Perché le clausole di salvaguardia non sono tutte uguali
Soluzioni provvisorie e strutturali per scongiurare l'aumento dell'Iva: come si sono comportati i governi dal 2011 a oggi
Sentiamo parlare di clausole di salvaguardia da anni, eppure ai più risulta ancora un argomento poco comprensibile. Dal 2011 i contribuenti italiani hanno vissuto l’angoscia della spada di Damocle dell’aumento previsto Iva e accise dall’inizio dell’anno successivo. Il fatto che sia un aumento di tassazione previsto per l’anno dopo, e che nella gran maggior parte dei casi non si sia concretizzato, lo ha reso un argomento poco percepibile e comprensibile agli occhi dei non-addetti ai lavori. Come spesso accade, alla confusione del pubblico si aggiungono semplificazioni e vere e proprie mistificazioni della realtà da parte di alcuni organi di informazioni e attori politici, che contribuiscono a offuscare l’orizzonte della realtà. E così per l’elettore-contribuente diventa sempre più complicato attribuire le responsabilità politiche delle clausole di salvaguardia e dei possibili incrementi di tassazione. Un problema serio per una democrazia rappresentativa in cui governi e legislature durano (molto) meno del previsto e dunque l’orizzonte della politica è irrimediabilmente a breve termine: i partiti sono tentati di posticipare il pagamento dei conti di qualche anno, per mostrare risultati concreti e immediati all’elettorato senza interessarsi più di tanto delle coperture future.
Particolarmente problematica è la narrazione – diffusa tra tutto lo schieramento politico – secondo la quale tutti gli ultimi governi si sono comportati allo stesso modo. Eppure, seppur il pessimismo sulle scelte economiche degli esecutivi possa essere giustificato, questo non è vero. Anzi, non riconoscendo meriti e demeriti specifici di ogni esecutivo si rischia di livellare i comportamenti politici verso il basso e non incentivare scelte virtuose sui conti pubblici.
La crono-storia delle clausole
Prima di tutto, un breve excursus sulla storia delle clausole. Chi le ha introdotte per la prima volta? Una buona domanda per cominciare a chiarire le responsabilità politiche. L’invenzione è da attribuire all’ultimo governo Berlusconi nel corso della burrascosa estate del 2011: se l’esecutivo non avesse raccolto almeno 4 miliardi di tagli allo stato sociale nel giro di un anno e 16 in quello successivo, si sarebbero dovuti tagliare per lo stesso ammontare le agevolazioni fiscali. L’anno successivo, il governo Monti riuscì a disinnescare circa due terzi degli aumenti preventivati, con tagli di spesa e aumenti di tassazione, mentre i restanti quasi 7 miliardi li lasciò in eredità all’esecutivo di Letta.
Celebrate le elezioni politiche del 2013, l’esecutivo riuscì a posticipare di qualche mese l’aumento previsto, che tuttavia scattò definitivamente in ottobre dello stesso anno: Iva al 22 per cento e governo a casa. Anche Enrico Letta fu però costretto a lasciare in eredità qualche aumento futuro: 3 miliardi per il 2015, 7 per il 2016 e 10 per il 2017, qualora la spending review non raggiungesse gli obiettivi previsti (ma dai?). Poi arrivò Renzi, che da una parte sterilizzò parzialmente i miliardi lasciati da Letta, ma con l’altra mano impose importanti nuovi aumenti: quasi 13 miliardi nel 2016, 19 nel 2017 e 22 nel 2018. È in questo momento che le clausole di salvaguardia, dopo un primo periodo in cui furono tenute sotto controllo grazie a misure restrittive e il parziale aumento dell’Iva, presero il sopravvento.
Con la legge di bilancio 2016 si ridussero in parte gli aumenti previsti, ma rimasero sul piatto ancora 15 miliardi per il 2017 e quasi 20 per il 2018, che l’anno successivo vennero soltanto posticipati. Poi è arrivato il governo Gentiloni, che attraverso la correzione di bilancio di metà 2017 ha racimolato qualche miliardo per coprire le clausole, fissandole a 12 miliardi e mezzo per il 2019, 19,2 nel 2020 e 19,6 nel 2021. E arriviamo al Conte 1, che dopo aver previsto nella prima versione della legge di bilancio l’azzeramento dell’aumento Iva per il 2019 e la riduzione degli incrementi calendarizzati per i prossimi anni, dopo la negoziazione con la Commissione europea ha deciso di tornare sui suoi passi e aggiungere nuove clausole. Risultato: +4 miliardi sul 2020 (quelli che il Conte 2 sta affrontando in queste settimane) e +9,2 per il 2021.
Le responsabilità politiche
A partire da questa complessa crono-storia, simile alla trama di una soap opera alla Beautiful, possiamo attribuire alcune responsabilità politiche. La prima clausola di salvaguardia fu inserita dall’ultimo governo Berlusconi nel 2011. Risolta la prima, una seconda clausola - più limitata - è stata firmata dall’allora presidente del Consiglio Enrico Letta. A più che raddoppiare l’ordine di grandezza è stato Matteo Renzi tra il 2015 e il 2017. Infine il primo governo Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, oltre alla sterilizzazione annuale si è limitato ad aggiungere alcuni miliardi per gli anni successivi senza tagliarne alcuno. Come è chiaro, spesso i governi si sono comportati in maniera differente l’uno dall’altro e non tutti si possono mettere sullo stesso piano. Senza dimenticarci le diverse condizioni economiche del paese nei periodi in cui sono stati in carica.
Le differenze sono ancora più palpabili aggregando i numeri a disposizione. Il centrodestra nel 2011 impose 40 miliardi di clausole da pagare nel giro di tre anni, mentre il governo Monti non risulta averne aggiunta alcuna. Successivamente Enrico Letta introdusse 20 miliardi da pagare nel giro di tre anni, mentre Matteo Renzi lasciò al suo successore un’eredità pari a quasi 90 miliardi per il quadriennio successivo. Paolo Gentiloni nel 2017 le limitò a 51 miliardi, ma il primo esecutivo Conte decise che più o meno la stessa cifra sarebbe stata ripagata non più nel giro di tre anni bensì in due. A questi numeri va aggiunta una specifica fondamentale: le somme da pagare nel corso di più anni non sono tutte strutturali, cioè non interamente vanno finanziate per intero per sempre. Ad esempio, Renzi lasciò in eredità al governo successivo quasi 20 miliardi per il primo anno, e poi poco più di 23 per i tre anni a seguire. Se tuttavia Gentiloni fosse riuscito a coprire la prima ventina in modo strutturale – cioè con tagli di spesa o aumenti di entrate fissi ogni anno – l’anno successivo il conto si sarebbe ridotto a circa 4 miliardi, e anche gli anni dopo. Il problema, come spiegato nelle prossime righe, è che la copertura strutturale delle clausole è fatto raro.
Come disattivare le clausole
Abbiamo scoperto quali governi hanno avuto maggiori responsabilità sull’introduzione di nuove clausole Iva, ma manca ancora un’informazione fondamentale: questi aumenti previsti, come sono stati scongiurati? Come già accennato, dalla risposta a questa domanda dipende la stabilità delle disattivazioni. Nel caso il finanziamento sia provvisorio (maggiore deficit, entrate una tantum nel bilancio dello stato o tagli di spesa solo temporanei), lo stesso aumento dell’Iva si ripresenterà l’anno successivo e il problema sarà solo rimandato. Se invece i governi evitano gli incrementi di aliquota attraverso stanziamenti strutturali, la stessa somma sarà tagliata anche per gli anni successivi.
A questo proposito, per capirci meglio, vengono in aiuto i numeri pubblicati in una nota del centro studi di Confindustria, firmata da Fontana, Montanino e Scaperrotta. Sulla base degli stessi numeri anche Sky Tg24 ha pubblicato un grafico interessante. Scopriamo così che anche sul finanziamento degli aumenti troviamo una tendenza abbastanza chiara. Nel periodo tra il 2012 e il 2014 quasi la totalità dei balzelli attesi sono stati coperti in modo strutturale, per sempre. Nel caso di Monti arriviamo al 93,5 per cento, mentre con Letta al 100 per cento (tenendo conto dell’aumento di aliquota dal 21 al 22). Dal 2014 in poi la musica è invece cambiata: Renzi ha disinnescato strutturalmente solo il 17 per cento degli aumenti, Gentiloni il 44 e il primo governo Conte ha raggiunto l’impietoso risultato di coprire tutti gli aumenti in deficit, senza alcuna risorsa strutturale per evitare che lo stesso problema si ri-presentasse l’anno successivo. Anche su questo fronte, altrettanto fondamentale rispetto al tema delle nuove clausole, le responsabilità politiche appaiono chiare leggendo le percentuali: sulla base di questi numeri né Matteo Renzi può ergersi a paladino contro gli aumenti dell’Iva – essendo stata la sua maggioranza causa di clausole e di soluzioni temporanee – né i componenti della precedente maggioranza gialloverde possono difendersi dalle accuse sostenendo di essersi comportati come chi li ha preceduti. Hanno fatto peggio, aumentando le imposte previste e senza trovare soluzioni stabili all’eredità che avevano ricevuto.
E il Conte 2?
Avendo chiari crono-storia e numeri, risulta meno arduo valutare le decisioni che il secondo governo Conte comunicherà tra poche settimane in legge di bilancio. Purtroppo nell’aggiornamento del Def non vengono specificate le intenzioni delle maggioranza su nuove eventuali clausole, né sulle modalità di finanziamento di quelle esistenti. Il ministro Roberto Gualtieri nelle interviste degli ultimi giorni ha però affermato che – oltre a disinnescare completamente l’aumento previsto di 23 miliardi per il 2020 – l’esecutivo intende dimezzare il peso fiscale per il 2021, fissato oggi a 28 miliardi. Ridurre del 50 per cento la clausola futura, a condizione però che non se ne aggiungano di nuove, sarebbe un buon viatico per liberarci definitivamente di questo meccanismo infernale. Nate su suggerimento dell’Unione europea per rendere le promesse di sostenibilità dei conti pubblici più credibili nel futuro, oggi le clausole di salvaguardia sono l’esatto opposto: fonte di incertezza per tutti i contribuenti e limiti all’azione dei governi, che sono obbligati a impiegare due terzi delle manovre di bilancio per evitare aumenti di tassazione imposti negli anni precedenti. Tanto che la Commissione europea da alcuni anni ha deciso di non conteggiare più nelle proprie stime gli incrementi di Iva previsti e poi (quasi) sempre disinnescati, da quanto poco sono credibili. Sarebbe ora di liberarsene una volta per tutte. Nell’attesa, meglio non farsi abbindolare dal politico di turno.