Una dose di passività che anestetizza le capacità di scelta

Gaia Manzini

A lezione leggiamo insieme Un digiunatore di Franz Kafka. Un uomo chiuso in una gabbia mette in mostra la sua magrezza e l’abnegazione che fa di lui un artista, un artista del digiuno. Come esercizio chiedo agli studenti di riscrivere il racconto in chiave contemporanea. Ed ecco che al centro della scena compare una influencer in burnout rispetto alle abbuffate di like dei mesi precedenti; un mindmaster miliardario con un protocollo di vita restrittivo, volto a fare di lui un immortale con milioni di discepoli sui social; uno streamer al sesto giorno di maratona live in cui intrattiene il pubblico quasi senza mangiare né dormire. Sapete quello che state dicendo, vero? Scuotono la testa. State dicendo che i social sono una gabbia, come quella del digiunatore. C’è un fuori che fa paura e, in contrasto, un dentro che conforta, espressione della propria estensione del controllo, anche se poi a controllarti sono altri: quelli che ti vogliono trattenere online il più a lungo possibile per il loro ritorno economico. 


Mia figlia, 14 anni, dopo una giornata di studio, una passeggiata, l’estenuante visita a un museo, dopo tutti i tentativi di noi genitori di rendere attrattivo il mondo, si chiude in camera e di rito dice Ora mi rilasso un po’, ok? Il rilassarsi consiste nello stare su Instagram e TikTok il più a lungo possibile fino a che un adulto non interviene. L’esperienza filtrata esime dall’interazione fisica, dai possibili imbarazzi, dal senso di inadeguatezza. Io non so cosa mi piace, ha detto afflitta l’altra sera dopo aver studiato chitarra, aver provato nuoto, atletica, equitazione, tennis, pallavolo. Cosa mi piace proprio non lo so. Perché saperlo implica provare e riprovare, fare fatica, uscire nel mondo. 


Non conosco i social così bene, ma capisco che sono qualcosa a cui tornare appena si può. Un angolo di stand by. C’è una dose di passività che anestetizza qualsiasi capacità di scelta; è rilassante perché nessuno ti richiede un’elaborazione critica. L’apatia è uno strumento usato per controllare con più efficacia le decisioni dei fruitori ed è giusto che i social se ne assumano la responsabilità soprattutto davanti alle giovani menti. Al di là del singolo contenuto, che talvolta può essere interessante, l’uso prolungato è di per sé una semantica che va rafforzandosi e indebolendo chi la subisce: la gabbia è il mondo controllato, sicuro, e quello che c’è fuori invece è da temere. Certo non basterà limitare l’uso di TikTok & Co per invertire la rotta, mi sembra però che questa sfiducia nella vita instillata nella giovinezza sia una delle più orribili eredità che possiamo lasciare alle nuove generazioni.