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Partite Iva. Se il sostegno non è mai abbastanza
Molte le critiche al decreto del governo che ha stanziato 11 miliardi di aiuti. I numeri dicono altro
Il governo Draghi nel decreto Sostegni ha stanziato circa 11 miliardi di euro per gli aiuti alle partite Iva. Si tratta, con qualche modifica, di una riedizione dei ristori targati Giuseppe Conte. Benché il provvedimento sia stato approvato in ritardo (fa infatti riferimento alle perdite subite dagli imprenditori nel 2020, più di tre mesi fa), lo stanziamento supera da solo i 10 miliardi di ristori pagati fino a gennaio dei precedenti provvedimenti.
Ma il decreto ha comunque sollevato molti malumori da parte delle partite Iva. Le critiche principali sono state due. La prima riguardo agli importi. L’aiuto economico può arrivare fino al 5 per cento del calo di fatturato raggiunto nel 2020 rispetto all’anno prima. Si va da un minimo di 1.000 euro fino a 150 mila euro per le società più grandi. Così una piccola partita Iva, che nel 2019 aveva fatturato 90 mila euro e l’anno scorso soltanto 40 mila, riceverà 2.500 euro di aiuti. C’è chi ritiene però siano troppo pochi. In alcuni casi è possibile che sia vero, si sa che le risorse sono scarse come ha ammesso lo stesso presidente del Consiglio. Ma va anche detto che – a rigor di logica – confrontare i sostegni a fondo perduto con la perdita di fatturato non è corretto. Lo sarebbe invece prendere a parametro il calo degli utili, tenendo così conto dei costi sostenuti dalle attività economiche.
Gli imprenditori hanno infatti visto ridursi i costi, sia fissi che variabili, grazie agli interventi dello stato. Lo stipendio e i contributi sono pagati dall’Inps, se i dipendenti sono in cassa integrazione. Per chi aveva un affitto da pagare sul negozio o sul capannone nel 2020 circa metà dell’importo è stato ripagato con un credito di imposta. In estate milioni di pmi hanno visto ridursi i costi fissi delle proprie bollette, come previsto dal decreto Rilancio di maggio. Per quanto riguarda le imposte, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici, le tasse e i contributi posticipati a favore delle imprese nel 2020 sono stati pari a circa 14 miliardi di euro. Per quanto riguarda i costi di finanziamento, fino a giugno è in vigore la moratoria sui prestiti (valida su poco meno di 200 miliardi di euro di crediti alle imprese) che ha bloccato da un anno a questa parte il pagamento delle rate.
Se dunque i negozi, i ristoranti e le altre attività economiche sono obbligate, o decidono di tenere chiusi i battenti, i costi che devono sopportare dovrebbero essere piuttosto contenuti. Secondo un’analisi della direzione studi del ministero dell’Economia che prende in considerazione tutti gli interventi pubblici precedenti alla legge di bilancio e al decreto Sostegni, per le società di capitali sarebbe stato compensato circa il 61 per cento della perdita di liquidità dovuta alla pandemia, mentre per le società di persone si arriverebbe all’82 per cento. E dunque i contributi del governo Draghi, da minimo 1.000 euro per le persone fisiche e 2.000 per le aziende più strutturate, dovrebbero essere sufficienti per la maggior parte delle partite Iva. Ovviamente non lo sono a recuperare le perdite subite, ma non è questo il loro obiettivo.
L’altra forte critica che è giunta dal settore delle imprese è relativa alla soglia del 30 per cento di calo di fatturato necessaria per accedere agli aiuti a fondo perduto. E’ arrivata anche da Confindustria: secondo Carlo Bonomi “serve rivedere il limite del fatturato che lascia senza aiuti molte aziende, soprattutto nei settori più colpiti dalla crisi”. Ma è proprio perché queste aziende non hanno subito una perdita di fatturato abbastanza grave che non sono incluse negli aiuti, indipendentemente dal settore di cui fanno parte. Evidentemente dunque hanno meno bisogno di altre del sostegno pubblico. A meno che il fatturato non sia ritenuto un elemento rappresentativo dello stato di salute delle imprese, e dunque torniamo al punto precedente. La critica aveva una ragion d’essere quando i ristori dei precedenti decreti erano calcolati sul calo di fatturato di un singolo mese, in particolare aprile 2020 rispetto ad aprile 2019. Come in molti avevano fatto notare, si trattava di un meccanismo distorsivo che ha penalizzato chi – per i motivi più disparati – ad aprile 2019 non aveva incassato. Per esempio, per le partite Iva, a causa di una gravidanza o di un investimento che ha richiesto di fermare temporaneamente l’attività. Oppure, per attività più complesse, della stagionalità del ciclo economico. Ad aprile non siamo ancora entrati nell’alta stagione turistica, eppure gli aiuti per il settore sono stati calcolati partendo dai risultati di quel mese. Ora però che il governo Draghi ha calcolato i contributi sulla base dell’intero anno, la polemica degli esclusi non sta più in piedi.
D’altronde – e questo è un grave danno per tutta la collettività – le critiche che arrivano da partite Iva e imprese sono purtroppo rese meno credibili dalle pratiche di chi evade le imposte. Secondo le stime del ministero dell’Economia, su poco più di 100 miliardi di imposte e contributi evasi ogni anno poco meno del 30 per cento fanno riferimento all’Irpef di lavoratori autonomi e imprese, meno del 9 a mancati versamenti Ires e circa un terzo all’evasione dell’Iva. In totale, se aggiungiamo anche i mancati contributi dovuti dai datori di lavoro e i pagamenti dell’Irap, fanno più di 90 miliardi di euro di tasse mancanti da parte di partite Iva e imprenditori, su un’evasione totale di 110 miliardi. Le responsabilità sono ovviamente individuali e non possiamo permetterci di generalizzare, ma la credibilità delle categorie economiche è collettiva. E i contribuenti non possono restare indifferenti quando da una parte si richiedono maggiori aiuti economici per compensare il calo del fatturato, ma dall’altra negli anni passati numerose aziende – sicuramente una minoranza – hanno dichiarato un fatturato minore di quello reale per evadere le tasse.