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(Ansa)
Imprese in subbuglio. “Transizione 5.0”, ovvero quando semplificare diventa complesso
I guai del provvedimento che avrebbe dovuto mettere in condizione l’industria italiana di affrontare in maniera combinata le due transizioni che hanno creato fratture profonde tra il governo e il ceto produttivo, la delusione della platea dei destinatari
La parola flop è di per sé ultimativa e non lascia speranze. Per questo motivo tutta la comunità industriale legata agli investimenti in macchinari la usa con somma moderazione. Ma più passano i giorni più è evidente come lo strombazzatissimo Transizione 5.0, il provvedimento che avrebbe dovuto mettere in condizione l’industria italiana di affrontare in maniera combinata le due transizioni, sta deludendo la platea dei destinatari. Infatti nonostante la dotazione di fondi che lo accompagna sia ricca (6,3 miliardi) le richieste a metà febbraio sono ancora ferme a 500 milioni, quindi sotto al 10 per cento. Ma come si spiega questo giallo in una fase in cui ci sarebbe bisogno come il pane di investimenti in innovazione? La spiegazione che danno gli imprenditori del settore è semplice: è stata una misura concepita da consulenti per essere gestita da altri consulenti. Sarebbe mancato in cabina di ideazione innanzitutto il coinvolgimento delle imprese, clamorosamente snobbate. Forse a giustificare quest’atteggiamento top down si era fatta strada l’illusione che dopo il successo di Industria 4.0 non ci fosse molto da inventare e che le autorità competenti avessero in mano tutte le informazioni giuste. Così non è stato e ancora oggi parliamo di richieste di chiarimenti che da Roma trovano una laconica risposta: “Aspettate le prossime Faq”. Quindi abbinare al processo di digitalizzazione anche fattori di sostenibilità e incrociarli con le informazioni necessarie si è rivelata un’operazione molto più difficile del previsto.
E comunque chi vuole difendere i ministeri sostiene che dopo il Superbonus tutti sono diventati più cauti e hanno disseminato nelle norme diritti di controllo da parte dell’Agenzia delle entrate.
Il primo casus belli riguarda il calcolo del consumo energetico e di conseguenza dei risparmi che si dovrebbe ottenere grazie all’immissione di nuovi macchinari. A questo calcolo è legato l’utilizzo del credito d’imposta ma la documentazione richiesta è stata letta dalla platea dei potenziali beneficiari come estremamente onerosa. L’attività di un macchinario, raccontano gli imprenditori, è legata a un numero indefinito di variabili e di condizionamenti, da qui la difficoltà di un calcolo esigibile. La risposta e l’indicazione ministeriale sono state quelle di “normalizzare il calcolo” ma le Pmi non hanno in casa le competenze necessarie per fare questo tipo di operazioni. Chiamate il consulente, è stata la replica arrivata da Roma. Peccato però che anche il mondo della consulenza sia rimasto in parte spiazzato e in difficoltà nell’elaborare risposte.
Tra gli adempimenti richiesti agli investitori spiccano le diverse comunicazioni al portale del Gse, da quella ex ante a quelle periodiche, da quelle ex post alla certificazione del bene. Ma, hanno obiettato i diretti interessati, come si fa a dimostrare di raggiungere lo stesso risparmio energetico lungo cinque lunghi anni? Dipende dai livelli di produzione, dalla programmazione dei lotti, da tutta una serie di decisioni che non sono preventivabili. E che per di più in sede di stesura del testo del 5.0 non erano affatto chiari. Al punto che lo stesso ministero è stato in difficoltà a rispondere.
Il risultato di questa complicazione documentaria è stato che gli imprenditori si sono attaccati al vecchio e stra-apprezzato 4.0 fino a farne un uso spropositato rispetto ai fondi stanziati con un tiraggio imprevisto (e che ha costretto per l’anno in corso a ridurli di ben 4 miliardi). A conti fatti, siccome il 5.0 non era cumulabile con altre incentivazioni, molte imprese infatti hanno preferito usare il 4.0.
In questa Babele di norme e di scelte d’impresa sono arrivate, ma solo a metà gennaio ’25, alcune direttive di semplificazione. Ad esempio se si sostituisce un impianto ammortizzato da più di 24 mesi si ha diritto al primo livello del credito di imposta senza documentare il risparmio energetico. Una misura apprezzata dalle associazioni di categoria ma che ha lasciato inalterato tutto il resto del quadro dei procedimenti burocratici non favorendo quindi quella ripresa del tiraggio che ci si aspettava. Non è tutto. Le nuove norme hanno lasciato irrisolti ancora degli altri nodi che riguardano il leasing o i processi di revamping dei macchinari. Sono ammessi o no agli incentivi? Per saperlo bisogna aspettare la Faq ma i tempi urgono. Ormai mancano dieci mesi alla chiusura del provvedimento fissata per il 31 dicembre ’25 e in un lasso di tempo così breve non si fa in tempo a ordinare una macchina, a produrla e a immetterla in azienda. E’ già quasi troppo tardi. Il rischio lo corre il made in Italy che produce macchinari molto sartoriali a differenza invece degli importatori che vendono macchine più standardizzabili e che quindi hanno meno problemi di tempi di confezione. Quasi una beffa per un provvedimento di politica industriale nazionale e pieno di buone intenzioni.