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Il rebus delle spese militari: scorporarle dal Patto di stabilità non sarà facile

Lorenzo Borga

Le promesse che Meloni ha fatto agli alleati della Nato costano quasi 4 miliardi: un fardello per un paese altamente indebitato come l'Italia. E le deroghe delle nuove regole di bilancio europeo non consentiranno facilmente di fare nuovo deficit

Da Washington Giorgia Meloni è tornata con un conto da pagare: quasi 4 miliardi di euro se vorrà mantenere le promesse fatte agli alleati della Nato per la spesa militare italiana. Poco più di 2 per portare in un anno l’esborso per la difesa all’1,6 per cento del pil come filtrato dallo staff della premier, più il miliardo e settecento milioni previsto dall’impegno al supporto dell’Ucraina. Soldi che per ora a bilancio non ci sono, né si vedono in lontananza. Già sarebbe un miracolo se il governo riuscisse a confermare nel 2025 tutte le misure economiche previste dall’ultima legge di bilancio, senza la possibilità di fare nuovo deficit. Ecco allora che noi italiani abbiamo subito tirato fuori il coniglio dal cappello: scorporiamo le spese militari dal Patto di stabilità. A proporlo è stato il ministro della Difesa Guido Crosetto, secondo cui in caso contrario bisognerà rimandare il raggiungimento del 2 per cento al 2028 (un risultato tutt’altro che scontato, lo stesso Crosetto mesi fa lo definiva “difficile”).

Ma come, non l’avevamo appena riformato il Patto di stabilità? Così come è stato approvato dalle istituzioni europee, non prevede alcuno scorporo delle spese per la difesa. Tanto che lo stesso Crosetto solo tre mesi fa scriveva su X che le nuove regole europee gli ricordano “la musica suonata dall’orchestra a bordo del Titanic” proprio perché “non tiene conto della necessità ineludibile di sicurezza e difesa”.

Nel nuovo Patto di stabilità le deroghe a disposizione degli stati altamente indebitati – come l’Italia finora – che incrementano la spesa per la difesa – non come l’Italia finora – sono due. Maggiori investimenti possono giustificare il prolungamento del percorso di rientro dall’alto indebitamento, garantendo sette anni al posto dei canonici quattro, per correggere i conti pubblici secondo gli obiettivi fissati nel Patto di stabilità. Ma questo l’Italia – per voce del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – aveva già deciso di richiederlo, in cambio delle riforme chieste da Bruxelles. Quindi nulla cambia rispetto a quanto già messo in conto. Il secondo elemento riguarda le procedure di infrazione: l’aumento della spesa militare può essere uno dei fattori rilevanti che la Commissione europea può prendere in considerazione per evitare di aprire una procedura di infrazione per deficit eccessivo contro uno stato. Ma anche in questo caso poco cambia: l’Italia infatti già si trova oggi sotto procedura, e ne uscirà probabilmente solo a fine 2026 quando si è posta l’obiettivo di far tornare il deficit sotto il 3 per cento. Certo, se la dotazione finanziaria del ministero di Crosetto lievitasse velocemente l’Italia potrebbe sperare di uscire dalla procedura di infrazione già a fine dell’anno prossimo. Ma in realtà, paradossalmente, la procedura oggi permette al ministero dell’Economia di non dover preoccuparsi fin da subito di tutte le nuove regole del Patto, soprattutto quelle che riguardano la riduzione annua del debito pubblico. Uscirne prima del previsto ci farebbe passare dalla padella alla brace.

Queste deroghe sono valse la salvezza dalla bocciatura di Bruxelles per Estonia e Finlandia, due paesi che benché presentassero nel 2023 un deficit superiore alla soglia del 3 per cento hanno nel frattempo aumentato considerevolmente la spesa militare. Risultato: promossi, con riserva. I due stati divisi dal Mar Baltico hanno quasi raddoppiato l’esborso per le forze armate dallo scoppio della guerra in Ucraina, preoccupati dal rissoso vicino confinante. L’Italia nello stesso periodo ha incrementato (si fa per dire) la spesa nominale del 4 per cento, i penultimi di tutta la Nato. Numeri che parlano da soli.