NATO, esercitazioni militari tra Mar Egeo e Mar Mediterraneo (LaPresse)

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Nato e militari battono cassa, ma la Difesa resta sotto il 2 per cento

Lorenzo Borga

Anche se il governo si era impegnato a rispettare gli “impegni assunti nell'Alleanza Atlantica", scarse risorse e obsolescenza mettono a rischio la sicurezza del paese. Per mantenere la capacità difensiva servono interventi urgenti per le forze armate italiane

565 giorni sono trascorsi da quando il governo di Giorgia Meloni ha ottenuto la prima fiducia dal Parlamento. Da allora ha dedicato i propri sforzi a vari fronti, dalla limitazione dei rave, al contrasto all’immigrazione, al taglio del cuneo fiscale, alla regolamentazione della carne coltivata, alla riforma costituzionale. All’appello dei provvedimenti dell’esecutivo manca però un grande assente: l’aumento della spesa per la difesa. Una promessa scritta nero su bianco nel programma del centro-destra del 2022: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si erano impegnati a rispettare gli “impegni assunti nell'Alleanza Atlantica, anche in merito all'adeguamento degli stanziamenti per la difesa”.

Eppure nulla si è mosso. Chi si aspettava un rinnovato impegno dall’incontro di settimana scorsa tra Meloni e Stoltenberg è rimasto deluso: nel comunicato di Palazzo Chigi non è espressa alcuna promessa di maggiori finanziamenti. L’Italia è ormai tra i pochi paesi della Nato che ancora non rispettano la regola del 2% del Pil destinato alla spesa militare. Siamo ben lontani da questo obiettivo, come ammette lo stesso Ministro della Difesa Guido Crosetto, secondo il quale sarà difficile raggiungere il target perfino nel 2028 (cioè quando abbiamo promesso di farlo). A spendere a sufficienza non sono solo tutti i paesi del fronte Est, per le comprensibili preoccupazioni sul minaccioso vicino di casa, ma anche Francia e Germania che hanno raggiunto il target nel 2024. E noi? Secondo il Documento programmatico della Difesa 2023-2025 la spesa italiana in rapporto al Pil calerà: dall’1,46% del 2023 si scende all’1,43 del 2024 e all’1,45 del 2025. Soldi che peraltro sono destinati principalmente a stipendi e pensioni, ben più della media Nato. Certo la colpa non può ricadere solo sulle spalle di Giorgia Meloni: del trend sono responsabili quasi tutti gli esecutivi che si sono succeduti, convinti della necessità di trasformare le forze armate in una protezione civile 2.0, utile in Italia e per le missioni internazionali. Chi ha fatto scelte diverse lo ha fatto di nascosto, quasi vergognandosene: sotto i due governi di Giuseppe Conte la spesa militare è cresciuta – al netto dell’inflazione – di oltre 5 miliardi di euro, circa un quinto del totale, senza che nessuno se ne prendesse pubblica responsabilità.

Eppure il sotto-finanziamento delle forze armate non dovrebbe preoccupare solo i nostri alleati. Crosetto ammette candidamente che l’Italia “da sola non potrebbe difendersi” da un attacco simile a quello subito dall’Ucraina, come “non saremmo riusciti a fermare tutti i missili” indirizzati verso Israele. Il re è nudo. Si tratta di una constatazione ovvia per chiunque sia a conoscenza dello stato delle nostre forze armate, ma che appare angosciante se pronunciata da un ministro della Difesa di un paese del G7 e membro fondatore della Nato.

Ad ammettere lo stato di sotto-finanziamento d’altronde sono gli stessi militari, che da anni battono cassa. Il più sincero è l’ammiraglio Enrico Credendino, Capo di Stato Maggiore della Marina. Nel febbraio 2023 in audizione al Parlamento descrive una condizione di enorme stress e usura per navi ed equipaggi, costretti a rimanere in mare ben di più di quanto accade agli alleati. Le nostre fregate oggi sono operative per 175 giorni all’anno, oltre un terzo in più di quanto consigliano gli esperti. E i soldi per comprarne altre scarseggiano: il taglio nella legge di bilancio 2023 “ha generato ritardi nei pagamenti, con rischio penali e interruzioni” delle forniture. Credendino descrive efficacemente la carenza di mezzi navali: “i nostri sommergibili sono estremamente efficaci” – dice l’ammiraglio – “ma sono lenti, quindi li possiamo impiegare solo nel Mediterraneo”.

 

Così come non abbiamo sufficienti navi antiaerei in grado di garantire la scorta alle due portaerei, per cui dobbiamo sperare nel supporto degli alleati. Per non parlare dei cacciatorpedinieri: quelli operativi sono due – il Doria e il Duilio, impiegato anche nel Mar Rosso – mentre altre due navi “non hanno più i missili perché sono scaduti” e non possono essere sostituiti. Non sono dunque “nemmeno in grado di auto difendersi”. Non va meglio se ci spostiamo sulla terra ferma: l’esercito ha in dotazione sulla carta 200 carri armati Ariete progettati negli anni Ottanta, che però – come spiegato dall’ex Capo di Stato Maggiore Pietro Serino – “nel tempo non sono stati mai oggetto né di programmi di ammodernamento né di programmi di soluzione dell'obsolescenza logistica”. Risultato: quelli impiegabili si aggirerebbero attorno a qualche decina. Per ovviare al problema, il Governo ha deciso di comprare circa 100 Leopard 2 tedeschi, il cui finanziamento tuttavia per ora è stato coperto solo per metà. La difesa dei cieli è affidata ai sistemi anti-aereo e anti-missile Samp/T, sviluppato con i francesi, di cui si vocifera un nuovo invio in Ucraina: se così fosse, sul suolo nazionale ne rimarrebbero solo tre, mentre per un paese in guerra il minimo indispensabile sarebbe almeno 10. E l’organico? Secondo il Capo di Stato Maggiore di tutte le forze armate, Giuseppe Cavo Dragone, con 170mila militari saremmo “al limite della sopravvivenza”. Oggi siamo a 150mila.

“La libertà ha un prezzo: se non sei in grado di difenderti lo fanno altri ma lo faranno imponendo un prezzo”, diceva Giorgia Meloni un anno fa. Già.

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