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Problema generazionale

Dall'ansia di prestazione all'ansia da prenotazione. Come soffre la Gen Z

Fabiana Giacomotti

L’app con un avatar fonetico permette di non sentirsi dire "no, non c'è posto" ed è perfetta per una generazione che teme la performance e respinge la novità

Noi che credevamo che il massimo della deregulation psico-sociale degli ultimi decenni fosse l’ansia da prestazione – sessuale o professionale faceva lo stesso visto che le conseguenze più o meno si assomigliano e richiedono cure palliative o fattuali ex post da parte di quello/a che rimane a bocca asciutta o con il lavoro non fatto – nel corso di una chiacchierata dello scorso weekend abbiamo scoperto che siamo rimasti indietro. Negli Usa dei giovanissimi ricchi e affluenti che la notte del 5 novembre festeggiavano nelle università fra canti e balli ogni stato che si illuminava di blu sui tabelloni, salvo scoprire, già sbronzi, come la mappa degli Usa andasse colorandosi di rosso, una delle app più frequentate del momento permette di prenotare un tavolo nei ristoranti più “coveted”, più ricercati, usando per esempio la voce di Leonardo DiCaprio e dunque lasciando a lui, avatar fonetico, il rischio di sentirsi rispondere che no, non c’è posto, richiami fra un mese, e dunque di restarci male.

 

Dall’ansia di prestazione all’ansia da prenotazione è stato un attimo, insomma, ma l’amica pubblicitaria del grande gruppo che lavora sulla AI generativa (ma sì, ve lo diciamo, Publicis), dice che la app “che fa le voci”, Leo vai avanti tu che a me scappa da ridere, è solo una delle tante alle quali si rivolgono questi ragazzi spaventati letteralmente dalla propria ombra, che non a caso modificano e allungano e assottigliano prima di postarla su Instagram per farla combaciare con l’immagine ritoccata e filtrata. La Z Gen teme la performance, qualunque sia, cioè il contatto con la realtà, fosse pure discutere di un tavolo all’angolo o vicino alla veranda, al punto di volerle anteporre un filtro protettivo, mutante, altro da sé, che non la coinvolga fisicamente e psicologicamente in alcun modo. Abituata alla profilazione ovunque, a scuola come su Amazon e su Netflix, che suggeriscono anche tre volte al giorno gli oggetti da comprare e i film da vedere, “forse ti potrebbe piacere anche”, senza richiedere la benché minima ricerca, restringendo costantemente l’orizzonte culturale, visivo, perfino consumistico – poche cose, uguali, per tutti – questa generazione delega l’attesa, respinge la novità, osteggia il contatto fisico con un’esistenza dove, inevitabilmente, non tutto scorre liscio, e dove l’analogico – la voce in un telefono, lo scatto di una macchinetta fotografica, l’uso della Polaroid – sono “fancy experience”, esperienze divertenti, da provare ogni tanto, senza eccedere, vuoi mica che la foto venga male e non si possa correggere. Nel frattempo, Scarlett Johansson, la “Lucy” sballata e ultrapotente di Luc Besson che dieci anni fa sembrava fantascienza, ha vinto la sua battaglia contro OpenAI per uso improprio della voce. Peccato, la volevano tutti.

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