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fatti e scenari

Catastrofisti di tutto il mondo, calmatevi: la vita sulla Terra non sta per finire

Antonio Pascale

Contro la retorica dell’apocalisse, un messaggio per chi ha trasformato la nobile cura dell’ambiente in odio verso gli uomini: le condizioni in cui viviamo sono migliorate sensibilmente. Appunti per un ottimismo sostenibile

Un giorno sì e un giorno no, ascolto e leggo sui media dichiarazioni siffatte: il pianeta (la nostra Terra) è stato violentato dall’uomo. Seguono varie declinazioni della violenza, più o meno dolorose, più o meno irreversibili. Si va dall’inquinamento (ci si concentra sull’agricoltura intensiva) al cambiamento climatico con il suo conto alla rovescia (non c’è più tempo), alla plastica nei mari (un oceano di plastica).  Spesso, poi, dopo le dichiarazioni ci si lancia a immaginare soluzioni utili a salvare il pianeta. In genere si sostengono ipotesi di decrescita (senza mai indicare di quanto dobbiamo decrescere e come) oppure si racconta la vita di alcuni di noi che hanno scelto di fuggire dal mondo e di rifugiarsi altrove. Una volta nei boschi, una volta in alta montagna, una volta in borghi spopolati. E qui liberi da tuti gli orpelli della tecnologia, devoti a un’esistenza più autentica, si sentono finalmente felici (scelte molto suggestive che però non andrebbero pubblicizzate più di tanto, perché nei boschi già quando vai a funghi  è facile andare incontro al fenomeno del  sovraffollamento turistico, pensate se dovesse diventare una scelta di vita per tutti noi).

Comunque, visto che appartengo al genere homo, e sono sensibile all’ambiente e, per sensi di colpa atavici, sono pure pronto a subire rimproveri sul mio operato, le dichiarazioni sulla violenza dell’uomo nei confronti del pianeta hanno molto potere su di me: mi viene il magone, il cattivo umore, e comincio a vagare per la città, Roma, che in effetti bene non sta messa. Con il refrain della violenza che mi gira nella testa come una musica che fa zum zum zum, mi fisso, mi concentro sui cassonetti dell’immondizia. Orribilmente pieni. Non ce n’è uno pulito, resti dell’attività umana ovunque. Poi, visto che sporcizia attira sporcizia, il mio sguardo punta sul disordine che mi circonda. Dunque noto: la quantità di macchine in doppia fila, l’abbondante dose di biciclette e monopattini parcheggiati trasversalmente sul marciapiede, ché insomma, che ci vuole  a sistemarli per bene? Oppure (il mio sguardo) punta gli irrefrenabili cocainomani che sfrecciano, che litigano, che tirano insistentemente col naso, che spalancano occhi lucidi sfocando il mondo e alimentando il proprio ego, che finanziano camorra e associati. I quali gruppi criminali, poi, a loro volta riempiono le casse dei vari cartelli narcos e associati, e questi che se ne fanno di tutti questi soldi? A loro volta inquinano il mondo, l’economia, riciclano e aprono locali pomposi, bar open all night, accendono luci energivore, mettono musica a palla che si diffonde per il circondario,  e capite che rintontito come sono, comincio a detestare tutto, se in quel momento qualcuno dovesse chiedermi un’opinione sul mondo parlerei senza dubbio dell’uomo che ha violentato la Terra e auspicherei una fuga nei boschi. Perché detesto tutti. Tutti, però, tranne me.

Difatti, per un meccanismo di dissociazione, giudico quello che c’è intorno come violenza dell’uomo sulla terra mentre io, al contrario, mi sento il vendicatore, uno puro, stile Emilio Borrelli. Tanto che mi viene voglia di dare del cialtrone a tutti. Così, cialtrone dopo cialtrone, sogno di ripulire tutta la città, con metodi poco ortodossi. Mi prende una strana, inquietante, simpatica vicinanza al pensiero di un tipino come il conte nonché diplomatico Joseph Marie de Maistre. Con la sua ossessione verso il boia, l’unica barriera, oltre Dio, per contenere la violenza che noi uomini, se non guidati dalla spada, compiamo ogni giorno. Mi trasformo in un reazionario, in un vendicatore. 

Quando mi riprendo da questo stato confusionale mi chiedo: ma non è che a forza di parlare di violenza sulla terra finiamo solo per violentare (in senso figurato) il nostro prossimo, o meglio, non è che a forza di ascoltare dichiarazioni così dure, apocalittiche poi sentiamo un fortissimo desiderio di purezza? Purezza che diventa la nostra linea guida, ed esigiamo l’intervento del boia per punire i peccatori? Cioè, quant’è che questa nobile pratica, cioè la cura del proprio habitat, si trasforma in odio verso gli uomini e le attività che gli uomini compiono per vivere? Esiste un discrimine culturale superato il quale diventiamo figliastri di Joseph Marie de Maistre?

Il filosofo Peter Wessel Zapffe (finalmente edita in italiano il suo strepitoso saggio, L’ultimo Messia, Mimesis) ragiona sugli umani (e a parte la sua divertente quanto ragionevole visione pessimistica) ci tiene a sottolineare che l’unica salvezza per il pianeta, la biosfera, la natura,  è accelerare la nostra dipartita da questo mondo. Certo, non attraverso un suicidio di massa, ci mancherebbe, ma smettendo subito di far figli. A che pro, infatti, generare una copia di noi stessi? Tra l’altro, visti i miglioramenti delle condizioni di vita, questa copia sarà più in salute, più forte, quindi anche più arrogante. Una copia che si aggiunge ai già tanti io qui presenti, molti dei quali, noncuranti del prossimo, metteranno le bici e i monopattini, le macchine sul marciapiede e in doppia fila, per non parlare della enorme quantità di cocainomani che poi visto l’aumento della vita media vivranno e pipperanno a lungo? A che pro? 

Soprattutto se lo scopo della vita come dicono i religiosi non è in questa vita, questa è solo di preparazione alla prossima che, se rispettati i protocolli, sarà eterna, senza sprechi energetici e contemplativa della bellezza del creato, o di Dio, o altro che non sappiamo neppure immaginare. Ma anche, al contrario, se lo scopo della vita non c’è, in quanto noi umani siamo frutto di una fortunata o forse sfortunata (dipende dal punto di vista) catena di circostanze e siamo niente rispetto al buio, al freddo e alle vastità che ci risucchiano. Insomma che la vita abbia o non abbia senso, perché continuare  a generare vita credendo che la vita porti con sé un senso? Nell’uno e nell’altro caso, a che pro? La verità che certi pessimisti hanno evidenziato non è purtroppo squisitamente natalizia: la vita porta con sé distruzione. La voglia di vivere richiede spreco e dissipazione, estrazione di risorse minerarie, la condizione umana dipende solo dalla condizione mineraria. Più viviamo, più celebriamo la vita, più esauriamo le risorse. Più esauriamo le risorse più desideriamo purezza, più purezza più violenza, più violenza più auspichiamo il boia: è un circolo vizioso. Il problema che alcuni pessimisti pongono è infatti alla base delle nostre riflessioni ecologiste: è la vita a generare inquinamento, quindi, perlomeno, aboliamo la natalità, perché per quanti calcoli raffinati possiamo fare, per quanto radicali possiamo essere nelle nostre scelte di vita, vivere significa inquinare.

 

Ogni volta che ascolto dichiarazioni come la terra violentata dall’uomo, dopo aver passato in rassegna i crimini del prossimo mio, dopo aver desiderato di purificare, bonificare il mondo, ormai calmato dalla smania vendicatrice, mi pongo una domanda: per il nostro e l’altrui benessere, per poter operare in maniera costruttiva, vale la pena osservare il mondo sotto la lente armonia disarmonia con la natura, violenza non violenza sull’ambiente? E’ utile? Dichiarare che l’uomo ha violentato la natura, corrotto il proprio habitat, innescata la fine prossima, è un monito serio o serve solo al benessere e al portafoglio di quello che di volta in volta pronuncia la dichiarazione? Smuove lo status quo o smuove solo il bilancio del promotore di questa ide? Che poi viene invitato a qualche convengo a discutere sull’argomento, pagato a dovere, ovvio. 

Come dobbiamo dunque osservare la storia del mondo? Siamo partiti da una condizione di felicità e abbiamo rovinato tutto? Oppure al contrario abbiamo migliorato la nostra condizione strada facendo? Probabilmente sono sbagliati i due approcci, la nostra storia altro non è che un incessante, inquieto e poco consapevole continuum: problema, soluzione e nuovo problema, nuova soluzione, nuovo problema. Una successione di scenari che prima appaiono luminosi poi via via diventano più angusti, tanto da richiedere soluzioni, cambi di passo, dunque creazione di nuovi scenari dapprima luminosi e poi, di nuovo, via via, sempre più angusti: la nostra vita è una giostra ora piena di luci, ora colpita da black out: non ce ne rendiamo conto perché con l’ansia di vivere il qui e ora pochi di noi hanno una buona memoria, pochissimi hanno lungimiranza.

Decenni di studi e ricerche hanno analizzato la condizione umana all’epoca dei cacciatori raccoglitori. Non erano così primitivi, anzi. I nostri antenati cacciatori raccoglitori lavoravano molto meno di noi, mangiavano centinaia di specie diverse, tra flora e fauna, erano atletici (i resti fossili e l’analisi dei midolli, testimoniano un invidiabile stato di salute), avevano una discreta aspettativa di vita. Molto probabilmente anche loro raccontavano storie allo scopo di riflettere sull’esperienza o di lenire le ferite che l’esperienza porta con sé. Visto e considerato tutto questo si potrebbe credere, come molti filosofi hanno fatto, che c’era una volta uno stato di natura armonico che poi abbiamo distrutto. Altre ricerche, all’apposto, ci fanno notare che va bene, eravamo zingari felici ma esercitavamo con costanza una buona dose di violenza tribale, e ci sono voluti millenni per organizzare un sistema di protezione dalla suddetta violenza. Ovviamente, alcuni filosofi, come alcuni poeti, ogni volta che parlano è una mezza truffa: né Rousseau né Hobbes sapevano qualcosa di cacciatori raccoglitori (anche se non fu certo Rousseau a elaborare la parabola del buon selvaggio: dietro troviamo una ricca tradizione di giusnaturalisti, tutti dotati di una buona dose di speculazioni teoriche, che usavano il cosiddetto armonico stato di natura per lanciarsi in teorie non sempre ancorate a dati empirici). 

I nostri cacciatori raccoglitori – a parte che non erano così sempliciotti come ci piace immaginare, anzi, ci sono esempi di costruzione e organizzazione dal basso da far invidia ai moderni pensatori anarchici –nei millenni sono stati così bravi a cacciare che hanno fatto fuori una buona parte delle macro e micro fauna e probabilmente si sono trovati davanti a un problema: che facciamo ora che lo scenario non è così favorevole? Probabile che la transizione verso l’agricoltura sia stata molto lenta ma invasiva, quasi una costrizione. All’epoca insomma abbiamo trovato la soluzione, grazie all’agricoltura ora mangiamo tutti, facciamo più figli, più copie di noi stessi. Cosa che in effetti è avvenuta (anche se sono aumentate le malattie, e la nostra alimentazione così varia si è ridotta all’uso di pochi cereali di base). Ma risolto un problema (la fame), creato un nuovo scenario, ecco comparire i costi.  Uno fra tutti, ma non a caso, la quantità di lavoro e fatica che abbiamo dovuto sopportare per sostenere il nuovo scenario. Anzi, con piglio esistenzialista, possiamo dire che la nostra storia altro non è che il tentativo di affrancarci dal lavoro e dalla fatica. Il logorio della vita moderna, per citare la nota pubblicità col fantastico Ernesto Calindri (morto a 90 anni nel 1999, e che ho visto ballare come un ragazzino al Bellini di Napoli nel 1986), non è nulla al confronto con la fatica che i nostri antenati hanno dovuto patire per millenni. Georges Vigarello, storico e sociologo, nel suo libro Storia della fatica. Dal Medioevo a oggi (il Saggiatore) fa notare come la fatica contadina per secoli e secoli non è stata nemmeno documentata, figurarsi se qualcuno si premuniva di analizzarla. 

In epoca medievale (periodo storico che è durato un millennio, almeno secondo la nota classificazione) la fatica rappresentava una specie di percorso iniziatico per viaggiatori (ci si purificava viaggiando) e per guerrieri (la fatica era esaltata e ricercata) e naturalmente rappresentava il viatico per la redenzione per santi e sante. E i contadini? Quelli che faticavano in ambienti scarsamente produttivi? Niente, le loro imprese quotidiane non sono pervenute: in quei contesti la fatica non avviava nessun principio di redenzione o di purificazione, i contadini non avevano voce in capitolo. Bisogna aspettare il 1200 d.C., la fine della servitù della gleba (nel 1861 la servitù della gleba è stata abolita in Russia, tanto per dire, i contadini 200 anni fa, come racconta Gogol’, erano niente altro che anime morte), quando nelle campagne arrivano i primi rudimentali attrezzi agricoli che, aumentando di poco la produttività, permisero almeno di classificare i vari gradi di fatica: di trasformare cioè un lavoro di durata infinita in uno di durata definita.  Molti schiavi acquistavano la libertà (per modo di dire), e le esigenze di produttività permisero anche di stabilire chi era più produttivo, dunque di costruire una scala valoriale per la fatica. 

L’uso della vanga e della falce (comunemente rappresentati) erano per esempio considerati compiti esclusivamente maschili così come la trebbiatura e la spulatura, mentre alle donne, ritenute più fragili, oltre a badare ai figli (altra fatica non considerata) erano affidati altri compiti, per esempio maneggiare falcetto e rastrello. Chi legava il grano era pagato più di chi mieteva. Due denari per quello che radunava, serrava e legava il grano, e un denaro e mezzo per quello che mieteva: pensate già la fatica del mietitore, valeva di meno di quella che compiva il legatore. Quello che arava prendeva di più di quello che erpicava. Comunque, nonostante i piccoli progressi, e quel soldo di più o di meno dato al povero cafone, c’era sempre (nei racconti) l’immaginario del cafone, appunto, la cui fatica veniva derisa. Il cafone che tornava dalla campagna stanco morto dopo essersi alzato prima dell’alba, quando ancora era buio, e tornato a casa col buio, dopo il tramonto, veniva messo a letto dalla moglie che lo preparava per la nuova fatica da vivere l’indomani. La fatica è stata il controcanto della bella soluzione, cioè l’agricoltura, che abbiamo trovato per sfuggire alla fame e organizzare meglio le risorse.

Questa condizione umana è durata per millenni (e certo, la fatica ancora non è finita), ma perlomeno gli ultimi 20 anni dell’Ottocento sono stati molto creativi e hanno gettato le basi (dall’ascensore alla bicicletta, alle turbine idroelettriche, alla commercializzazione della carta igienica) per il cambio di paradigma avvenuto nel Novecento. Cambio di paradigma a cui non abbiamo ancora reso omaggio, forse anche per questo ci lamentiamo della violenza che l’uomo avrebbe compiuto sul pianeta Terra. Poche scoperte (vaccini, antibiotici, fognature, bagni piastrellati) tre innovazioni (chimica, genetica, meccanizzazione) hanno cambiato la stagnazione agricola durata millenni, contribuendo al drastico abbassamento della mortalità infantile e ad  aumentare così la vita media. Il Novecento è stato secondo il premio Nobel per l’economia Robert W. Fogel un secolo notevole, perché nel giro di pochi decenni, in una buona parte del mondo, abbiamo appunto sconfitto le tre piaghe (fame, carestie, morte prematura dei bambini) che hanno falcidiato la vita dei nostri avi. Giusto per ricordare quando fossimo abituati e rassegnati alla morte dei bambini, racconto un ricordo personale: a Sant’Agata dei Goti, piccolo borgo del Beneventano dove mia mamma è nata, c’era una Madonna sul cui volto le anziane del paese disegnavano delle lacrime. Succedeva ogni volta che un bambino moriva. Non si poteva fare altro che accettarlo, pregare e sperare che perlomeno la Madonna lo chiamasse a sé, per una vita migliore. Non vi dico la paura che mi faceva questa statua, ogni volta temevo che la Madonna mi chiamasse e che mia nonna disegnasse un’altra lacrima. 

Nell’ottica di cui sopra, e cioè che l’uomo avrebbe violentato la natura, come giudicare dunque  il Novecento? Un secolo notevole, per dirlo alla Fogel o un secolo che ha azionato il conto alla rovescia per la nostra fine? Come giudicarlo, a parte le orribili vicende storiche, le due guerre e il genocidio? Da una parte, chi vorrebbe tornare a un mondo senza antibiotici? Nemmeno i fanatici dell’omeopatia ci pensano.  O un mondo nel quale mangiavi poco e male e gran parte del tuo reddito serviva a comprare cibo. Un mondo nel quale più dell’85 per cento degli abitanti della Terra erano contadini e i contadini non avevano nessuna voce in capitolo. Del resto quel sistema agricolo si riproduceva sempre uguale a sé stesso, disegnando quella condizione di emarginazione raccontata da tanti nel mondo e da Carlo Levi qui in Italia: i contadini non sono solo quelli che coltivano la terra, sono anche quelli che creano le cose e amano le cose che creano. Luigini sono tutti gli altri, sono quelli che per vivere succhiano e si nutrono dell’opera dei contadini. I Luigini hanno le parole, i contadini sono invece una grande forza che non si esprime, non parla (non a caso il poeta Rocco Scotellaro volle farsi interprete di quel mondo senza voce). 

Chi vorrebbe tornare indietro a un mondo abitato da contadini che da millenni dovevano togliersi la coppola davanti a un potente in segno di sottomissione o bussare con i piedi quando andavi a trovare il potente di turno, perché le mani erano impegnate  a portare merci varie come omaggio? Qualcuno riesce davvero a immaginare un mondo dove gli influencer tornano alla terra, allevano animali e distribuiscono letame? Nessuno, dài. Molto meglio e meno costoso scrivere articoli o montare servizi che mostrano quelli che vanno nei boschi per sfuggire al logorio della vita moderna. Nessuno vorrebbe tornarci, perché nel Novecento è migliorata l’alimentazione, è cambiata la struttura della società, le innovazioni si sono diffuse semplificando la vita a tanti e permettendo a molti di cambiare vita. Eppure le soluzioni trovate, consapevolmente o meno (di sicuro applicate), per rompere la millenaria stagnazione economica e culturale hanno prodotto un mondo con otto miliardi di persone (tutti quei bambini che la Madonna non ha più pianto), tutti con un solo istinto nemmeno tanto recondito, vivere appieno la propria vita, realizzare i propri sogni, farsi i soldi insomma, attività particolarmente energivore e dispendiose. Quindi come giudicare le nostre attività? Abbiamo salvato i bambini e noi stessi o abbiamo prodotto miliardi di bambini che cresciuti hanno alzato il conto? A chi diamo ragione? Ai pessimisti o agli ottimisti? (semplificando, certo).

L’ambientalista Vaclav Smil sostiene che sono quattro i pilastri che reggono questo mondo, quello nato dal Novecento: ammoniaca (se non concimi i campi con azoto la produzione non cresce), acciaio (significa treni, ponti, infrastrutture che permettono perlomeno un certo grado di civiltà), cemento (da noi ce n’è troppo, personalmente lo detesto, ma se vuoi salvare una vita nei paesi ancora poveri, meglio un sacco di cemento che l’elemosina ai bambini) e plastica (non bevo acqua minerale in bottiglia, è così buona quella dell’acquedotto, ma la plastica ci protegge dalla nascita alla morte, capiamo l’importanza della plastica quando, Dio non voglia, finiamo in terapia intensiva). Per creare questi pilastri, ancora oggi, purtroppo, usiamo energia fossile e non sarà facile cambiare fonte energetica, cioè avviare la transizione energetica dall’oggi al domani, semplicemente perché un altoforno per l’acciaio di base non l’accendi con i pannelli solari. L’ammoniaca senza idrocarburi non riesci a sintetizzarla (non è colpa nostra, ma delle leggi di natura: i legami tra le molecole non si spezzano facilmente). Cemento e plastica non fanno eccezione. 

Forse questa ottica – problema, soluzione, nuovo problema – consente di analizzare meglio il cammino dell’umanità, ché al di là della pubblicistica di successo, noi sapiens siamo molto lontano dal muoverci verso gli dei, dalle tribù agli angeli. Tutt’altro, il nostro è un cammino ondivago e non così prevedibile, sicuro leggibile solo ex post, quando i benefici e i danni sono stati prodotti.  Ma insomma, tornando a noi, al Novecento, da una parte le condizioni di vita sono migliorate, dall’altra i costi del miglioramento sono caduti su tutti noi. Alla fine la vecchia e cara canzone di Jovanotti, Mi fido di te, dice una verità: cosa sei disposto a perdere? Per guadagnare qualcosa, che costo dobbiamo pagare?

Qui sarebbe necessaria, invece dello slogan di successo, una più seria e parca analisi costi-benefici. Che però non fa per noi, questo è il grande problema della contemporaneità. Noi tutti vogliamo farci valere, realizzare i nostri sogni, desideriamo emergere più velocemente degli altri. Per farlo conviene limitare la nostra memoria e immaginare rosee aspettative, insomma usare una certa superficialità e una buona dose di autoinganno. In questo senso, la tecnica del riflettore è ottima. Si inquadra solo quello che conviene inquadrare, e le altre parti, che illuminate servirebbero a tutti per capire meglio lo scenario, vengono tenute in ombra. Il metodo, racconta Auerbach che l’ha descritto nel suo saggio su Voltaire, serve a rendere ridicolo l’avversario e eroico chi lo contrasta, un po’ come succede a me quando sensibilizzato da un certo modo di raccontare il mondo, scendo per strada, vedo disordine ovunque e invoco il boia per i disordinati.

Hannah Ritchie nel suo libro Non è la fine del mondo Come possiamo costruire un pianeta sostenibile (Aboca), affronta sette problemi che abbiamo di fronte e che sembrano, nella vulgata, alimentare l’immaginario dell’uomo gran devastatore. I problemi sono i seguenti: inquinamento atmosferico, cambiamento climatico, deforestazione, cibo, perdita di biodiversità, cibo, pesca eccessiva. Già l’elenco è scoraggiante e avvia quella che si può chiamare retorica dell’apocalisse, cioè la sensazione che la fine del mondo è vicina e se non cambiamo rapidamente moriremo rapidamente. La retorica dell’apocalisse, costringendoci a pensare in fretta, ci disabitua ai bilanci seri, non prende in considerazione i ragionamenti analitici, sfugge alla complessità, e cerca piuttosto di estorcerci delle emozioni e delle dichiarazioni di apparenza o di qua o di là, o vittima o oppressore. La retorica dell’apocalisse non ci abitua a ragionare caso per caso, non ama nemmeno darsi obiettivi ragionevoli, con tempi e modi dovuti, nemmeno ragiona sull’efficacia degli strumenti, illumina solo quello che appare suggestivo e utile alla causa. 

E soprattutto ci immobilizza, terrorizzandoci. Hannah Ritchie si prende il suo tempo per esaminare il percorso che ci ha portato fin qui e per valutare soluzioni e costi. Alla fine offre molti spiragli di luce: non è la fine del mondo. Anzi, il mondo migliora e ci sono molti parametri che lo confermano. Molto ancora può essere migliorato. Serve lavorare insieme, ampliare il nostro sguardo, collaborare e innovare. Ci vorrà tempo, pazienza, e se questa generazione non ce la fa, il minimo che possiamo fare è passare il testimone a quella successiva, invece di dichiarare chiusa la questione per via del mondo che va in frantumi perché il non rispetta il nostro standard di purezza (secondo il rapporto 2023 del Reuters Institute  una persona su tre tende a evitare alcuni argomenti per paura di essere bombardata da cattive notizie: come a dire, preferisce tacere piuttosto che affrontare la retorica dell’apocalisse).  

Per sperare che le future innovazioni risolvano almeno qualcuno dei sette problemi che ci angosciano, possiamo concludere riportando alcuni parametri che stanno migliorando le condizioni di vita di alcuni di noi. Primo di tutto il numero di persone che vive in povertà assoluta si è ridotto a circa 600 milioni, qualche anno fa era di 700 milioni.

L’accesso all’acqua potabile è aumentato: il 22 marzo del 2023, giornata mondiale dell’acqua, Wordbark segnala che la percentuale della popolazione mondiale con accesso all’acqua potabile gestita in modo sicuro è cresciuta: dal 62 per cento nel 2000 al 74 per cento nel 2020.

Attualmente circa 420 milioni di persone, ovvero il 5 per cento della popolazione mondiale, continuano a dover fare i propri bisogni nei campi, nelle foreste, nei corsi d’acqua o in altri spazi aperti. La mancanza di servizi igienici è più concentrata nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale.  Il parametro (qui in miglioramento) è di grandissima importanza, più igiene, meno malattie infettive come colera, diarrea e dissenteria. 

Meno mortalità infantile, più alta l’aspettativa di vita. Nel 2023 si è raggiunta la cifra (record) di 73 anni di vita media sull’intero pianeta (in Italia siamo a 83 anni). L’Egitto ha debellato l’epatite C, il Bangladesh la febbre nera. Aggiungiamo che si vaccinano più persone, si suicidano meno persone (700 mila) e muoiono meno persone di Hiv (660 mila). Anche l’istruzione sta aumentando. In alcuni paesi a scuola ci possono andare più bambine (più 50 milioni dal 2015). 

Aggiungiamo all’elenco delle ottime notizie che nel 2023 due paesi hanno tolto di mezzo la pena di morte, (il Ghana e la Malesia) e a proposito di “ognuno farà l’amore come gli va”, sempre nel 2023 due paesi hanno depenalizzato l’omosessualità (Mauritius e Isole di Cook).

Certo, a nuovi benefici corrisponderanno nuovi problemi, per esempio ancora non sappiamo se stiamo aggiungendo vita agli anni o semplici e malandati anni alla vita. Non sappiamo se riusciremo a trovare energia pulita per vivere meglio tutti. Ma la perfezione non esiste ed è una pratica che rimanda a un’idea malsana di purezza, meglio continuare a essere vigili, cercare, testare, mettere in campo strumenti innovativi e fare i conti dopo una buona sperimentazione. 

Con l’augurio che il metodo scientifico di analisi della realtà vada avanti, e quelli alla Joseph de Maistre retrocedano, ricordando sia le fragilità umane sia la forza esplosiva di alcune vecchie e nuove innovazioni, auguriamo a tutti che l’anno appena cominciato sia il più sereno possibile.

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