Piazza San Marco a Venezia, circa 1952 (GettyImages)

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Bene il turismo, ma non è il nostro petrolio

Lorenzo Borga

Bassa produttività, bassi investimenti, bassi salari: difficile fondare la crescita economica del paese su questo settore. Anche se rappresenta oltre il 5 per cento del pil e conta 1,4 milioni di occupati

Come ogni estate non manca chi commenta i numeri degli arrivi turistici con il classico adagio: “il turismo è il petrolio italiano”. Ci sono tutti all’appello: l’ultimo a dichiararlo in ordine di tempo è stato Matteo Salvini (a proposito di Alitalia), e prima di lui ne avevano parlato il ministro dell’agricoltura e del turismo Gian Marco Centinaio e Luigi Di Maio. D’ispirazione forse è stato Flavio Briatore, che da anni teorizza un’economia fondata sul turismo, in particolare di lusso. A favorire la diffusione di queste proposte sono anche parole come quelle di Oscar Farinetti, che sostiene l’Italia detenga il “70 per cento del patrimonio artistico al mondo” e il maggior grado di biodiversità sulla Terra, frasi smentite dal fact-checking de Lavoce.info.

 

Potremmo fondare la crescita economica italiana solo sul turismo, soprattutto dall’estero? Il sottointeso è che in realtà oggi sfruttiamo troppo poco l’attrattività del nostro paese. In molti lo teorizzano, tanto che è diventato uno di quei luoghi comuni da spendersi con i parenti alla terza portata del pranzo di Ferragosto. Il motore di ricerca di Google Italia suggerisce di completare la ricerca delle parole “turismo petrolio” con “dell’Italia”, segno che anche l’interesse degli utenti è considerevole. Via le industrie e via le fabbriche, da lasciare ai cinesi, e teniamoci alberghi, bed and breakfast e l’agroalimentare (non a caso, altro settore spesso compreso tra il “petrolio”). Una soluzione facile per risollevare le sorti economiche del nostro paese e trovare lavoro a molti disoccupati. Ma sarebbe questa una via sostenibile, magari non da subito ma nel lungo periodo, per la crescita economica del nostro paese?

 

Turismo come il petrolio?

Secondo l’Istat il turismo rappresenta oltre il 5 per cento del Pil e poco più del 6 per cento dei lavoratori occupati, con circa 1,4 milioni di addetti. Rispetto al resto del mondo si tratta di percentuali elevate, inferiori tra i paesi più importanti solo a Grecia e Portogallo e a pari merito con la Spagna. Per sgomberare subito il campo dall’assurda associazione tra petrolio e turismo, si tratta comunque di valori molto distanti rispetto all’importanza che ha il petrolio nei paesi esportatori di combustibili fossili. Secondo i dati della Banca mondiale in Iraq l’estrazione di petrolio rappresenta quasi il 38 per cento del valore dell’economia nazionale, in Libia e in Congo il 37, nella ricca Arabia Saudita il 23. Si dirà: ovviamente l’associazione è esagerata, come tutti i luoghi comuni. Certo, evidentemente lo è. Ma, perfino non prendendola alla lettera, non si dimostrerà fondata.

 

Bassa produttività, bassi investimenti, bassi salari

Il grande limite del settore turistico è infatti la scarsa produttività. Non è un settore che spinge sull’innovazione, né ad alto valore aggiunto (cioè il valore che si produce dalla produzione di un bene o di un servizio, tolto il costo dei fattori necessari per produrlo). Secondo l’Istat le attività relative ai servizi di alloggio e di ristorazione producevano nel 2016 (ultimi dati disponibili) valore aggiunto per addetto pari a circa 23mila euro all’anno.

 

Si tratta di uno dei valori più bassi tra i servizi - in cui la media è di oltre 40mila euro all’anno - e lontano anni luce dalle somme dell’industria, in cui il valore medio è pari a circa 3 volte tanto. La bassa produttività ha i suoi effetti negativi. Se si produce minor valore, più ridotti sono anche i salari: la torta è infatti più piccola e minori saranno dunque anche le fette tagliate e divise tra lavoratori (salari) e proprietà (profitti). Il turismo, in particolare i servizi di alloggio e ristorazione, presenta infatti il minor costo del lavoro (rappresentato in gran parte dallo stipendio) tra i servizi. A una conclusione simile arriva il report di Jobpricing realizzato per Il Sole 24 ore, che individua il turismo e l’ospitalità organizzata (hotel e strutture extra-alberghiere) tra i cinque settori in cui i lavoratori sono peggio retribuiti, rispettivamente il 10 e il 20 per cento in meno rispetto al salario medio. A contribuire negativamente potrebbero essere anche l’evasione e il lavoro nero, particolarmente frequenti nelle attività turistiche, ma non fino al punto di far scomparire il problema. Di nuovo a fondo classifica si trova il settore turistico per quanto riguarda gli investimenti: poco più di 2mila euro all’anno per addetto, meno della metà della media dei servizi e ancora una volta distantissimo dagli investimenti del settore manifatturiero (8mila euro all’anno per addetto).

 

Problema italiano?

Le ragioni di questa bassa competitività sono numerose. Le imprese sono di piccole dimensioni (5,4 addetti in media), anche per via dell’espansione delle strutture extra-alberghiere con dimensioni nettamente inferiori rispetto agli alberghi. Circa un terzo dei lavoratori del settore risultano a bassa qualifica, con al più un diploma di scuola media (secondaria inferiore), mentre i laureati sono solo il 10 per cento degli addetti. Anche la condizione contrattuale dei lavoratori è desolante: circa 1 lavoratore su 2 ha un contratto a tempo determinato, mentre la media europea è pari al 30 per cento. Con questi fondamentali il turismo non può rappresentare un elemento di crescita incisiva dell’economia italiana.

 

Da questi numeri si potrebbe desumere che il settore turistico italiano è arretrato rispetto alle sue potenzialità. In effetti sembra essere in parte così. Sebbene il numero di arrivi dall’estero sia aumentato negli ultimi anni, l’Italia ha dimezzato la quota di mercato rispetto ai paesi competitor, passando da più del 6 per cento del mercato turistico internazionale a poco più del 3. Un calo che ha coinvolto anche altre destinazioni turistiche mature, ma che è stato più incisivo per l’Italia che per altri paesi europei simili.

 

Ma i numeri su produttività, salari e investimenti non ci dicono solo questo. Anche in paesi europei in cui il settore turistico risulta più competitivo la condizione della produttività non è poi così differente. Come ha fatto notare il prof Michele Boldrin su un post di noisefromamerika.org, anche in paesi in cui il settore turistico è più sviluppato del nostro i salari degli addetti sono inferiori rispetto alla media dei servizi e a confronto del livello di tutta l’economia. Lo conferma anche il database di Eurostat: Spagna e Francia, che risultano più efficienti del nostro paese nel settore turistico, nel 2014 presentavano retribuzioni medie nel turismo di diverse migliaia di euro inferiori rispetto al resto delle attività produttive. A dimostrazione che la bassa produttività (e i bassi salari) tendono a essere un elemento caratterizzante del settore, e non solo nel nostro paese. Che senso avrebbe quindi puntare tutte le fiches dell’economia italiana sui servizi ai turisti? Sarebbe un all-in suicida.

 

Non è un caso quindi che a livello internazionale a più elevate porzioni di Pil derivanti dalle attività turistiche, misurate dal World travel and tourism council, siano associati livelli più bassi di Pil pro capite. In parole più semplici, all’aumentare dell’importanza relativa del turismo per le economie nazionali ci si imbatte in paesi progressivamente più poveri. Ovviamente ci sono anche altre ragioni che spiegano questa relazione negativa tra rilevanza del turismo e reddito degli abitanti, ma rimane significativo che tra i 15 paesi al mondo in cui il settore turistico è di maggiore importanza economica, solo 2 (Austria e Australia) rientrino nel 10 per cento degli stati più ricchi.

 

Il turismo fa crescere (poco)

La Banca d’Italia ha pubblicato un’interessante ricerca relativa al periodo tra il 1997 e il 2014, per misurare l’effetto della spesa dei turisti nelle province italiane sulla crescita del Pil. Il risultato è significativo in termini statistici, ma modesto sull’economia. Infatti i ricercatori hanno stimato che un aumento del 10 per cento della spesa turistica generi, in media, una maggiore crescita del Pil di circa 0,2 punti percentuali in un decennio. Molto poco.

 

È interessante inoltre confrontare il risultato sulla base dei punti di partenza delle province italiane prese in considerazione. L’effetto risulta maggiore per le province che partivano da bassi livelli di valore aggiunto pro capite e ridotti tassi di occupazione nel turismo, quindi soprattutto al sud. Nel centro-nord invece l’effetto della crescita della spesa turistica sul Pil è minore al risultato medio. Questo sembra significare che i ricavi dalle attività turistiche possono crescere, ma oltre una certa soglia la progressione riduce l’impatto positivo sul sistema economico. Come se esistessero – questa è l’ipotesi dei ricercatori della Banca d’Italia – fenomeni di congestione territoriale.

 

La contro-narrazione

Tutti i numeri sembrano dimostrare che no, il turismo non può essere il “petrolio” – cioè una risorsa su cui impiegare gran parte della struttura economica nazionale – per un paese avanzato come l’Italia. Una scelta simile, seppur caldeggiata dal senso comune, avrebbe ripercussioni estremamente negative sulla crescita e sull’occupazione. Se l’Italia vuole rilanciarsi nei prossimi anni, servono piuttosto investimenti in innovazione, maggiore capitale umano, la crescita dimensionale delle imprese e altre ricette che abbiamo imparato a conoscere dalle analisi degli esperti. Il “turismo-petrolio italiano” è solo l’ennesima ricetta di un paese allergico allo sviluppo economico, un facile alibi per evitare le riforme di cui avremmo bisogno. Una vera sventura anche per lo stesso settore turistico italiano: l’enorme ricchezza che il nostro territorio e la nostra storia ci offrono sembrano la scusa perfetta per ritardare ancora gli investimenti utili a rendere efficiente il sistema turistico, che in alcune regioni della penisola lascia ancora decisamente a desiderare.

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