
Foto ANSA
La sacra liturgia
Cosa resta dell'8 marzo
Le scritte, a Roma, sui muri di via Labicana dopo il corteo transfemminista. #Cuoricini
Ieri, attraversando via Labicana – quello stradone romano che si snoda tra San Giovanni e il Colosseo, dove il traffico sembra un castigo divino e l’asfalto un sadico esperimento urbanistico – ci siamo imbattuti nei resti della sacra liturgia dell’8 marzo. Non parliamo di un corteo, sia chiaro: i cortei, quelli veri, li facevano le femministe degli anni Settanta, con le bandiere e un’idea in testa. Qui si tratta di un rito pagano, una processione trans-femminista che, come ogni anno, lascia dietro di sé non un’eco di pensiero, ma una scia di vernice spray e slogan che sembrano usciti da un generatore automatico di indignazioni. I muri, in parte ripuliti con i soldi del superbonus – quel miracolo all’italiana che trasforma il debito pubblico in intonaco fresco – sono stati consacrati dalle nuove vestali del pennarello. “Fuoco ai Cpr”, recita la scritta di chi sa che il fuoco è sempre un buon argomento. “Provita in fiamme”, aggiunge un’altra, perché niente dice “pace e sorellanza” come un bel rogo purificatore. Poi c’è “Ne machismo ne giustizia patriarcale” – senza accenti, ché la rivoluzione non ha tempo per la grammatica – e un misterioso “Afa”, che potrebbe stare per “Associazione Femministe Arrabbiate” o, più probabilmente, per l’afa che opprime Roma d’estate.
Non mancano i colpi di genio: “Ace”, che immaginiamo sia un omaggio al succo di frutta, simbolo di una ribellione dissetante, e “non c’è Lgb senza T”, un monito che suona come il regolamento di un club esclusivo scritto sul muro di un bagno pubblico. E poi, inevitabile come la pioggia a novembre, “Free Palestine”: non c’entra nulla, ma guai a organizzare una manifestazione senza quel passepartout dell’impegno prêt-à-porter. Alla fine, queste scritte diventano l’unica eredità tangibile di una manifestazione che cerca di cambiare il mondo un muro – di via Labicana s’intende – alla volta. Ogni graffito diventa una foto, che diventa un post, che diventa un cuoricino virtuale su Instagram. Tipo la canzone dei ComaCose a Sanremo. Questo è alla fine l’8 marzo. Scordatevi Simone Weil o Audre Lorde: “Cuoricini”, ecco. Un ciclo infinito di espressioni effimere che, nella loro vacuità labicanea, lasciano un segno più duraturo del messaggio stesso. Ma solo perché a Roma i muri il Comune non li pulisce mai.