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L'intervista
Pupi Avati: "Magistrati e artisti si spalleggiano contro la riforma Nordio per vanità e conformismo"
Il regista: "Quello dell'artista è un mestiere servile. Molti scrittori in piazza sono ex giudici, a riprova della vanità dell'artista. La riforma? Mi auguro che passi e che le carriere vengano separate"
Roma. “Il giudice. Ma come fa un bambino a voler diventare giudice? Come fa a voler distruggere, magari con tutte le ragioni, la vita di chi viene condannato? Non lo comprendo, e sarà un mio limite. Ma a parte questo — dice — sono convinto si debbano separare le carriere dei giudici e dei pm. E sono fiducioso che la riforma passi”. Dopodiché aggiunge: “Che i magistrati in Italia non paghino mai, che siano animati da un senso di impunità, fa di noi un paese del terzo mondo”. E dunque s’intende che non sarebbe mai sceso per strada, Pupi Avati, né da vecchio né da giovane. Né a Roma, in piazza Cavour, né a Bologna, in via Farini. Mai si sarebbe aggregato al codazzo di attori, scrittori, registi che giovedì protestavano contro la riforma della giustizia del ministro Carlo Nordio.
“Questa insistenza di non cedere mai nulla nasconde qualcosa di cui, con tutta evidenza, i magistrati verrebbero privati. Quanto agli artisti, mi colpisce che alcuni di loro siano ex giudici”. Ci vorrebbe una separazione delle carriere, tra penne e toghe? “Mah. E’ difficile. Io penso che chi scrive, dirige o recita sia quasi per natura servile”. Ma in piazza c’erano Gianrico Carofiglio, Antonio Albanese, Donatella Di Pietrantonio. E poi Dacia Maraini, Giancarlo De Cataldo. Letterati sicuri che la cultura serva appunto a non servire. “Io penso invece che il servilismo contraddistingua chi fa questo mestiere”. Lei dice? “Tutti i signori che lei mi elenca sono in piazza perché si sentono vezzeggiati. Se vuole le racconto un aneddoto, così magari c’intendiamo”. Prego. “Trent’anni fa, nel pieno di Mani Pulite, io ero un berlusconiano che detestava i magistrati eroici e battaglieri. Ecco, un giorno, su un treno da Milano per Roma, solo con i miei libri, vedo sfilarmi accanto i magistrati Borrelli e Ielo. Brivido. I due mi chiedono di entrare per fumare una sigaretta, proibita nel loro scompartimento. Orrore. Io però li faccio entrare. A un certo punto mi accorgo che parlano di me, e sto zitto. Sinché uno dei due dice all’altro: ‘Presidente! Lei non ha capito con chi stiamo viaggiando! Lui è Pupi Avati! Il regista di quel capolavoro, La casa dalle finestre che ridono!’. Scoppiamo a ridere pure noi. Io m’innamoro di loro. Loro s’innamorano di me. Diventiamo amiconi”.
E’ così che funziona? Gli artisti come Dacia Maraini scrivono epistole all’Anm per reciproco incanto? E’ tutta una danza? “E’ un fatto di vanità. Che è l’essenza dell’artista. Tu, dell’artista, puoi essere il peggior nemico. Ma basta un complimento. Basta una carezza. E te lo ritroverai pronto, prono, genuflesso per terra a baciare la tua pantofola. Abbiamo questa debolezza di fondo, che è sorprendente”. Basterebbe accarezzarli per far loro cambiare idea? “Credo di sì. Poi, certo: c’è un tema di conformismo”. Conformismo per cui ritrovarsi sotto la Cassazione è un po’ come andare al suo “Bar Margherita”, ma della cultura italiana? “Sono automatismi. Io mi occupo di altro. Di cinema”.
Maestro Avati, si può essere vanitosi senza essere conformisti? “Sì. Ma si paga un prezzo. A casa di Laura Betti, tanti anni fa, dissi di fronte a Moravia, Pasolini, Bellocchio, Bertolucci, Siciliano che io votavo Dc. Fu necessario, per me, per essere emarginato. Perché l’emarginazione è fondamentale per coltivare una propria identità. Anche se poi, in prossimità dei titoli di coda, ti rendi conto che l’identità costa”. Altresì paga. O no? “Paga perché voi, così giovani, chiamate me che sono vecchio”.
Da vecchio e grande moralista cattolico cosa pensa, umanamente, dei giudici italiani? “Certe professioni mi spaventano. Diego Abatantuono dice sempre: ‘Come fa un bambino a voler diventare arbitro, necroforo, giudice?’. Io capisco che alcune professioni siano utili al proprio mantenimento ma preferisco fare il regista cinematografico. Io vivo di dubbi e incertezze. Non di convinzioni e sentenze. Se fossi giudice assolverei tutti. Ma lo farei per me”. Per amor proprio, come scriveva Pascal? “Per la mia quiete interiore. Del resto, non potrei mai avere amici magistrati, che mi pare siano tutti amici tra loro, senza amici nel mondo reale”. Ha avuto particolari esperienze con la magistratura italiana? “Fui condannato a risarcire una testata giornalistica che mi accusava di aver assunto mia figlia a Cinecittà, quand’ero presidente. Denunciai penalmente e civilmente. Il magistrato, con una fretta deprecabile, mi condannò. Derubricando l’accusa a ‘satira’. Attesi otto ore fuori dall’aula perché il giudice era in ritardo. Fu disumano. Pagai le spese legali mie e degli altri. Io ho provato a chiedere ad alcune persone che fanno quel lavoro in ambito penale: ‘Ma tu, tu che oggi hai condannato un ragazzo all’ergastolo, poi vai a cena?’”.
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Verso la rinascita