(Ansa)

Non c'è nulla di più ambiguo e pericoloso dei buoni propositi che piovono dall'alto

Tommaso Tuppini

Prolificano iniziative istituzionali che cercano di imporre un linguaggio "rispettoso", come quella dell'Università di Bari. Ma il cambiamento reale può avvenire solo spontaneamente attraverso l'esempio individuale, non tramite linee guida burocratiche

Una professoressa, un bel po’ di anni fa, entrò in aula e si rivolse ai presenti apostrofandoli al femminile, dicendo tutte invece di tutti, e studentesse invece di studenti. Fu un piccolo shock, una specie di happening situazionista, e chi c’era se lo ricorda ancora (la professoressa è Adriana Cavarero, lo racconta Giulia Siviero in Fare femminismo). All’università di Bari hanno deciso di percorrere altre strade, più sicure e battute: onde evitare spiacevoli equivoci, il Senato ha emanato le “Linee guida per l’adozione di un linguaggio ampio e rispettoso delle differenze”. In pratica, l’università ingiunge ai dipendenti di non dire “architetto” se è un’architetta, “medico” se è una medica e, a maggior ragione, non aprire i convegni con “buongiorno a tutti” se in sala – come è probabile – ci sono anche donne.

Niente è più ambiguo e pericoloso dei buoni propositi che piovono dall’alto. E nemmeno più vecchio. Il Novecento è pieno di esempi in cui lo Stato ha dettato regole per migliorare il linguaggio. Nella sua lotta contro i forestierismi, il fascismo trasformò il cognac in arzente e il cachet in cialdino. In un accesso di zelo copernicano, alcuni bolscevichi volevano vietare di dire che il sole tramonta. Negli anni Sessanta, il Partito comunista cinese sostituì “proprietario terriero” con “nemico del popolo”. Le intenzioni sono sempre lodevoli: difendere l’integrità del lessico italiano, oppure la verità della scienza, oppure alzare il velo sulle ingiustizie della società classista. Nel caso che ci interessa: riconoscere la pari dignità dei due sessi. Il problema è che il linguaggio non si lascia governare a colpi di linee guida senatorie. Se il potere può modellare i corpi con relativa facilità, il linguaggio è un altro paio di maniche: sfugge, si deforma, si reinventa in modo spontaneo. I corpi sono parzialmente inerti e apatici, sono malleabili, non oppongono troppa resistenza ai comandi. Le parole invece sono come l’argento vivo, scappano in tutte le direzioni, e affannarsi per metterle in riga è utile quanto le mamme che in spiaggia strillano raccomandazioni ai figli rompiscatole.


Un professore o uno studente o un bidello, se vuole davvero cambiare le cose, riesce a farlo molto meglio da solo, di propria iniziativa: quando il suo esempio è buono, gli altri lo seguiranno, sennò no. Non è necessario avere le spalle coperte dalla manona della burocrazia accademica, che trasforma in piombo ciò che tocca. C’è una storiella che può dirci qualcosa. A un contadino, noto alcolista, tocca fare il servizio militare. In caserma è affissa una targa dove legge che l’alcol instupidisce l’uomo e lo trasforma in una bestia. Allora il contadino capisce perché gli piace bere. La bonifica delle paludi linguistiche rischia di ottenere un effetto opposto a quello desiderato: più si cerca di purificarle, più le si inquina. È sicuro come l’oro che le linee guida baresi per un linguaggio rispettoso saranno prese a modello da tutte le università italiane ma ho paura che il risultato più immediato sarà un’inflazione di scritte irrispettose nei bagni delle suddette università. Le parole non hanno bisogno di balie iperprotettive. Crescono meglio allo stato brado. Appena gli si mette addosso le bretelle, puntano i piedi, diventano paonazze e fanno l’esatto contrario di quello che gli abbiamo chiesto.

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