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Stiamo tutti bene. La speranza di vita torna a superare quella del 2019

Roberto Volpi

Povertà e solitudine aumentano, specie fra gli anziani. Vero. Ma ci sono numeri, come quelli della longevità, che raccontano anche altre storie. E gli scenari catastrofici devono confrontarsi con le statistiche

Così stanno le cose. Che nel 2024 i morti in Italia scenderanno a circa 640 mila, 20 mila in meno che nel 2023, e tanti quanti quelli annui del biennio pre-covid 2018-2019. Siccome già nel 2023 la speranza di vita alla nascita aveva pressoché eguagliato quella del 2019, anno pre-pandemico, col 2024 la speranza di vita – dopo aver perso nel 2020 1,1 anni scendendo da 83,2 a 82,1 anni, una roba che quasi non si era osservata neppure nei periodi di guerra – tornerà a superare quella del 2019. Il quadro di mortalità e speranza di vita si è dunque non solo riassestato ma si annuncia in miglioramento rispetto a come l’avevamo lasciato prima della pandemia di Covid. E questo è già un mezzo miracolo, se si considera che nel frattempo la popolazione italiana, complice la persistente caduta del numero annuo delle nascite, è ulteriormente invecchiata. Segno di questo ulteriore invecchiamento un numero di ultracentenari mai così alto: 22 mila e 522 alla fine del 2023, un terzo in più di quanti erano prima del Covid.

Ovviamente, già questi dati si prestano a interpretazioni inequivoche. C’è chiaramente una resistenza organica della popolazione italiana, frutto di tanti fattori tra di loro collegati, e di una storia di successi evolutivo-demografici, che per quanto trascurata dalla narrazione mainstream che vuole l’Italia sempre in prima linea per i rischi che corrono i suoi abitanti, dai bambini agli anziani, lascia tracce di sé in statistiche che si preferisce ignorare. Come il tasso della mortalità infantile, in Italia ormai a livello dei Paesi scandinavi e tra i più bassi al mondo (2,3 morti nel primo anno di vita per mille nati), o appunto la speranza di vita – tornata a superare gli 83 e incamminata a raggiungere presto gli 84 anni di vita, traguardo ch’è di pochissimi Paesi al mondo

 

                

 

Si obietta che però le statistiche attestano anche livelli di povertà in Italia tra i più alti d’Europa, mica solo successi. Save the Children parla apertamente del 30 per cento dei bambini italiani a rischio povertà. La contro obiezione all’obiezione è che questo 30 per cento di bambini a rischio o è un dato non così sicuro (e non lo è) o individua un rischio povertà di mediocre gravità dal momento che in Italia non arriva alla maggiore età un nato ogni 240 nati: una proporzione che, se ci possiamo esprimere così, sembra piuttosto un’assicurazione sulla vita – oltretutto a considerare che il primo è uno degli anni più pericolosi della vita umana. Il fatto è che c’è una differenza tra le statistiche, nel senso che le statistiche non hanno tutte la stessa attendibilità. Quelle che abbiamo appena citato: speranza di vita alla nascita, tasso di mortalità infantile, numero di nati che non arrivano alla maggiore età, tutte queste statistiche non sono semplicemente attendibili, sono sicure. Sono quelle, e non c’è che da prenderne atto. Al posto di Save the Children non riporremmo una fiducia così piena sulle statistiche del rischio povertà, specialmente della povertà assoluta (si può davvero credere che in Italia ci siano 5,7 milioni di poveri assoluti? Ovvero qualcosa come un migliaio di poveri assoluti ogni diecimila abitanti?), che questa e altre organizzazioni con la stessa mission agitano con un po’ troppa disinvoltura. Ma mettiamo pure che il 30 per cento dei bambini italiani sia a rischio di povertà.  Quanti si affidano a queste statistiche hanno il dovere di spiegare, a se stessi e a noi, come si conciliano i due estremi: il massimo della povertà, il minimo della mortalità. Qualcosa, non combacia, si converrà.

Altri elementi non combaciano, nella narrazione che vuole l’Italia sempre un passo o un chilometro indietro rispetto ai primi della classe. Eccone un altro, il più importante, il più apparentemente contraddittorio. Il nostro Paese ha un altissimo numero di persone sole, persone che abitano e vivono da sole, che rappresentano famiglie costituite da un solo componente: sono poco meno di 9 milioni (8 milioni e 850 mila) e rappresentano il 34,4 per cento del totale delle famiglie italiane. Quasi 4,2 milioni di queste persone hanno più di 65 anni; 3,1 milioni sono vedovi/e. Insomma, le persone sole rappresentano indiscutibilmente una realtà problematica dell’Italia, che non ha praticamente rivali al mondo per questo aspetto: improbabile trovare un altro Paese dove quasi 35 famiglie su 100 sono formate da una sola persona. Una realtà problematica in modo particolare per quel che attiene agli oltre quattro milioni di anziani soli. Non c’è da stupirsi se un numero tanto alto di anziani soli, per i quattro quinti donne, in gran parte tali in quanto raggiunti dalla morte del coniuge, rappresenta un doppio problema: sia sotto l’aspetto socio-sanitario e assistenziale che sotto quello più squisitamente demografico. Sotto l’aspetto più squisitamente demografico ci aspetteremmo una formidabile recrudescenza della mortalità proprio nelle età oltre i 65 anni così gravate dalla presenza di persone sole. Ma non è così. Dieci anni fa, nel 2013, le persone sole erano 1,4 milioni meno di quelle che sono oggi e rappresentavano il 30,1 per cento delle famiglie italiane: 4,3 punti in meno del 34,4 per cento che rappresentano oggi. Un peggioramento netto, a leggere esclusivamente in negativo il fenomeno dell’aumento delle persone sole in età avanzate della vita.

Eppure nonostante questo aumento la speranza di vita della popolazione italiana dal 2013 a oggi è a sua volta aumentata di 0,8 anni, mentre è aumentata di 0,5 anni la speranza di vita che ancora ci attende a 65 anni. Non ci fosse stato il Covid avremmo avuto negli ultimi dieci anni 2 anni di speranza di vita in più e 1,2 anni di speranza di vita in più a 65 anni. Ma, sottolineiamolo ancora una volta, pur con la formidabile interruzione dovuta alla super mortalità apportata dal Covid negli anni 2020 e 2021 non solo siamo largamente sopra i valori della speranza di vita di dieci anni fa ma abbiamo riagguantato i valori della speranza di vita pre-covid e col 2024 li supereremo. E questo nonostante una situazione nelle età più avanzate della vita che vede l’aumento inesorabile delle persone sole. Aumento, attenzione però, ch’è a sua volta la testimonianza che a quelle età avanzate arrivano sempre più italiani. Quale, del resto, migliore controprova di questo andamento, di un numero di ultracentenari che si inerpica anno dopo anno fino a vette che soltanto cinquant’anni fa neppure erano immaginabili? Cinquant’anni fa si andavano a ricercare col lanternino gli sparuti centenari in certe plaghe sperdute della Sardegna dove sembravano allignare meglio, chissà poi perché, che da tutte le altre parti d’Italia. Oggi la più alta incidenza di centenari rispetto alla popolazione la troviamo a Trieste e Firenze (ben 8 ogni 10mila abitanti), e nella grande città ben più che altrove. A riprova della normalizzazione di un fenomeno che non è più un fenomeno: i centenari sono sotto casa, mica in chissà quali, anche antropologiche, lontananze. 

E con questo veniamo, dopo quello squisitamente demografico, all’aspetto socio-sanitario e assistenziale delle persone sole a età avanzate. Aspetto che però non può essere letto a sé stante, se vogliamo interpretarlo correttamente, bensì in rapporto a quello demografico. Perché, insomma, se dal punto di vista demografico le conseguenze dell’aumento delle persone sole a età avanzate sono quelle viste, vale a dire un aumento che sarebbe stato in assenza del Covid ben più consistente della vita media degli italiani di tutte le età, comprese proprio quelle più avanzate, allora si deve anche a questo proposito cercare di cambiare – come per i bambini italiani che hanno raggiunto minimi di mortalità infantile che hanno pochi eguali al mondo proprio mentre li si dà alle prese con un rischio di povertà invece tra i più alti del mondo sviluppato – criteri interpretativi, ricorrendo a paradigmi più adeguati per potere esplorare quel mondo di solitudini che ci vengono raccontate come inesorabili killer di esistenze periclitanti tra l’essere e il non essere, il vivere e il lascarsi andare alle derive della vita. 

Qualcosa non combacia, avevamo detto. Più di qualcosa. Parlando di anziani soli non necessariamente si deve affondare fino al collo in un patetismo che, valido magari cinquant’anni fa, non solo non ha più senso oggi, ma si frappone alla comprensione di un fenomeno che nel frattempo ha cambiato pelle. Perché, per quanto possa sembrare paradossale a tutti coloro che non fanno che denunciare quanto la solitudine dei nostri tempi sia così esistenzialmente più fonda, irrimediabile e temibile di quella dei nostri genitori e nonni, mai la solitudine in senso stretto è stata meno solitudine di oggi. Ancora una volta sono le diverse dimensioni quantitative dei fenomeni a falsarne l’immagine che di essi ci si imprime nella retina. Ma, ci si interroghi, quando mai si sono viste moltitudini di anziani soli come oggi? Ovvio che nell’abbondanza del fenomeno ne risaltino gli aspetti più crudi, le necessità più impellenti alle quali non sempre si riesce a tener dietro, i bisogni più difficili da fronteggiare. Il punto è che non abbiamo mai avuto nella storia solitudini così quantitativamente massicce, vere e proprie solitudini di massa. Ragion per cui ecco che la solitudine, anche la singola, individuale solitudine viene letta di conseguenza: più ampia e netta e grave che in passato, più irrimediabile.

Ma il quadro di riferimento degli anziani soli non è oggi neppure paragonabile a quello di cinquant’anni fa. Lo stravolgimento è stato pieno, irreversibile. E proprio per questo stentiamo a coglierlo nella sua completezza. Vediamo di metterli bene in sequenza, allora, gli aspetti di questo autentico stravolgimento. Cominciando dalle residenze assistite e protette, dalla rete dei badanti, dalle organizzazioni del volontariato sociale e assistenziale. La società di oggi è percorsa da una nervatura di servizi non ospedalieri e non medico-sanitari alla persona – sola, anziana, fragile – di questo tipo la cui trama e diffusione non ha riscontro neppure in un passato recente e che non cessa di adeguarsi a un bisogno la cui crescita è stata, e ancora si prefigura, massiccia come per pochi, se non per punti, altri fenomeni sociali. 

Certo, notiamo più le insufficienze che gli aspetti positivi di questa nervatura che non sembra mai essere abbastanza estesa e fitta da sopperire al bisogno: ma se in dieci anni le persone sole aumentano di 1,4 milioni si capisce bene come questa di sopperire al bisogno sia un’impresa che non finisce mai, che non è mai compiuta. Ci sarebbe piuttosto da chiedersi come si riesca a far fronte alle incombenze che un fenomeno in tale ascesa crea di continuo.

Ma è la stessa esistenza quotidiana dell’anziano solo a essere diversa in sé, anche indipendentemente da quella che abbiamo chiamato nervatura di servizi alla persona. Alzi la mano chi non ha mai imprecato contro i benedetti cellulari che sembrano a volte volerti negare la possibilità stessa di renderti irraggiungibile, di isolarti, di stare chiuso in te stesso il tempo che ti necessita per non avere più voglia di stare chiuso in te stesso. Ma pensate a un anziano solo. Non c’è oggi chi non possieda un cellulare e non sappia usarlo quel tanto che basta, con telefonate e messaggi, a raggiungere anche l’ultimo conoscente in capo al mondo, non si dica eventualmente un figlio o un parente lontani o un amico che ha difficoltà a muoversi. Le lontananze non sono mai state così accorciabili, superabili, rese relative da assolute che erano.

 

            

 

La stessa offerta televisiva, altro totem che ci piacerebbe a volte prendere a capocciate per la sua invasività senza criterio apparente, anarchica e sfacciata, eppure proprio per questo sempre pronta all’uso, buona per divagare da una stanza vuota a un interno affollato, a un volo radente di elicottero sulla città, a una corsa a perdifiato di gnu nella savana. Gli stati stessi di insicurezza, così pronti a sconfinare nell’angoscia per quel che sarà e che non è nella possibilità di persone sole anziane dirottare da sé: un malessere che avanza maligno, un malore che sopravviene per chissà quale causa: non si è più così nudi e indifesi neppure di fronte al precipitare degli eventi, della incolumità, dell’equilibrio psico-fisico. Gli apparecchi salvavita si azionano con un clic; un 118 o un 112 azionano a loro volta servizi di emergenza che impiegano l’indispensabile ad arrivare dove devono arrivare. Niente è meglio programmabile dell’emergenza – ha detto un alto responsabile di questi servizi. Ed è così: nelle sale operative la singola chiamata entra in un flusso prevedibile, collegato a interventi predefiniti. 

Tra le cause di mortalità più gravi, quella che ha subito la contrazione più significativa, più netta, è l’infarto del miocardio. E non è tanto la medicina, l’ospedale, a fare la differenza; la differenza rispetto al passato la fanno i tempi entro i quali all’ospedale si arriva per essere affidati alla medicina. E anche questi tempi tanto accorciati sono un aspetto di una vita da soli che non è quella di cinquant’anni fa. Ch’è, lo si voglia o no, migliore. 

E’ forse diventata bella, allora, quella vita? Calma. La vecchiaia è la vecchiaia. Da soli, poi. I soldi non sempre bastano; i servizi non sempre ci sono. Tribolazioni e malesseri non evaporano. Ma gli scenari catastrofici devono confrontarsi con le statistiche. E nel confronto hanno la peggio.

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