terza puntata
Che senso ha vietare i social ai ragazzi? Parliamone
La legge dell’Australia sugli under 16, i genitori che esultano, i figli che non capiscono, le scuole che osservano e i nuovi confini della libertà, dell'educazione e della responsabilizzazione. Un girotondo
Vietarli o no? Dopo che l’Australia ha approvato una legge, la prima nel mondo, che ha l’obiettivo di vietare alle persone con meno di 16 anni di accedere ai principali social media, abbiamo organizzato un girotondo per parlarne un po’. Qui la prima puntata e qui la seconda.
Un passaggio al livello sui social non può che fare bene
Il divieto di accesso ai social network fino ai 16 anni può sembrare una misura che somiglia all’invenzione della patente di guida per maggiorenni. Non ci si pensa, ma ci vollero decenni per regolamentare il caos, il pericolo e gli incidenti causati dall’automobile e dalla sua velocità. In Italia i primi limiti legali d’età alla guida arrivarono solo nel 1933. All’inizio del secolo tante tecnologie nuove, difficili da controllare, cambiavano la vita delle persone. E la frase che ho appena scritto tornerà utile nel 2124. Non penso però che vietare i social ai bambini sia come mettere il primo semaforo, perché l’utilità dell’automobile nel progresso dell’umanità è indiscutibile, l’utilità dei social network invece è quantomeno dubbia. Io personalmente ho molta nostalgia di quando si diventava influenti per le cose che si erano fatte. Ora invece si fanno delle cose, diventare ministri per esempio, in quanto influencer. Ma non è solo l’avanzare degli anni a rendermi critico: dubito, infatti, che il me cinquantenne del 1924 alla guida della sua nuova decapottabile (si chiamava “Ford T Runabout”) avesse nostalgia del suo ronzino. Diciamo che non ci è chiaro se i social sono l’automobile – magari prima dell’invenzione dei freni – oppure il dimenticato dirigibile. Ma nel frattempo che proviamo a capire come far sì che la potenza di questi straordinari strumenti sia usata a nostro vantaggio, piuttosto che a vantaggio solo di chi li fa, perché non provare a mettere almeno qualche passaggio a livello? In fondo, abbiamo buone ragioni nel vietare ai bambini cose che possono fare male ma portano bellezza alla nostra vita, come il vino: aspettiamo che siano abbastanza maturi da cercare un equilibrio tra il male e il bello. Allora perché non vietare, almeno ai bambini, cose che spesso portano bruttezza alla nostra vita e probabilmente fanno anche male? Con i bambini la responsabilità è tutta nostra e dobbiamo prendercela, con gli adolescenti sono invece per un dialogo preventivo. Nel sondaggio del mio tinello il divieto ha vinto col 100 per cento dei voti.
Marco Simoni
professor of Practice, Università Luiss
Una legge folle: i responsabili dei ragazzi siamo noi genitori, non lo stato
La legge in corso di approvazione in Australia per bandire ai minori di 16 anni l’accesso ai social media è inapplicabile e inaccettabile. Come sin qui dimostrato da molti tentativi analoghi tentati in altri paesi avanzati. Vedi il sostanziale fallimento della norma simile introdotta l’anno scorso in Francia, o la bocciatura da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti di un bando analogo adottato dallo Utah. Tutti questi tentativi, nati per evitare ai minori contenuti e influenze dannose derivanti dalla rete, non riescono mai a distinguere giuridicamente tre cose ben diverse: le piattaforme cioè i siti a contenuti dannosi, siano essi quelli sessuali o quelli violenti; i provider di Tlc attraverso cui si accede alle piattaforme; e infine i cosiddetti “social” cioè chat e siti di comunicazione pubblica. La legge australiana prevede multe draconiane fino all’equivalente 30 milioni di euro per le piattaforme che non rispettino il divieto, ma in realtà le sanzioni finirebbero non su di loro, ma su chi offre il servizio per l’accesso di rete, i provider, cioè in Italia ad esempio Tim e le altre tlc. E la verifica dell’età dell’utente, con ricorso a sistemi di controllo biometrici applicati ai ragazzi ma anche necessariamente ai titolari maggiorenni di abbonamento di connessione, è uno screening di massa di dati personali che non solo negli Stati Uniti è stato considerato incostituzionale, ma che nella nostra Europa e in Italia fa a pugni con quanto stabilito in materia di privacy dei dati sia dalla direttiva Gdpr europea, sia dal cosiddetto Codice Privacy italiano che ne è l’attuazione. Gli screening di massa dei dati personali non sono pericolosi solo in Cina, sono inaccettabili in primis da noi europei. Quanto infine ai social network, intesi come servizi di comunicazione a fini commerciali fondati sulla condivisione dei contenuti e sull’interazione pubblica degli utenti, il bando di stato inizia sempre con finalità etiche e diventa poi invariabilmente una censura politica sui contenuti. Indigeribile, per quanto mi riguarda. Sono genitore di due ragazzi che utilizzano massicciamente la rete, e da YouTube finiscono a volte su contenuti per me molto discutibili, visto che la sessualizzazione comincia da come si presentano in video le ragazzine mini influencer, e che le violenze psicologiche e fisiche a volte sono il canovaccio di molte “challenge” a cui i miei figli hanno accesso senza violare i filtri antiporno e anti Deep Internet posti dal genitore. Ma di ogni contenuto improprio, della vigilanza, della verifica e del dialogo incessante coi mei figli su tutto questo, sono e voglio essere titolare solo io come genitore. Rifiuto categoricamente che sia lo stato a decidere.
Oscar Giannino
giornalista
No, l’educazione esercitata con divieti e imposizioni non funziona
La legge australiana esprime l’intenzione di vietare ai ragazzi fino a 16 anni di connettersi con i social media, un’intenzione che richiede norme attuative assai difficili da identificare. Obbliga gli amministratori dei social di trovare un sistema per verificare l’età di chi intende aprire un proprio account, ma la legge sulla privacy impedisce di chiedere documenti di identità, il che rende necessario trovare altri sistemi di controllo per ora ignoti. Inoltre, una volta che sia stato trovato un metodo, è probabile che vengano trovate forme per eluderlo, come capita già per tante limitazioni informatiche abbastanza facilmente violate. Si potrà dare un giudizio sull’efficacia della noma solo quando si capirà in che modo può essere attuata. Per ora si può ragionare sull’intenzione, tenendo conto del fatto che, come dice la saggezza popolare, di buone intenzioni è lastricato l’inferno. Attribuire ai social il fascino del proibito può avere una conseguenza contraria e rendere la norma controproducente. I giovani, almeno molti giovani, la leggeranno come un’imposizione dei “vecchi” che non tollerano la loro aspirazione alla libertà, non senza qualche ragione. E’ vero che i social possono nascondere insidie, che dovrebbero essere contrastate in quanto tali, e che non riguardano solo i giovani. Però negare l’accesso a un sistema informativo perché può presentare dei rischi, oltre che difficile tecnicamente, è espressione di un atteggiamento panpenalista, assai discutibile. Per proteggere gli anziani dalla truffe telefoniche sarebbe ragionevole vietare loro l’uso del telefono? E’ lecito sospettare che la radice dell’iniziativa dei parlamentari australiani non sia solo quella di proteggere i giovani dai pericoli, ma di volerli “educare” a una vita in cui sia esclusa la comunicazione informatica, che spesso diventa una specie di dipendenza. L’intento educativo è ragionevole, ma l’educazione esercitata con divieti e imposizioni non funziona quasi mai, sembra più semplice di una complessa opera di persuasione personale, ma alla fine spesso risulta inefficace se non addirittura controproducente.
Sergio Soave
giornalista
Un’idea non male. Prima però vietare le chat scolastiche dei genitori
Per un riflesso condizionato antiproibizionista, avrei detto d’istinto che non ha senso proibire l’uso dei social ai minori di sedici anni. Che sarebbe comunque una legge difficilmente applicabile, che tanto poi i ragazzi si fanno i gruppi su whatsapp etc. Ma ripensandoci, almeno in linea di principio, forse tanto sbagliato non è. Intanto perché gli adolescenti, privati ad esempio di tik tok, imparerebbero che non tutto si consuma in due secondi, strisciando un dito sullo schermo dello smartphone, e che le cose migliori richiedono invece tempo e attenzione. E poi perché, proibiti ai minori, i social guadagnerebbero forse la stessa aura che per noi aveva il motorino, quella cioè di un rito di passaggio atteso con impazienza. In questo modo, il tempo, che è ormai la categoria più debole, potrebbe tornare a essere una chiave del senso: i ragazzi imparerebbero a metterne un po’ fra il desiderio a la sua realizzazione, fra l’io e l’altro. Ripensandoci, insomma, confesso che non mi dispiace una legge che contrasti quella immediata disponibilità di tutto che ci ha privato del desiderio. Come tutte le cose attese, anche i social imporrebbero così, a chi finalmente può farne uso, il confronto fra l’aspettativa e la realtà. Come un sabato del villaggio globale, diciamo, dove l’“altro dirti non vo” della festa dei sedici anni, sarebbe quello che ben conosciamo tutti: la sana delusione nello scoprire che il villaggio globale è pieno di imbecilli. Di vongola_74 che pontificano sui massimi sistemi, delle duck-face di quelle che se la credono, di foto di libri appoggiati sulle gambe nude in riva alla spiaggia, della mitomania delle bio su X, e insomma di tutto il narcisismo ridicolo in cui pure siamo invischiati fino al collo. Farne a meno fino a sedici anni, se fosse possibile, sarebbe allora un modo indiretto ma efficace di insegnare agli adolescenti quanto siamo diventati patetici noi adulti. Ma qualora non fosse possibile proibire i social ai garzoncelli e alle garzoncelle, sottoscrivo da subito una petizione per proibire, sotto pena di morte, almeno le chat scolastiche dei genitori. Quelle sì, il male assoluto.
Simone Lenzi
scrittore
Educazione digitale batti un colpo? E per i quarantenni non facciamo nulla?
Sondaggi chiari: una legge, quella australiana, cuoricinata da quasi l’80 per cento dei genitori di quel paese. Ovvio, se trovi qualcuno che fa la faticaccia al posto tuo, perché impedirglielo? Sempre l’80 per cento dichiara di “sentirsi sopraffatto” dall’uso degli smartphone dei figli, e chissà chi diavolo glieli avrà messi in mano – spesso, a guardar le statistiche, a partire dagli 8 anni. Educazione digitale batti un colpo? Non lo batterà: c’è uno studio dell’Università Cattolica dagli esiti avvilenti per il genitore medio italiano, il quale, del resto, per rispondere a una domanda sul senso del proprio ruolo dovrà prima aver finito di scrollare Instagram e di mandare messaggi privati a una coetanea del figlio minore che si discinge su X, e solo allora sarà pronto a farcela ripetere per la terza volta mentre reindossa l’uniforme dei Preoccupati & Responsabili. Il dilemma ha due corni: le entrate pubblicitarie stratosferiche di Google, Apple, Meta, Amazon, Microsoft, in gran parte derivanti da una platea di user minorenne, e la stabilità mentale della suddetta platea, minata da queste praterie selvagge. La prima preoccupazione, su privacy e guadagni, è ragionevole. Per la seconda, la cosa migliore sarebbe una mannaia staliniana e feroce sull’uso degli smartphone, ma per i quaranta-cinquantenni, la fascia d’età dei più pericolosi analfabeti digitali in circolazione, drogati che ciondolano sui marciapiedi picchiettando sullo schermo, registrando vocali che poi riascoltano e che non pensano mai e poi mai a scollarsi di mano l’aggeggio – gente che filma in salaparto per un reel su IG, a proposito di genitori che partono bene. Sarà atroce e istruttivo, per bambini e adolescenti, vedere i propri genitori ridotti a larve supplici, mentre strisciano, sbavano e chiedono loro lo smartphone in prestito un momento, dietro garanzia di omertà, per poter fingere di scrivere ancora un post o per far galoppare pollice e indice come ai bei tempi, quando erano preoccupati e felici.
Marco Archetti
scrittore
È davvero possibile, con i social, immaginare soluzioni che non siano solo quelle legali?
Sappiamo che, con il voto definitivo del Senato, l’Australia avrebbe vietato l’utilizzo dei principali social media per i minori di 16 anni. Non sappiamo però come avverrà la verifica dell’età degli utenti e tutti i dettagli tecnici dell’applicazione della normativa che sono rimandati a passaggi successivi. È prevista infatti una prima fase di sperimentazione prima della definitiva entrata in vigore della legge fra 12 mesi. Si tratta di un’iniziativa legislativa portata avanti con grande velocità che ha sollevato numerose critiche da parte di differenti esperti e portatori d’interessi. Alcuni hanno sottolineato l’assenza di evidenze scientifiche solide alla base dell’iniziativa australiana e, allo stesso tempo, come iniziative simili in altri Paesi siano poi naufragate e siano state bypassate mediante l’utilizzazione di tecnologia che consente di aggirare gli eventuali divieti. Come ormai sempre più spesso accade, il sistema politico ha usato l’unico strumento a sua disposizione in funzione simbolica per segnalare, in un anno elettorale, che “si stava facendo qualcosa”. Questo è poi particolarmente vero quando i sondaggi segnalano un’approvazione dell’iniziativa superiore al 70 per cento nell’elettorato australiano. Spesso l’approvazione di leggi manifesto è utile a mandare segnali all’elettorato ma, difficilmente, tale comunicazione arriva a proporre soluzioni tecniche efficienti. Il dibattito globale sulle limitazioni all’accesso dei social media, che sarà rinvigorito dall’iniziativa australiana, sembra essere l’ennesimo capitolo della saga relativa alla competizione fra la curva dell’innovazione tecnologica e quella della regolazione. In questa competizione la prima curva galoppa in maniera esponenziale mentre la seconda arranca. I politici però non possono che cavalcare la seconda utilizzando gli unici strumenti a loro disposizione, primo fra tutti quello della legge. Pensare che problemi complessi possano risolversi mediante una legge è del resto tipico di un approccio semplicistico a problemi complessi. Dovremmo forse cominciare ad interrogarci su quanto le tecnologie digitali stiano mutando la nostra stessa natura di essere umani per provare ad immaginare soluzioni che non siano solo quelle legali.
Pasquale Annicchino
docente di diritto e religione, etica e regolazione dell’intelligenza artificiale e dati religiosi e privacy
Spegnere i social media è possibile, modificare la nuova cultura di massa no
Al museo D’Orsay è presente una statua intitolata “La Nature se dévoilant à la Science”. A quanti volessero, prima di giudicare, comprendere il significato del divieto di accesso ai social media per i minori di sedici anni stabilito dal governo australiano, suggerisco di volare mentalmente nel famoso museo parigino. In tal modo scorgerebbero nell’opera una fanciulla che scopre il volto coperto da un velo, il simbolo di un poderoso potenziamento che il vedere ha subito durante la modernità. Osservare, almeno da Bacone in poi, è un’attività indispensabile ai processi del conoscere e a quelli dell’esperienza. Precedentemente le immagini potevano essere segnate dal principio del segreto. Sovente nelle chiese statue e dipinti rimanevano per gran parte dell’anno nascoste all’occhio dei fedeli. Lo testimonia persino Leonardo da Vinci che, si narra, una volta annotò il seguente ammonimento posto su un’opera velata: “Non iscoprire se libertà t’è cara ché ‘l volto mio è charciere d’amore”. Almeno dal dagherrotipo in poi, i media si sono evoluti contro tale avvertenza, enfatizzando il potere della vista, strappando veli, ponendoci in una situazione di prossimità e di promiscuità con l’immagine dell’altro. I social media, in tal senso, sono solamente l’ultimo capitolo di una storia comune. In questa evoluzione i social media rappresentano, tuttavia, un momento particolarmente significativo, giacché ci obbligano a riconsiderare il significato concettuale di nozioni basilari come quella di immagine. Come ci ha insegnato Walter Benjamin, i media sono apparati capaci di influenzare profondamente i sensi e la percezione umana. Se si vuole vietare l’accesso alle immagini circolanti sui social media è, quindi, necessario prendere in considerazione la possibilità che quanti fino ad oggi le abbiano osservate si siano costruiti una struttura percettiva e mentale fondata su un ordine concettuale fondamentalmente alieno alle dinamiche della cultura di massa. Il demonio, ammesso che di esso si tratti, non va dunque cercato nei contenuti violenti, o pornografici, largamente disponibili in rete, ma nella consapevolezza diffusa che la nozione di immagine, al tempo di TikTok, abbia ridefinito i propri principi. Testimonianza, rappresentazione e seduzione, dominanti fino al cinema, sono stati sostituiti da quelli insiti nelle forme di relazione, permanenti, ubique e temporalmente espanse, modellate dai social media. Il governo australiano può, dunque, “spegnere” i social media, difficilmente, però, potrà modificare delle mentalità che da tempo si sono fatte cultura.
Federico Tarquini
professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi
L’importanza reale di una difesa e di un’azione collettiva
Tempi digitali: sono quelli in cui viviamo tutte e tutti noi. Tempi in cui ciascuno si confronta con ritmi e linguaggi diversi e con un nuovo modo di realizzare la propria dimensione di vita, tanto per gli adulti, quanto – e ancor più - per bambine, bambini e adolescenti. Oggi in Italia il 45,4% dei minori tra 6 e 10 anni utilizza quotidianamente internet, una percentuale che sale all’82,4% per la fascia 11-14 e al 91,6% per le ragazze e i ragazzi tra 15 e 17 anni. Dati che evidenziano le nuove responsabilità che famiglie, istituzioni e società civile devono mettere in campo per creare ambienti sicuri e accessibili in cui gli adolescenti possano crescere e sviluppare le proprie potenzialità, diventando cittadini consapevoli. Save the Children è attiva da molti anni in Italia per l’educazione digitale, per la prevenzione dai rischi online e la protezione da ogni forma di violazione dei diritti di bambini, bambine e adolescenti negli ambienti digitali. La nostra esperienza ci ha mostrato l’importanza di un’azione collettiva, che intervenga su diversi fronti. Innanzitutto occorre investire sulle competenze digitali di ragazze e ragazzi: non parliamo solo di abilità tecniche, ma di un impegno educativo che favorisca lo sviluppo di capacità critiche necessarie a fruire della rete in modo creativo e sicuro, utilizzando al meglio gli strumenti che offre – ad esempio per l’informazione e l’educazione – e al contempo cautelandosi e sapendo fronteggiare i rischi. A questo impegno deve affiancarsi la sensibilizzazione a un uso consapevole di internet da parte delle famiglie e di tutti gli adulti di riferimento. Infine i gestori privati delle piattaforme digitali devono assumersi la responsabilità di assicurare ambienti adeguati all’età di chi li utilizza e applicare le norme di tutela già previste per i minori online. Innalzare i limiti di età per l’accesso alle piattaforme, tra cui i social media, rischia di essere inefficace a prevenire i rischi connessi alla rete, soprattutto in mancanza di sistemi di ageverification che consentano l’accesso soltanto nelle fasce di età consentite. Inoltre, l’innalzamento dell’età potrebbe rivelarsi controproducente, andando a rallentare l’acquisizione delle necessarie competenze digitali e relazionali di ragazzi e ragazze, considerando quanto le loro esperienze di crescita siano ormai strettamente integrate con gli ambienti digitali. Per i giovanissimi, analogico e digitale si fondono in quella dimensione unica dell’onlife senza considerare la quale difficilmente è possibile comprendere l’esperienza dell’infanzia e dell’adolescenza dei nostri tempi, tano meno sostenerla. Solo sulla base di questa consapevolezza e di una vera alleanza tra famiglie, scuola, istituzioni, e gli stessi ragazzi e ragazze si potrà costruire un ecosistema digitale sicuro e accessibile, promuovendo una reale cittadinanza digitale.
Daniela Fatarella
direttrice generale Save the Children Italia
Altri divieti da introdurre: ai genitori che mettono in mano ai bambini il telefonino al ristorante
Vietare o non vietare i social network ai minori di 16 anni? Il tema è stato sollevato più volte ma l’Australia ha già agito, approvando l’Online Safety Amendment (Social Media Minimum Age) Bill 2024. La norma intende bloccare l’accesso dei minori di sedici anni ai social network; i gestori di piattaforme come Instagram, Facebook, Tik Tok o Snapchat avranno un anno per introdurre ragionevoli controlli al fine di impedire ai minori di 16 anni di avere un account. Ora, come si possano attuare tali “ragionevoli controlli” è tutto da scoprire, così come se i dibattiti sorti in altri paesi, tra cui l’Italia, daranno luogo ad analoghe norme. Quello che so – appartenendo alla categoria degli adulti e dei genitori – è che siamo la prima generazione a crescere figli immersi nei social network e forse un giorno saremo l’ultima generazione a ricordare un mondo senza i social (e senza smartphone). I pregi di questo mondo iperconnesso e artificiosamente sociale li conosciamo; i difetti pure, e non li enumero. Dal punto di vista di un genitore consapevole del suo ruolo, però, l’aspetto più dannoso è che è andata persa ogni forma di mediazione ed interpretazione della realtà da parte degli adulti: è sufficiente uno smartphone, un paio di social e c’è tutto un mondo dei tuoi figli che ti sfugge. Ben venga – dunque – il divieto per i paesi che lo adotteranno, almeno lì i genitori avranno qualcosa di superiore cui appellarsi per imporre un divieto: in fondo ad un dodicenne non faremmo guidare un’automobile (e il dodicenne, non essendo consentito, neanche te lo chiede…). Insomma, che sollievo una società che ti aiuta ad educare, che sta dalla parte di chi auspica che un bambino o un preadolescente possa crescere senza quella continua parata dell’ego, quel costante specchio deformante, quel vivere le proprie esperienze solo in funzione di come si pensa le vedranno gli altri. Se il sistema funziona – e ci vorrà un po’ di tempo – sarà interessante per i sociologi del futuro comparare le generazioni che hanno avuto precocemente i social network e quelle che li avranno un po’ più in là. Ed infine, propongo un divieto anche per i genitori che mettono in mano ai bambini di due anni il telefonino per intrattenerli al ristorante. Trattare anche il telefonino come un sigaro toscano, insomma. E qui mi fermo, altrimenti passo per luddista…
Elisabetta Cassese
fondatrice di educazioneglobale.com
Educare è doveroso. Informare è necessario. Vietare è inutile
Non uso X né Tik Tok. Non ho un account Facebook o Instagram o chissà cos’altro. Uso WhatsApp quasi solo per le comunicazioni “da punto a punto”. E tutto questo non perché pensi di difendere chissà quali valori ma semplicemente perché già così l’assedio quotidiano del mio cellulare mi sembra difficile da sostenere. Detto questo, non oserei nemmeno per un attimo immaginare che si debba vietare l’accesso a questo o a quel social ad una ragazza o ad un ragazzo meno che sedicenne. Mi sembrerebbe – per essere chiari – una colossale opera di deresponsabilizzazione dei mondi che costituiscono una bella fetta della vita di un adolescente: la famiglia e la scuola. Due mondi che saluterebbero con entusiasmo la possibilità di potersi nascondere dietro la lettera della legge e di non dover affrontare la fatica quotidiana rappresentata dall’educare. Sia chiaro, non parliamo qui del divieto di utilizzo del cellulare nelle aule scolastiche o, per fare, un secondo esempio del “a tavola, per favore, senza cellulare”. In questi casi, infatti, si richiede la presenza (non solo in senso fisico) e il divieto è quindi del tutto ovvio. Parliamo, come già detto, del divieto di accesso ai social di persone al di sotto di una certa età. Tutto ciò premesso, forse alcune cose si possono e si devono fare. Supponiamo che esista una associazione scientificamente provata fra uso significativo dei social e patologie fisiche e/o psicologiche di qualche entità. Se così fosse allora potremmo imparare da altri casi e, in particolare, dai casi in cui abbiamo messo in campo forme di pubblicità negativa. Il nostro cellulare ci somministra a tutte le ore notifiche del tipo più vario per i motivi più banali. Potremmo chiedere che lo stesso accada nel momento in cui si accede a un qualunque social network e che l’utente venga informato delle conseguenze delle sue azioni (e che, ovviamente, la notifica non possa essere disattivata). E questo, sottolineo, quale che sia l’età dell’utente. Educare è doveroso. Informare è necessario. Vietare è, spesso e volentieri, inutile e risponde più agli interessi di chi vieta che a quelli di chi è colpito dal divieto.
Nicola Rossi
economista