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L'intervento
Il fine vita richiede una legge urgente per colmare un vuoto
Non arrendiamoci all’idea che tutto sia già deciso (e costruito) a priori, che le singole volontà non abbiano la capacità e la forza di farsi, insieme, coscienza collettiva. Ignorare i diritti è inutile e pericoloso. Occorre invece accendere una luce nuova, a iniziare dal legislatore
Esistono assunti che, letti con un minimo di senso critico, sono capaci di scuotere anche il più placido degli uomini. Uno è quello formulato da Émile Durkheim nel suo “Le regole del metodo sociologico”. I fatti sociali – scrive il sociologo francese – “consistono in modi di pensare e di agire esterni all’individuo, dotati di potere coercitivo in virtù del quale essi si impongono”. Per tutti noi precari in cerca di certezze, aggrappati come siamo all’illusione dell’autodecisionismo da social, quella di essere solo spettatori inermi è una considerazione decisamente difficile da metabolizzare.
E però a guardare bene dentro le gabbie in cui dovremmo essere rinchiusi, a scavare sotto la superficie con unghie coraggiose, forse qualche spunto di speranza c’è. Non arrendiamoci all’idea che tutto sia già deciso (e costruito) a priori, che le singole volontà non abbiano la capacità e la forza di farsi, insieme, coscienza collettiva. E’ un esercizio complesso, ma allo stesso tempo necessario se vogliamo restituire senso alla costruzione della convivenza. Allora sì che il nostro disagio potrà essere un po’ meno pesante e, perché no, mutato nella possibilità di dare una direzione differente al sentire comune.
E’ a questa volontà, a un attivismo rinnovato, che dovremmo ricondurre il nostro agire sul tema dei diritti. A partire dal fine vita, che oggi è ritornato d’attualità proprio per il tentativo di bucare quella rete sociale che ha sin troppo scioccamente identificato la volontà con il capriccio, generando una contesa tra i diritti – all’autodeterminazione da un lato, alla vita dall’altro – che invece possono e devono convivere. Qui non si tratta di imporre una sorta di diritto al contrario o di cancellare valori. Né tantomeno di calpestare le ragioni di chi lega la vita solo al suo percorso naturale. Da cattolico quale sono (o meglio, provo a essere) credo, al contrario, che la logica della contrapposizione a nulla serva se non a creare ghetti. Il tentativo è semmai un altro: occorre spolverare l’abito della laicità che abbiamo chiuso nell’armadio delle certezze aprioristiche, riscoprendo la necessità di non abbandonarci a pregiudizi etici. Il tema, ridotto all’osso, è quello della disponibilità, o meno, della vita. Della possibilità, o meno, di porvi fine al verificarsi di determinate condizioni.
Il sentiero è stretto e in salita. Certo, si può scegliere la via facile, accodandosi a una forza maggioritaria, a una tendenza dominante: la via del pensiero unico, insomma. Ma il rischio (ormai troppo spesso assunto con la stessa consapevolezza che restituisce uno sguardo bovino) è quello di ritrovarci in uno stato etico, finendo gli uni contro gli altri, in un assurdo quanto inutile duello rusticano. Serve allora rifuggire la marginalizzazione che passa dall’azzeramento della libertà individuale e tentare di restituire valore (e regole) al diritto all’autodeterminazione. E’ evidente che per farlo occorre essere mossi da una responsabilità collettiva. Ignorare i diritti è inutile e pericoloso. Occorre invece accendere una luce nuova. Tutti. A iniziare dal legislatore, che è chiamato a colmare un vuoto inaccettabile.
Si sa: l’assenza di regole alimenta le contrapposizioni perché dà a tutti la pia illusione di decidere per sé. E’ così che il fine vita è stato travolto dalla logica delle tribù. Ma allargare il campo dei diritti, e ancora prima, legittimare il diritto in sé, non può essere solo un atto di resistenza. Ha bisogno di una sua forza. E questa forza, a mio avviso, può arrivare solamente da una legge nazionale. Una legge che legittimi e regoli. Una legge che ponga fine alla parcellizzazione delle decisioni assunte a livello locale, perché i diritti non sono una gara. E’ trascorso molto, troppo, tempo dalla storica sentenza del 2019 con cui la Corte costituzionale ha stabilito quando l’aiuto al suicidio non è punibile. Oggi, come allora, il richiamo della Corte a farsi carico di una regolazione compiuta è rimasto senza esito. Il tempo è scaduto. Ma i diritti non aspettano. Maturano nelle volontà di tutti noi. Perché sì, forse potremmo anche dare ragione a Durkheim, ma nulla è eterno e immutabile, meno che mai “i modi di pensare e di agire esterni all’individuo”. A volerlo, a volerlo per davvero, cambiare si può. Serve coraggio, certo.
Federico Freni, sottosegretario di stato al ministero dell'Economia e delle Finanze