Vietare i social ai ragazzi? No, l'educazione esercitata con divieti e imposizioni non funziona

Sergio Soave

L’intento educativo è ragionevole, ma l’educazione esercitata con divieti e imposizioni, benché sembri più semplice di una complessa opera di persuasione personale, alla fine spesso risulta inefficace se non addirittura controproducente

La legge australiana esprime l’intenzione di vietare ai ragazzi fino a 16 anni di connettersi con i social media, un’intenzione che richiede norme attuative assai difficili da identificare. Obbliga gli amministratori dei social di trovare un sistema per verificare l’età di chi intende aprire un proprio account, ma la legge sulla privacy impedisce di chiedere documenti di identità, il che rende necessario trovare altri sistemi di controllo per ora ignoti. Inoltre, una volta che sia stato trovato un metodo, è probabile che vengano trovate forme per eluderlo, come capita già per tante limitazioni informatiche abbastanza facilmente violate. Si potrà dare un giudizio sull’efficacia della noma solo quando si capirà in che modo può essere attuata. Per ora si può ragionare sull’intenzione, tenendo conto del fatto che, come dice la saggezza popolare, di buone intenzioni è lastricato l’inferno. Attribuire ai social il fascino del proibito può avere una conseguenza contraria e rendere la norma controproducente. I giovani, almeno molti giovani, la leggeranno come un’imposizione dei “vecchi” che non tollerano la loro aspirazione alla libertà, non senza qualche ragione. E’ vero che i social possono nascondere insidie, che dovrebbero essere contrastate in quanto tali, e che non riguardano solo i giovani. Però negare l’accesso a un sistema informativo perché può presentare dei rischi, oltre che difficile tecnicamente, è espressione di un atteggiamento panpenalista, assai discutibile. Per proteggere gli anziani dalla truffe telefoniche sarebbe ragionevole vietare loro l’uso del telefono? E’ lecito sospettare che la radice dell’iniziativa dei parlamentari australiani non sia solo quella di proteggere i giovani dai pericoli, ma di volerli “educare” a una vita in cui sia esclusa la comunicazione informatica, che spesso diventa una specie di dipendenza. L’intento educativo è ragionevole, ma l’educazione esercitata con divieti e imposizioni non funziona quasi mai, sembra più semplice di una complessa opera di persuasione personale, ma alla fine spesso risulta inefficace se non addirittura controproducente.