Da Churchill a Bill Clinton. Guerra e pace di Pamela Harriman, la cortigiana più influente del Novecento
Una coda di amanti e tre matrimoni. Fu Churchill e Harriman, inglese e americana, e cementò l’amicizia fra i due paesi. Il suo potere fu quello della seduzione. Una nuova biografia le rende giustizia
Quando nel 1993 il presidente Bill Clinton nominò Pamela Harriman ambasciatrice americana in Francia, il senatore repubblicano della Carolina del sud, Strom Thurmond, non ebbe alcun ritegno: “Stiamo mandando la puttana di Babilonia a Parigi”, dichiarò l’uomo più volte accusato di abusi sessuali e padre di un’adolescente afroamericana avuta da una domestica di famiglia, che non volle mai riconoscere. Nella sua somma volgarità, il vecchio segregazionista riassumeva il pregiudizio sessista che da sempre aveva accompagnato una donna la cui reputazione era quella di “un’avventuriera ridicola e intrigante ossessionata dal denaro, dal potere e dal sesso”.
Eppure, quattro anni dopo, quando Harriman, ancora in carica, morì a 76 anni stroncata da un ictus mentre nuotava nella piscina dell’Hotel Ritz, il presidente francese Jacques Chirac si recò personalmente all’ambasciata per apporre la Gran Croce della Légion d’honneur sulla sua bara fasciata nella bandiera americana, paragonandola a Benjamin Franklin. E Bill Clinton inviò l’Air Force One per riportarla a Washington, dove tenne l’orazione funebre salutandola come “patriota e servitrice dello stato”.
Se potessimo arbitrariamente ridurre a una sola persona il Novecento, la sua storia spezzata da quelle che Paul Klee definì “harte Wendungen”, le svolte brusche, questa sarebbe sicuramente Pamela Harriman. Non c’è infatti praticamente nessuno nella politica, nella cultura e nella moda del XX secolo la cui vita non abbia incrociato quella di Pamela. Che conobbe tutti e parlò con tutti: da Hitler a Churchill, del quale sposò il figlio, da Roosevelt a Truman, da Kennedy a de Gaulle, da Breznev a Gorbaciov, da Nelson Mandela a François Mitterrand. Come disse di lei l’ex segretario di stato Madeleine Albright, “Pamela non è certo rimasta a guardare il secolo breve”. Sfruttando la sua bellezza magnetica e la sua ineguagliata capacità di incantare ogni interlocutore, Harriman aiutò Churchill, il suocero che l’adorava, a cementare l’alleanza con gli Stati Uniti nell’ora più buia della Seconda guerra mondiale. Favorì la fine della Guerra fredda convincendo l’establishment di Washington a dar credito a Gorbaciov e alla sua perestrojka. Rilanciò il Partito democratico americano dopo la traversata del deserto dell’èra reaganiana individuando ante litteram il talento di un oscuro governatore dell’Arkansas, Bill Clinton appunto. E non ultimo, fu figura discreta ma decisiva nella trattativa che portò alla firma degli accordi di Dayton, che nel 1995 posero fine alla guerra in Bosnia Erzegovina pacificando l’ex Jugoslavia.
Certo, molto più conosciuti sono il glamour della sua vita sociale e le avventure erotiche, che videro una lunga serie di uomini celebri e potenti cadere ai suoi piedi: il miliardario e diplomatico William Averell Harriman, l’uomo che finì per sposare, e il presidente John Kennedy; e poi Gianni Agnelli, Aly Khan, Élie de Rothschild, Frank Sinatra, Ernest Hemingway, il giornalista Edward Murrow e molti altri. Storie che hanno finito per mettere in ombra la sua vera legacy: il ruolo avuto nel plasmare da dietro le quinte molti dei momenti fatali che hanno scandito la tragica storia del secolo scorso.
Eppure, di tutto questo non c’era quasi traccia nelle due biografie a lei dedicate, pubblicate alla fine degli anni Novanta, entrambe molto attente, grazie in primo luogo a fonti anonime, soprattutto ad alimentare il mito di “Shamela” – da shame, vergogna – la cacciatrice di dote senza scrupoli, l’arrampicatrice sociale che aveva “slept her way up to the top”, era arrivata in cima passando da un letto all’altro. Tocca ora alla studiosa e giornalista inglese Sonia Purnell il merito di ristabilire la verità storica, con un libro magnificamente scritto e solidamente fondato su una meticolosa ricerca, nuove fonti e testimonianze personali. In Kingmaker. Pamela Churchill Harriman’s astonishing life of seduction, intrigue and power, uscito di recente per i tipi di Virago, Purnell non idealizza la figura di Harriman, di cui riconosce limiti e difetti: calcolatrice, determinata, furba, ambiziosissima, superficiale e non particolarmente introspettiva nell’osservazione degli altri. Né lesina dettagli piccanti sulle sue numerose relazioni sentimentali, “una stupefacente collezione di amanti”, e la sua leggendaria maestria dell’ars amandi. Ma le restituisce il rispetto e il riconoscimento dovuti a una donna, nata all’alba del Novecento in un mondo di maschi, da una famiglia che le aveva negato un’educazione formale immaginando per lei solo un futuro da madre, che volle vivere la vita nei suoi termini, cambiando perfino nome e nazionalità, lavorando senza sosta per lasciare un segno indelebile del suo passaggio nel mondo e soprattutto per non essere più identificata soltanto con gli uomini che si era portata a letto. Un “feminist reclamation project”, come l’accusa di fare il New Yorker? No. “Era il momento di dire le cose come stanno realmente”, rivendica con orgoglio l’autrice. Il che ovviamente non contraddice il fatto che Kingmaker è anche uno studio sul potere della seduzione femminile e su quello tout court.
Non aveva neppure vent’anni nel 1939, Pamela Digby, primogenita di Edward Kenelm Digby, undicesimo barone dell’omonima casa, capitano delle guardie a piedi di Sua Maestà, e della commoner Constance Bruce, quando andò in sposa a Randolph Churchill, il solo figlio del futuro primo ministro, il quale non pretese neppure di esserne innamorato. Aveva chiesto la mano di altre nove donne prima di farlo con lei, ricevendone soltanto rifiuti. Pamela, ipse dixit, sembrava in buona salute per portare in grembo il suo erede. Randolph si rivelò subito un disastro di marito: coltissimo, ma sciupafemmine, alcolizzato, ludopatico, perennemente in bolletta, abusivo nei confronti della giovane moglie che trattava come una non persona. In compenso, Pamela entrò subito nelle grazie del suocero, nel frattempo nominato capo del governo, e della moglie Clementine, che allo scoppio della guerra, quando Londra iniziò a essere bombardata dai nazisti, le offrirono perfino di trasferirsi a Downing Street, dove condivideva un letto a castello nel rifugio del premier, che dormiva proprio sopra di lei. Già incinta, Pamela scherzava dicendo che aveva “un Churchill sopra e uno dentro di me”. Nel frattempo Randolph, dopo averla tradita con qualunque donna gli capitasse a tiro, era partito entusiasta al fronte, distaccato in Egitto, lasciando la moglie piena di debiti e perseguitata dai creditori.
La vicinanza ai coniugi Churchill e l’amicizia con Lord Beaverbrook, un magnate della stampa che era stato nominato ministro per la produzione aeronautica al quale Pamela aveva chiesto aiuto per evitare la bancarotta, produssero la vera svolta nella sua vita. Il premier e il suo ministro le proposero infatti di lavorare per la patria in pericolo usando le armi a sua disposizione: il suo sex appeal e la sua impressionante capacità di memorizzare anche i dettagli di conversazioni su complessi temi politici e strategici. E’ il vero scoop del libro. Da un giorno all’altro Pamela si trasformò in una Mata Hari di tipo molto speciale. Affidato il piccolo Winston, neppure un anno di vita, alle cure di una nanny e messi entrambi al sicuro nella tenuta di campagna di Beaverbrook, Pamela si trasferì nel lussuoso Dorchester Hotel, in una suite condivisa con Clarissa, una nipote di Churchill, e con un guardaroba completamente nuovo acquistato personalmente dal ministro, che pagava per tutto. Da quel momento i suoi giorni vennero scanditi da inviti a cocktail, cene e feste da ballo. Ma non si trattava di spiare i nemici, quanto di convincere gli amici, un’azione di moral e spesso anche physical suasion nella quale si sarebbe rivelata efficacissima e impareggiabile.
Il primo successo di Pamela fu persuadere Harry Hopkins, il leggendario capo del New Deal, isolazionista irremovibile, inviato dal presidente Roosevelt in Gran Bretagna, che Londra andava sostenuta nell’impari lotta contro Hitler. Notorio scorbutico, Hopkins si sciolse davanti al fascino di Pamela: tornò a Washington perorando la causa di Churchill e convincendo il capo della Casa Bianca a lanciare il celebre Lend-Lease, il programma americano di aiuti militari ed economici che avrebbe fornito al Regno Unito 42 miliardi di dollari (900 miliardi al valore attuale) in armi, cibo e medicine, assicurandone la sopravvivenza di fronte all’aggressione hitleriana. Ma l’incontro del destino sarebbe avvenuto nel marzo 1941, quando Roosevelt mandò a Londra il tycoon Averell Harriman come suo rappresentante speciale con l’incarico di gestire il programma. Toccava a Pamela far sì che tutto procedesse senza problemi e l’inviato americano autorizzasse regolarmente le forniture. In realtà fece molto di più.
Nessuno si sorprese quando, a una cena al Dorchester in onore di Adele Astaire, la sorella del grande Fred, Pamela, in abito scollato di lamé color oro, si ritrovò seduta proprio accanto all’affascinante Harriman. Era stato naturalmente Beaverbrook a organizzare il placement. Bastarono pochi minuti e il miliardario americano ebbe occhi soltanto per lei. Parlarono e flirtarono senza sosta, interruppero la cena più volte per ballare. Ma al dessert, un’ora dopo il tramonto, le sirene iniziarono a suonare e tutti si alzarono per raggiungere il rifugio dell’hotel considerato il più sicuro di Londra. Tutti tranne loro due, che invece si diressero al piano di sotto, nella suite di lui. “Così parliamo meglio”, le aveva detto. E mentre le bombe naziste facevano tremare l’edificio, Pamela era nelle braccia dell’uomo che avrebbe segnato per sempre la sua vita. “Mai fatto sesso più eccitante – avrebbe commentato Harriman – non c’è nulla di meglio di un bombardamento per far funzionare qualcosa”. Non si lasciarono più. E da qual momento, Pamela iniziò a informare Beaverbrook e lo stesso Churchill di tutte le conversazioni che ascoltava, comprese quelle con Roosevelt. Per i dirigenti inglesi era essenziale conoscere in anticipo le intenzioni degli alleati americani. Soprattutto, il pillow talk di Pamela era decisivo perché Harriman si appassionasse ai bisogni della Gran Bretagna e aggiustasse il programma per soddisfarli, come quando ottenne dal presidente l’autorizzazione a far riparare le navi della Royal Navy nei porti americani quando quelli inglesi erano danneggiati o fuori uso. Lo fece così bene, che i suoi amici durante una breve visita a Washington gli rimproverarono di essere “troppo filo-britannico”.
La mattina di domenica 7 dicembre 1941, quando la Bbc interruppe i programmi per annunciare l’attacco giapponese a Pearl Harbour, Pamela e Harriman erano entrambi a Chequers, residenza di campagna del primo ministro, dove Churchill li aveva invitati per il fine settimana. La notizia li raggiunse durante il breakfast: Churchill in vestaglia iniziò a danzare, mentre Harriman si avvicinò al caminetto, preoccupato ma sollevato. L’inevitabile era accaduto, ora gli Stati Uniti erano in guerra. Ma alla lunga, la relazione, di cui tutti, compreso il suocero di Pamela, erano perfettamente a conoscenza, iniziò a causare imbarazzo e preoccupazione a Washington. Così, nel 1943 Roosevelt comunicò ad Averell Harriman che lo aveva nominato ambasciatore in Unione sovietica, a oltre 2.500 chilometri da Londra, lontano dalla sua amata.
Certo nessuno, né Pamela né Harriman, a quel tempo felicemente sposato, avrebbe mai immaginato che quasi trent’anni dopo, nel 1971, sarebbero diventati marito e moglie. Ma come rivela Purnell nel libro, neppure allora, ormai cittadina americana, lei gli avrebbe rivelato il vero ruolo da 007 che aveva svolto nei due anni in cui erano stati amanti sotto le bombe. Per sua volontà, la storia è venuta alla luce solo dopo la morte di Pamela. “La strategica vita sessuale di Pamela – scrive Purnell – viene ora riconosciuta come politicamente significativa anche dagli studiosi, che la considerano maestra nella tessitura di una solida rete di legami politici, militari ed emotivi tra America e Regno Unito, che oggi tutti chiamano special relationship. In questo senso, è probabilmente stata la cortigiana più influente della Storia”.
Chiuso nel 1945 con un divorzio pieno di rancore e recriminazioni il matrimonio con Randolph Churchill, Pamela rimase tuttavia sempre in ottimi rapporti con il grande statista e Clementine. La seconda parte della sua vita non fu così significativa per la storia del mondo, ma in compenso fu piena di glamour e di avventure. E le occorsero molti anni prima di poter tornare alle sue vere passioni: la politica, il potere, la grande diplomazia.
Alla fine degli anni Quaranta si era trasferita a Parigi, la città dove sarebbe iniziata la sua lunga storia d’amore con Gianni Agnelli, l’uomo che avrebbe voluto sposare se non fosse stato, così sostiene Purnell, per l’opposizione delle sorelle dell’Avvocato, che consideravano imbarazzante avere come cognata una divorziata di dubbia reputazione. Pamela si convertì perfino al cattolicesimo nella speranza di portarlo all’altare. Fu lei ad accorrere in ospedale a Nizza subito dopo il drammatico incidente d’auto dell’estate del 1952 dopo una notte di bagordi a Villa Leopolda a Cap Ferrat, dove fra l’altro Pamela, giunta a sorpresa, lo aveva colto in flagrante con la figlia ventunenne di un aristocratico loro amico. Fu lei a fermare i chirurghi, che avevano già preparato tutto per amputargli la gamba: “Sapendo che lui non l’avrebbe mai perdonata, lei spifferò che aveva preso cocaina, ne aveva viste le tracce sul suo comodino, convincendo i medici che un’anestesia generale poteva essere pericolosa”. Gianni Agnelli avrebbe invece sposato la principessa Marella Caracciolo, ma secondo l’autrice lui e Pamela rimasero per sempre amici e amanti. Purnell scrive che l’Avvocato le telefonò ogni giorno alle 7 del mattino per il resto della sua vita.
Prima del tycoon della Fiat, appena arrivata nella capitale francese, Pamela aveva avuto un torrido affaire con Aly Khan, il figlio dell’Aga Khan, conosciuto a un ballo estivo al Bois de Boulogne. Una storia breve, ma che le fece scoprire una nuova dimensione. Per la prima volta stava con un uomo che a letto poneva al primo posto il piacere della partner: “Aly – scrive Purnell – le insegnò molte tecniche sessuali, compresa quella di tenere un cestello pieno di cubetti di ghiaccio vicino al letto, in modo che durante il sesso orale, potesse mettersene in bocca uno per prolungare il piacere del partner. Un’altra fu l’onda egiziana, che consisteva nel flettere i propri muscoli intimi durante il sesso, con effetti sbalorditivi”.
Furono probabilmente proprio questi effetti a rendere così felice il produttore americano Leland Hayward, stella di Broadway che chiamava Pamela La Bouche, da spingerlo a proporle di sposarlo. Celebrato nel 1960, il matrimonio tra alti e bassi andò avanti fino al 1971, quando Hayward morì per un infarto lasciando Pamela vedova, povera e piena di debiti. Ironia del destino, anche Averell Harriman da un anno era vedovo, dopo la morte di sua moglie Marie. Cinquantuno anni lei, ottanta lui con una onorata carriera politica alle spalle compresa la carica di governatore di New York, si ritrovarono a un party a casa di Kay Graham, proprietaria del Washington Post. Bastò un attimo per riaccendere l’antica fiamma. Si sposarono qualche mese dopo e si trasferirono a Washington dove diventarono la “power couple” per definizione. I problemi economici che l’avevano assillata per anni erano finalmente spariti. Ora poteva spendere il denaro di Averell, non solo per condurre un’esistenza lussuosa ma anche in beneficenza o per rendere la vita più facile al figlio Winston, ormai più che trentenne, quasi per discolparsi dei lunghi anni nei quali lo aveva trascurato. Soprattutto, la casa di Pamela e Averell Harriman a Georgetown, con la celebre collezione d’arte che comprendeva un van Gogh e diversi Picasso, divenne il più ambito salotto di Washington e il centro di gravità della galassia democratica: vertici, cene per raccogliere fondi elettorali che finivano con somme a sei cifre, feste memorabili dove esserci segnava il limite tra chi contava e chi no nella capitale americana.
Ma, racconta Purnell, Pamela Harriman non voleva essere solo una ricca finanziatrice dei democratici. Chiusa la parentesi di Jimmy Carter, un presidente i cui costumi semplici e austeri non erano in sintonia con le sue abitudini mondane e glamour, nella capitale americana era iniziata l’età repubblicana di Ronald Reagan, una rivoluzione conservatrice che avrebbe messo fuori gioco il Partito democratico per ben dodici anni. Pamela seppe guardare lontano, fondò un comitato di azione politica, diventato celebre come il Pam-Pac, che fu il vero laboratorio dell’opposizione. Secondo Purnell, Harriman fu decisiva nel tenere viva col suo ottimismo churchilliano la speranza democratica e nel preparare il futuro. Faceva anche il talent scout, esaminando di persona i potenziali candidati al Congresso o alla Casa Bianca per decidere su chi dovesse indirizzare i finanziamenti. Fra i suoi favoriti, giovani senatori come Frank Church, Joe Biden, John Kerry e Al Gore del quale però notò subito che “non entrava in sintonia con le persone”. Non si entusiasmò a ragione per Michael Dukakis, il governatore del Massachusetts che vinse la nomination nel 1988, ma fu pesantemente sconfitto da George Bush padre. Vide però con grande anticipo le qualità di Bill Clinton, nonostante avesse perso il posto di governatore dell’Arkansas nel 1980: “Vincerà tra dieci anni”, fu la sua previsione poi rivelatasi esatta con soli due anni di ritardo. Lui l’avrebbe ricompensata con l’ambasciata di Parigi.
L’interesse per i rapporti con l’Unione sovietica glielo aveva trasmesso il marito, che anche negli anni più bui della Guerra fredda era stato il vero canale di comunicazione tra Washington e Mosca. Nella capitale americana gli Harriman frequentavano l’ambasciatore sovietico, Anatoly Dobrynin. Il 1983 fu un anno di grande tensione nei rapporti tra le due superpotenze. L’Amministrazione Reagan aveva raccolto la sfida del Cremlino, investendo in un riarmo massiccio, installando gli Euromissili in Europa in risposta agli SS-20 sovietici e lanciando la Strategic Defense Initiative, lo scudo stellare che avrebbe alterato l’equilibrio del terrore e costretto il Cremlino a una debilitante rincorsa. Il presidente americano aveva anche definito l’Urss l’impero del male. Dobrynin e Harriman concordarono che fosse necessario abbassare la temperatura: l’ambasciatore favorì l’organizzazione di un viaggio di Averell a Mosca dove andò con Pamela. Lì con grande sorpresa il segretario generale del Pcus, Yuri Andropov, espresse il desiderio di incontrare non solo lui ma anche lei, la leggendaria nuora di Churchill di cui aveva tanto sentito parlare. Il messaggio cruciale che gli Harriman riportarono a Washington fu che il Cremlino voleva “relazioni normali” con gli Usa ed era interessato a lanciare iniziative per porre fine alla corsa agli armamenti. Al ritorno in America, il primo a voler vedere gli Harriman fu il segretario di stato George Schultz, che chiese un resoconto completo del colloquio. Parlò, scrive Purnell, lei molto più di lui, ormai vecchio e affaticato.
Averell Harriman non avrebbe visto i frutti del suo lavoro sottotraccia. Morì tre anni dopo, celebrato dall’intera nazione. Ronald Reagan disse che “l’America e il mondo hanno perso uno dei loro statisti più rispettati”. Ma quando nel dicembre 1987, Michail Gorbaciov vide Pamela tra la folla degli invitati all’ambasciata sovietica di Washington, si fece largo, le andò incontro e le disse: “Il suo nome è molto conosciuto nel nostro paese e suo marito ha dato un grande contributo alle buone cause di questo secolo”. I Gorbaciov erano nella capitale americana per la firma del Trattato Inf, il primo che eliminava fisicamente un’intera classe di missili nucleari intermedi. Un piccolo ma illuminante incidente diplomatico segnò i quattro giorni della visita: Raissa Gorbaciov aveva declinato con una scusa l’invito della first lady Nancy Reagan per un lunch alla Casa Bianca. La ragione vera lasciò tutti di stucco: aveva chiesto esplicitamente di essere invitata a pranzo a casa di Pamela Harriman, riconoscimento ultimo del suo ruolo nel lungo riavvicinamento che avrebbe portato due anni dopo alla fine della Guerra fredda.
Al lunch presero parte solo donne: le due uniche senatrici, la democratica Barbara Mikulski e la democratica Nancy Kassebaum, l’editrice del Washington Post Katherine Graham, la presidente della Chicago University Hannah Gray e la prima donna giudice della Corte suprema Sandra Day O’Connor. Era anche il suo modo di rimettere il mondo a posto: neppure dieci anni prima, dopo una cena offerta a casa in onore di un potenziale candidato democratico, Pamela aveva chiesto alle mogli dei partecipanti di seguirla al piano di sopra, per lasciare gli uomini a fumare e parlare di politica. Sally Quinn, giornalista e moglie di Ben Bradlee, direttore del Post, anche lui presente, si era rifiutata. Ma Averell aveva detto che quella era casa sua e quella era l’usanza. Sally Quinn se n’era andata sbattendo la porta. Pamela non aveva fiatato. Quel pranzo delle donne con Raissa era il suo riscatto.
Intervistato dall’autrice venticinque anni dopo la morte di Pamela Harriman, Bill Clinton ricorda con affetto e ammirazione l’amica che per prima vide in lui il futuro presidente: “Era calcolatrice? Ditemi chi non lo è in politica. Era ambiziosa? Sì. Ha avuto una vita divertente? Sì. Buon per lei”.