razionale, per cose come l’amore, la felicità, il desiderio? Sorride: “Me lo chiedono spesso: ‘Professore, ma se voglio essere razionale, posso ancora amare i miei figli’? E’ una domanda bellissima e la risposta è che la razionalità è sempre al servizio di un obiettivo. Amare i figli o un coniuge significa essere umani e questo significa avere degli obiettivi da raggiungere. Usiamo anche la razionalità per farlo, ma come strumento: non deve essere la razionalità a dirti cosa desiderare”.
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