Jacques-Émile Blanche, “The readers”, 1890 (Wikipedia) 

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L'almanacco di Gotha, il "Who's Who" delle corti europee e il suo fascino eterno

Fabiana Giacomotti

Storia e curiosità di un manuale senza tempo che è un catalogo di chi è chi, tra genealogie, moda e diplomazia internazionale. Cosa racconta sul nostro modo di socializzare

Due anni dopo l’asta ricchissima dei beni di Gabriele Arezzo di Trifiletti a Palermo, sulla quale lo stato italiano aveva giustamente posto il veto all’esportazione, il caso, o per meglio dire il gran gusto della vicina di casa Valentina La Rocca, socia della Libreria Cascianelli dalla quale Alessandro Michele trae ispirazione da anni, mi mette fra le mani due copie, anno 1803 e 1825, dell’Almanacco di Gotha che provengono da quella vendita all’incanto dove non ero riuscita a comprare niente, neanche un vestituzzo, una ceramica o una curiosità d’epoca da quella collezione che gli eredi credevano inutile e vanesia e che invece si è rivelata una miniera d’oro. Se i calendari di oggi sono utili giusto per pianificare le vacanze e stabilire “i ponti dell’anno”, e gli almanacchi di un tempo, eredi di una tradizione che affondava le radici nella menologia rustica romana che era destinata perlopiù agli agricoltori, offrivano indicazioni sulle fasi lunari e curiosità storiche, l’Almanacco di Gotha è stato, ancora più che un almanacco genealogico delle case regnanti e dell’aristocrazia occidentale, un barometro del potere aristocratico, militare e delle convenienze politiche almeno fino alla fine dell’Ottocento, oltre che una impareggiabile guida di caccia per le ragazze da marito: un antesignano del “Who’s who”, era così famoso che se ne trova traccia in tutta la letteratura ottocentesca, fra uno svenimento e un rossore, ma anche fra le battute intelligenti dei personaggi di Jane Austen. Venne pubblicato ininterrottamente dal 1763 al 1944, quando l’Armata Rossa entrò nelle stanze della Justus Perthes Verlag in Sassonia e distrusse sistematicamente l’archivio dalla prima edizione; da una quarantina d’anni ha ripreso le pubblicazioni con diversi editori, ma ovviamente non è più la stessa cosa perché i pochi che si interessano alle fasi lunari guardano al massimo Internet e i nostalgici della monarchia hanno i loro punti di incontro e le loro pubblicazioni. 

Queste due annate custodivano indicazioni interessanti sull’attualità, cioè sul perché siamo arrivati qui a queste condizioni e con questi disgusti, per cui li ho acquistati. L’almanacco del 1803 custodisce per esempio due stampine dello stile dernier cri dell’epoca dipinte a mano ad acquarello, attività alla quale si consacravano le signorine prive di mezzi e che spiega anche la ragione di quelle didascalie lunghe due pagine, bastava che la pastiglia di colore fosse esaurita ed ecco che il rosso diventava un delicato rosa cipria in anni nei quali i colori avevano una simbologia precisa e dunque senza descrizione la sartina di paese avrebbe rischiato di copiare malamente, mentre Palazzo Pitti a Firenze è descritto come la sede dei “re di Etruria”, un’indicazione che mi ha già permesso di fare la spiritosa con chi lo gestisce al momento. Ha la copertina di quel meraviglioso punto di verde arsenico di cui qualche anno dopo pare che gli inglesi avessero imbevuto la carta da parati della camera da letto di Napoleone Bonaparte a sant’Elena per chiudere in fretta l’operazione “esilio a vita dell’imperatore”, e senza dubbio si tratta della stessa edizione che le contemporanee di Jane Austen sfogliavano attentamente la sera al rientro da un ballo durante la “season” londinese di cui il mondo ignorava l’esistenza fino alla prima puntata di “Bridgerton”, non essendosi mai dato la pena di leggere “Orgoglio e pregiudizio” e ignorando dunque l’utilità di quel volumetto filettato d’oro che teneva il conto delle nascite, le morti e le nuove parentele delle case regnanti e ducali di tutta Europa “e delle Americhe” e via via a scendere fino agli ordini cavallereschi e alle “case comitali immediatizzate del Sacro Romano Impero”, cioè direttamente dipendenti dall’imperatore post-Congresso di Vienna, novità dell’edizione 1825 che è appunto il secondo tomo che sono riuscita ad accaparrarmi e che non riesco a immaginare come le contemporanee di Elizabeth Bennett potessero compulsare avidamente la sera, alla luce delle candele come viene citato in tutti i romanzi, essendo scritto in corpo otto e praticamente senza interlinea nel formato più piccolo che si possa immaginare anche per i torchi dell’epoca. 

Su quelle paginette c’è da lasciare gli occhi sebbene in quegli anni il matrimonio fosse un lavoro vero, meritevole di investimenti e pianificazione attenta, e dunque fosse di fondamentale importanza capire, anche a costo di usare una lente, se il mister Darcy di turno valesse la fatica di un inseguimento nel Derbyshire o, nel caso fosse gravato da una vasta parentela diretta e da due o tre sorelle alle quali provvedere e questo poteva dirlo solo l’Almanacco, fosse meglio rivolgersi altrove senza perdere altro tempo. Nel mio immaginario, ma soprattutto osservando le edizioni sontuose rivestite in tessuto rosso impresso in oro degli ultimi anni, un almanacco da consultazione pressoché quotidiana doveva avere un formato adeguato agli scopi. Succube della leggenda che lo circonda e di quella sterminata bibliografia, assegnavo insomma dimensioni da Enciclopedia di d’Alembert a quello che era a tutti gli effetti un manualetto a diffusione popolare, un riuscitissimo incrocio fra il “Gala” spagnolo, o il nostro “Chi” che gli si ispira, e “Frate indovino” che guai se non ricevo tutti gli anni anche se poi non lo apro mai e rimane piegato in un angolo della librerietta in cucina fino a dicembre senza che sappia mai quando è arrivato il momento di piantare i pomodori. A prescindere dalle patenti di nobiltà e dal valore anche politico che gli avrebbero assegnato i contemporanei e naturalmente le generazioni successive, dopotutto ancora adesso definiamo “gotha della finanza” certe cafonissime combinazioni di banchierozzi di provincia e assicuratori smaniosi di scalata per tornaconto personale, l’Almanacco doveva possedere dimensioni adatte a un’alta tiratura e un costo accessibile, che all’epoca si combinavano nel formato di un breviario, o del Vangelo, o dei romanzetti licenziosi che, non a caso, venivano mandati tutti in stampa nelle stesse macchine tipografiche dagli stessi editori. 

Gli obiettivi iniziali del “Gotha”, in realtà, non erano lontani da quelli del “Mercure Galant” e delle prime pubblicazioni diffuse nelle corti europee: redigere un elenco di fatti, nomi, curiosità, racconti, testi letterari, poesie, per un pubblico di cortigiani e di aspiranti tali, cioè di quel proletariato ambizioso che, una partita di sego dopo l’altra, aveva iniziato ad ammassare delle belle fortune e puntava alla presentazione a corte. Non a caso, il primo editore dell’Almanacco non fu nemmeno Perthes, ma Johann Christian Dieterich, commerciante in sete di Berlino finito a stampare atlanti nelle terre dei Sassonia-Coburgo-Gotha per via matrimoniale, un po’ come i Plantin Moretus di Anversa che nel giro di un paio di secoli erano diventati i più importanti editori d’Occidente sposandosi per asse professionale e accumulando commesse da Guicciardini come dalla chiesa riformata per la prima Bibbia poliglotta. Dal 1775, l’Almanacco era stato stampato da Carl Wilhelm Ettinger e quindi dal suo socio, appunto quel Perthes che seppe infondergli lo stile curioso e a tratti malandrino che ne determinò il successo e la pletora di epigoni, non ultimo il Burke’s Peerage che è stato pubblicato in Inghilterra fino a vent’anni fa. La forza di Perthes, e lo si legge chiaro anche nell’“Introduzione” all’edizione del 1825, scritta in tedesco e naturalmente in francese che fino all’inizio del Novecento sarebbe stata la lingua della diplomazia, era infatti nella rete di contatti (“uomini di Stato fra i più insigni”) che aveva saputo tessere fra i commis d’ambasciata e i diplomatici, arruolati come collaboratori in cambio di favori e certamente anche di denaro. Ma bisogna anche dire che nessuno dei citati lasciava correre in caso di errori o di segnalazioni non gradite, vedi appunto Napoleone Bonaparte che nell’ottobre del 1807 scrive seccatissimo al suo ministro degli esteri perché nell’Almanacco viene citato il “comte de Lille”, cioè Luigi di Borbone, futuro Luigi XVIII, in quegli anni esiliato con il titolo di uno dei suoi possedimenti in Provenza, Lisle in Linguadoca o appunto Lille: “Signor de Champagny, l’ultima edizione dell’Almanacco di Gotha è mal fatta. …I nomi vi sono presenti in modo sconveniente (…). Convocate il ministro di Gotha e fategli intendere che dal prossimo almanacco, questo dovrà essere cambiato. Deve essere menzionata la Maison de France come nell’almanacco imperiale (…) Chiederete anche che il testo vi venga sottoposto prima di essere stampato. Prendete buona nota di informarci se altri almanacchi dovessero essere stampati nei regni di nostri alleati con referenze inappropriate ai Borbone e alla Maison de France”. La vendetta di Perthes fu talmente eclatante – pubblicò due edizioni, una per la Francia elencando a uno a uno tutti i parvenu della noblesse napoleonica, un’altra per il resto del mondo conosciuto con le maison detronizzate dopo il crollo del Sacro Romano Impero a seguito del Trattato di Presburgo del 1805 – che la sua fama se ne accrebbe in maniera smisurata, rendendolo de facto l’editore più temuto e vezzeggiato d’Europa, anzi suggerendogli di spingersi un po’ più in là e di corteggiare i lettori del Nuovo Mondo elencando i governatori di quelle terre ancora ampiamente in via di definizione di confini e di poteri. 

Quello che Perthus scrive esattamente due secoli fa nella sua nota introduttiva, a quattro anni dalla morte di Napoleone e a dieci dal trattato del Congresso di Vienna, mira infatti ad allargare la base delle famiglie degne di essere citate, osservate e seguite nell’evoluzione della loro genealogia, secondo la formula editoriale delle liste e delle classifiche che hanno sempre fortuna anche quando, e sono fatti di qualche settimana fa, non del 1825, si scopre che erano prezzolate e che forse gli under trenta, over quaranta, forever successful messi in fila erano meno geniali di quanto li si volesse far apparire. “Gli articoli nuovi riguardano le maison di Collalto, Lichnowsky, e benché ci manchino informazioni ufficiali, sulla famiglie Barbian et Belgiojoso, Borghèse (scritto anche lui alla francese, ma dopotutto una Paolina Bonaparte non era andata a illeggiadrire la famiglia di Camillo e a farsi scolpire dal Canova come Venere?), Monaco, Saluzzo”. Fra le ultime pagine, “Sguardi genealogici  diplomatici degli stati extra-europei”, non mancano indicazioni che, anche a volerle giudicare con l’occhio del colonialista pentito e incline all’auto-flagellazione, suscitano qualche riflessione su certe inclinazioni politiche per così dire tradizionali: “Afganistan o Persia orientale: la corona è ereditaria nella famiglia dei Suddozei, che origina da Ahmed Shah Abdalli. Visto che il diritto di primogenitura non è in vigore, il sovrano di Cabul tiene in prigione gli altri membri della famiglia, ad eccezione di qualche favorito”. Segue, senza commenti, l’elenco dei membri della famiglia accecati e scacciati dal paese e, per il Sind, ora regione del Pakistan, l’ordine emerso dall’ultima guerra “dove il vasto impero degli Ameer obbedisce a un dispotismo militare”. Per il Turkmenistan si “attendono notizie”: la difficoltà dei rapporti fra Europa e Asia centrale, la diffidenza, il timore, emergono anche fra quelle pagine mirate a informare e intrattenere. Fra le prime pagine, si trovano non a caso “ampi stralci” dal bestseller di due anni prima, “Quentin Durward” di sir Walter Scott, “tratto da fatti realmente accaduti” (l’assedio di Liegi e l’assassinio del vescovo Luigi di Borbone, che per ragioni narrative l’autore aveva anticipato di qualche anno, al 1482, ma vedete che siamo già lì, al format della “giornata particolare”) e quindi un calendario comparativo degli ordinamenti nuovi e passati, effettivi o curiosi, che al nostro sguardo inevitabilmente un po’ deformato da un ventennio di correttezza politica appare già straordinariamente moderno e mirabilmente inclusivo, ma che è senza dubbio una furbata ad uso di chiacchiera serale. “L’anno 1825 della nascita di Gesù Cristo è l’anno 6538 del Calendario Giuliano, il 2578 dalla fondazione di Roma, il 2601 dalla prima Olimpiade (il barone de Coubertin sarebbe nato quarant’anni dopo, i giochi olimpici non si disputavano da qualche millennio, questo riferimento Perthus dovrebbe spiegarcelo), il 2574 dall’era persiana o di Nabonassar che comincia il 5 giugno, il 5586 per gli ebrei, con inizio il 13 settembre, il 7333 per i greci moderni e infine, concessione al protettore, il “quarto del regno di Federico IV, duca di Saxe-Gotha”. Adesso che online abbiamo aggiunto a quello cattolico romano il calendario hindu sembriamo meno esotici. 

E la stessa impressione abbiamo con le eclissi e quelle che oggi vengono definite “superlune”: duecento anni fa ce ne furono quattro, due solari e due lunari, di cui l’ultima sarebbe stata visibile “solo nell’Oceano pacifico” ma, il mondo si vive sempre dalla propria prospettiva, sarebbe avvenuta alle ore 6.35 “sull’orologio di Gotha”. Quest’anno, è scritto su Google, ve ne saranno tre, ma non nutriamo tutte le certezze di Justus Perthes e dei suoi contemporanei, che in coda ai fatti dell’anno 1824 appena concluso e fra i quali spicca la morte di George Byron a Missolungi, fissano senza tentennamenti la nascita del mondo al 3984 avanti Cristo, il diluvio universale al 2328 e la spedizione degli argonauti (“Hercule, Orphée”) al 1264. Fare della mitologia un fatto storico ha un fascino che non riusciamo più a comprendere.

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