Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Perché Di Maio sbaglia tutto sul deficit

Lorenzo Borga

Il vicepremier cita i casi di Portogallo e Francia. Ma a Lisbona è stato proprio il deficit elevatissimo a portare il paese alla bancarotta. E a Parigi l’aumento riflette solo lo slittamento temporale di alcune uscite ed entrate di bilancio

Il governo di Giuseppe Conte ha deciso di triplicare il deficit previsto per il 2019, portandolo dallo 0,8 per cento del pil al 2,4. Una decisione che inverte bruscamente la rotta della sostanziale riduzione cominciata nel 2012, acclamando la decisione dal balcone di Palazzo Chigi, come una “rivoluzione” e il preludio per una “manovra del popolo”, che sacrificherà “i privilegi e gli interessi dei potenti per mettere al primo posto i cittadini”. Così si dice, con la solita narrazione anti establishment. Ma sulla base di quali informazioni è stata presa una decisione tanto importante? Evidentemente non sulla base dei suggerimenti del ministro competente, Tria, che non è stato ascoltato. Un indizio ce lo offrono due dichiarazioni di Di Maio, a proposito delle decisioni in materia prese da alcuni partner europei in condizioni simili al nostro paese. La prima è sul Portogallo, la seconda sulla Francia. Un pronostico sulla loro correttezza: sono entrambe informazioni fuorvianti e scorrette, e probabilmente hanno contribuito a rafforzare le convinzioni dei membri del governo.

 

Portogallo

E’ stata la cura estrema conseguente alla crisi che ha rilanciato l’economia portoghese, puntando sulle esportazioni e su una crescita sostenibile e ottenuta senza scontri con i mercati e l’Unione europea. Il paese ha dimezzato negli anni post crisi il tasso di disoccupazione e ha un tasso di crescita superiore al 2 per cento

“Il tema non è tanto il deficit, ma le misure per far crescere il pil. Il Portogallo è arrivato ad avere un rapporto tra deficit e pil del 7 per cento, ma ha abbassato il debito grazie alla crescita”. Secondo il leader del Movimento 5 stelle il Portogallo sarebbe un caso modello su come un paese europeo può crescere attraverso la spesa pubblica in deficit. Per corroborare la sua teoria, cita il fatto che il paese avrebbe raggiunto perfino il 7 per cento di deficit (2011), grazie al quale oggi gode di un debito in diminuzione e di un buon tasso di crescita.

 

Come ha spiegato Carlo Cottarelli sul Foglio, il Portogallo tra il 1995 e il 2008 ha conosciuto una crescita dell’economia trainata dai bassi tassi di interessi dovuti all’ingresso nell’Euro e al debito privato e pubblico. Crescita stoppata dalla crisi del 2008, che portò Lisbona a dichiarare lo stato d’insolvenza e chiedere l’intervento della Troika nel 2011, per 78 miliardi, quando nessun altro investitore era più disposto a finanziare il maxi debito lusitano. E’ proprio l’anno in cui il deficit del Portogallo è cresciuto fino al livello citato da Di Maio (7,4 per cento del pil). Tra il 2010 e il 2011 il debito pubblico in percentuale al pil è cresciuto di quasi 30 punti percentuali, mentre il paese rientrava in recessione perdendo 5 punti di pil rispetto ai livelli pre-crisi. Il modello portoghese, che nel 2017 ha raggiunto una crescita economica considerevole assieme al calo del rapporto debito/pil e della disoccupazione, è semmai l’emblema di come si possa trovare una sintesi virtuosa tra le istanze dell’austerity (quella vera, applicata alla vita quotidiana dei portoghesi) e politiche che mirano all’equità e alla crescita economica. Lo stato lusitano infatti dopo aver subito le pesanti riforme imposte dalle istituzioni internazionali – tagli alle pensioni, ai salari dei dipendenti pubblici, aumento dell’Iva, privatizzazioni – è riuscito a recuperare competitività internazionale. La domanda interna ridotta e i bassi salari hanno infatti rilanciato le esportazioni e il turismo internazionale, migliorando la bilancia commerciale e rilanciando la crescita economica, ripartita nel 2014. Finita la gestazione della Troika il governo portoghese, guidato dalla sinistra di António Costa, non ha portato avanti una damnatio memoriae delle politiche di austerità: si è limitato ad alleggerire i vincoli di domanda interna, aumentando il salario minimo e le pensioni.

 

Se vogliamo trarre una lezione dall’esperienza portoghese, questa è opposta a quanto sembra suggerirci Di Maio: l’elevatissimo deficit in Portogallo ha portato il paese alla bancarotta e alla perdita della credibilità internazionale; è stata invece la conseguente cura estrema che ha rilanciato l’economia, puntando sulle esportazioni e su una crescita sostenibile e ottenuta senza scontri con i mercati e l’Unione europea. Oggi il Portogallo esprime – con Mário Centeno – il presidente dell’Eurogruppo, ha dimezzato negli anni post crisi il tasso di disoccupazione, ha un tasso di crescita superiore al 2 per cento e ha ridotto il debito pubblico. Risultati ottenuti con una strategia opposta a quella intrapresa con il consiglio dei ministri di giovedì notte dall’Italia.

 

Francia

“La Francia per finanziare la sua manovra economica farà un deficit del 2,8 per cento. Siamo un paese sovrano esattamente come la Francia. I soldi ci sono e si possono finalmente spendere a favore dei cittadini. In Italia come in Francia”. Da questa dichiarazione rilasciata da Di Maio al Fatto Quotidiano è nato un caso: per alcuni giorni il dibattito si è concentrato sui motivi per cui la Francia si fosse presa il rischio di aumentare in modo tanto netto il proprio deficit, già storicamente alto (nel 2017 per la prima volta sotto il tre cento da molti anni, al 2,6). La narrazione sovranista di Di Maio era chiara: se l’Italia è un paese sovrano come la Francia, possiamo anche noi permetterci un deficit almeno altrettanto elevato, evitando di insistere su una linea apparentemente ormai sconfessata anche dal più europeista dei governi nazionali. Gran parte dei commentatori si sono divisi sul frame imposto dal Movimento 5 Stelle, concentrandosi sul ben più elevato spread italiano rispetto a quello francese, mentre solo pochi hanno saputo bucarlo attraverso una semplice spiegazione di cosa sta accadendo in Francia.

 

L’aumento del deficit pubblico francese riflette un semplice slittamento temporale di alcune uscite ed entrate di bilancio, in particolare due. La prima modifica è stata sul credito di imposta per le imprese (Cice) che diventa dal prossimo anno uno sgravio fiscale strutturale: ciò significa che se fino ad oggi le imposte venivano pagate dalle imprese per poi essere rimborsate dallo stato l’anno successivo, dal 2019 in avanti le società godranno di uno sgravio fiscale diretto. Questa modifica tecnica farà venire a mancare parte del gettito, per il solo 2019, mentre si avrà per l’ultima volta il rimborso delle imposte pagate nel 2018.

 

La seconda modifica consiste invece nell’introduzione della ritenuta alla fonte (fino ad oggi in Francia anche i dipendenti pagavano le tasse autonomamente), che farà slittare da dicembre a gennaio circa 6 miliardi di entrate erariali. Senza tali modifiche tecniche il deficit sarebbe sceso all’1,9 per cento, un livello molto basso per la Francia. Un dato dimostrato dal fatto che per l’anno successivo, il 2020, è comunque previsto un livello di indebitamento all’1,4 per cento. Bisogna inoltre tenere a mente che, al netto dell’aumento del deficit nominale, la Francia l’anno prossimo ridurrà il deficit strutturale – cioè quello depurato dalle spese che si ripetono un solo anno, come le modifiche al sistema fiscale francese – di alcuni punti decimali, sebbene meno di quanti previsti dagli accordi europei (la flessibilità, remember?). L’Italia invece, con la decisione del 2,4 per cento, peggiora il proprio saldo strutturale dello 0,7 per cento, quando un anno fa aveva preso l’impegno di migliorarlo dello 0,7: uno scarto di quasi un punto e mezzo percentuale, ben diverso dal caso francese! Come dimostrato, bastano alcuni numeri – così poco amati (e forse poco compresi) da Luigi Di Maio – per comprendere lo scarto del caso italiano da quello francese.

 

Emettendo nuovi titoli di debito il sovranismo lascia l’Italia nelle mani dei mercati e della finanza internazionale. Cede sovranità ai creditori e mette a rischio in particolare i più deboli. Aumenta così il rischio di speculazione sul nostro debito, che il governo afferma di voler ridurre in confronto al pil

La narrazione di una “manovra del Popolo”, con la P maiuscola, sarà quella che il Governo tenterà di imporre al dibattito pubblico nei prossimi mesi. Si proverà a far credere che per la prima volta una legge di bilancio viene scritta a favore dei cittadini piuttosto che di classi sociali privilegiate. E’ il populismo, bellezza: esaltare in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Un popolo che potrà beneficiare di una manovra a favore di tutti, senza perdenti (se non le élite, talvolta rappresentante nei banchieri, talvolta nei petrolieri). Una visione che sconfessa tutta la letteratura economica e di scienze politiche degli ultimi secoli sulla scarsità delle risorse, sul compromesso tra diversi bisogni e priorità che si escludono l’un l’altro (i trade-off), sui costi dell’azione politica. Per questo non si sceglie la via della revisione della spesa per finanziare le costose promesse elettorali: per finanziare la pensione di cittadinanza non si razionalizzano i numerosi strumenti contro la povertà esistenti per gli anziani, inefficienti e talvolta iniqui, per finanziare la flat tax non si cancellano le tantissime tax expenditures a favore di ridotte categorie e classi sociali, frutto di forti lobby (il Governo a parole le odia, ma non manca una conferenza di Coldiretti; strano ma vero). Per questo si ricorre al deficit, affermando che i “soldi ci sono”: una contraddizione in termini.

 

Parte delle opposizioni all’attuale governo tenta di opporsi a questo disegno invocando il vincolo esterno: l’Unione europea, lo spread, le agenzie di rating. Si spera nell’incidente, nella pressione internazionale, per evitare una legge di bilancio tanto rischiosa. Probabilmente non è la strategia migliore: né dal punto di vista comunicativo, né tanto meno per il futuro del nostro paese. Invece, una via alternativa è spiegare la contraddizione del sovranismo e del suo debole per il debito. Emettendo nuovi titoli di debito il sovranismo lascia l’Italia nelle mani dei mercati e della finanza internazionale. Cede sovranità ai creditori e mette a rischio in particolare i più deboli. Aumenta così il rischio di speculazione sul nostro debito, che il governo afferma di voler ridurre in confronto al pil. Evidentemente i suoi sostenitori ignorano che nessun paese al mondo ci è mai riuscito incrementando il deficit.

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