L'hotel Burj al Arab di Dubai (foto LaPresse)

Tutti i guai di Dubai

Eugenio Dacrema

Il piccolo emirato, un tempo modello per la regione, attraversa una crisi strutturale

Quando si bazzica la variegata schiera antropologica degli analisti del Golfo – che comprende, fra gli altri, trader, banchieri, accademici ed economisti – una formula che emerge spesso è quella del “modello Dubai”. Il piccolo emirato, il secondo per grandezza dopo Abu Dhabi all’interno della federazione degli Emirati Arabi Uniti (EAU), è infatti emerso già negli anni Ottanta e Novanta come l’esempio di un nuovo paradigma vincente di diversificazione e crescita economica non più basata sugli idrocarburi – come accadeva, e ancora accade, per la maggior parte delle economie dell’area – ma su un brillante settore privato dominato da attività come le costruzioni, il commercio e la finanza. L’idea, in fondo, è abbastanza semplice: sostituire le rendite petrolifere (da sempre scarse a Dubai rispetto al vicino Abu Dhabi) con le tasse provenienti da un settore privato in espansione e animato da lavoratori stranieri a tutti i livelli, dalle mansioni più umili ai dirigenti d’impresa. L’obiettivo principale era, e resta, continuare a garantire il contratto sociale tra stato e popolazione locale – circa 170 mila cittadini su quasi 3 milioni di residenti – basato su welfare e impieghi pubblici poco impegnativi e molto ben remunerati. Al centro del modello uno slogan semplice quanto chiaro: “costruisci, e loro arriveranno”. Negli ultimi trent’anni a Dubai sono stati costruiti alcuni degli edifici più arditi della storia recente, centri commerciali avveniristici, e perfino isole artificiali per residenze di lusso. Effettivamente, i compratori sono arrivati in massa dopo ogni edificazione, attirati dalle curiose trovate architettoniche da prima pagina e, soprattutto, da un mercato immobiliare i cui prezzi sembravano destinati a crescere per l’eternità. Con i compratori sono arrivati anche ingenti flussi finanziari che l’Emirato ha accolto grazie al suo avanzato sistema bancario. Questi sono diventati la spina dorsale del “sistema Dubai”: investimenti ad alto ritorno per costruire lotti immobiliari sempre più costosi, in grado di ripagare i tassi di interesse e generare profitti. Parallelamente, Dubai ha riscoperto in grande stile la propria antica vocazione di stazione commerciale. Accanto a una tra le più importanti linee aeree del mondo – Emirates Airlines– la compagnia di movimentazione merci DP World è diventata leader globale del settore, facendo del porto di Dubai una tappa imprescindibile per quasi tutte le merci in viaggio tra Asia e Europa.

 

Un primo colpo a questo schema perfetto è però arrivato già nel 2008, quando la crisi finanziaria globale spezzò la catena virtuosa che teneva in piedi il sistema immobiliare. Dubai evitò la bancarotta grazie all’intervento di Abu Dhabi che la salvò dal disastro finanziario. Ma se quello del 2008 può essere visto come un incidente di percorso dovuto a fattori tutti esterni e contingenti, la crisi dell’ultimo biennio ha radici molto più strutturali che rischiano di minare definitivamente la stabilità del “modello Dubai”. A segnalare che qualcosa non va ci sono prima di tutto i dati: l’anno scorso il tasso di crescita si è fermato al 1,9%, il più basso in una decade, mentre i prezzi degli immobili sono crollati del 25 percento, un dato ancora più preoccupante dato il ruolo cruciale del settore per l’economia dell’Emirato. I motivi sono molti, a cominciare dalla comparsa di numerosi altri poli regionali di attrazione per gli investitori internazionali, come la vicina Abu Dhabi, Doha e, più recentemente, la stessa Arabia Saudita, il cui intraprendente principe ereditario sembra intenzionato ad attirare investimenti stranieri per perseguire il suo ambizioso piano di diversificazione economica. Se un tempo Dubai era la sola grande calamita nel Golfo per gli investitori internazionali, oggi deve contendersi il terreno con competitor ostici. Ma, secondo il Financial Times (che ai problemi di Dubai ha dedicato un lungo articolo a inizio aprile), il fattore cardine è da ricercare nel drastico calo dei prezzi petroliferi degli ultimi anni (scesi da oltre 110 dollari al barile a meno di 80, con minimi sotto i 40), a conferma che anche l’economia più diversificata del Golfo non si è mai davvero emancipata dal greggio. L’improvvisa scarsità di capitali pubblici e privati da reinvestire nel settore privato locale si è riverberata a catena per tutto il sistema. Per compensare i danni dovuti al crollo dei prezzi, Dubai, come altre economie della regione, si è trovata a dover introdurre tasse e ridurre spese e investimenti. Il rallentamento dell’economia ha quindi colpito i consumi, e con essi l’attrattività del mercato locale per molte compagnie che avevano trovato in Dubai una perfetta sede per i loro quartier generali regionali. 150 mila sono i posti di lavoro persi solo nel settore immobiliare dal 2014 a oggi, e cifre simili riguarderebbero anche altri settori centrali, anche se non esistono stime ufficiali. Ad andarsene sono lavoratori stranieri a tutti i livelli, compresi i ben pagati colletti bianchi che per anni hanno costituito un traino cruciale per i consumi locali. Recentemente, il governo ha cercato di introdurre incentivi per i lavoratori stranieri al fine di fermare tale emorragia, alzando i limiti temporali dei permessi di residenza e liberalizzando la proprietà di attività industriali e commerciali, eliminando l’obbligo per gli investitori stranieri di avere un socio locale. Ma gli effetti tardano ad arrivare e nel frattempo il “sistema Dubai” si è trovato a dover affrontare anche difficoltà dovute dai profondi cambiamenti avvenuti nella politica regionale. Il nuovo avventurismo internazionale del governo federale, guidato dall’ambizioso principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed, ha portato gli EAU a cambiare drasticamente la propria tradizionale moderazione in campo politico e a imbarcarsi in imprese rischiose come il sanguinoso conflitto yemenita – al fianco dell’alleato saudita – e l’embargo diplomatico e commerciale contro il Qatar. Specialmente quest’ultima mossa ha gravemente danneggiato gli interessi di Dubai, da sempre una delle mete preferite dei turisti e degli investitori qatarini. Ma se il nuovo attivismo regionale emiratino non ha fin qui portato bene agli affari, altri sviluppi internazionali rischiano di compromettere gli interessi strategici dell’Emirato, a cominciare dall’espansione economica cinese nella regione. Se, infatti, da una parte, gli EAU sono oggi la destinazione principale degli investimenti di Pechino nella regione, dall’altra, lo sviluppo della Via della Seta cinese rischia di mettere a repentaglio la posizione dominante del porto di Dubai negli scambi commerciali tra Occidente e Oriente. Nel 2018 i cinesi hanno infatti estromesso DP World dal controllo del porto di Gibuti, nel Corno d’Africa, mentre lo sviluppo del porto pakistano di Gwadar e di quello omanita di Duqm – entrambi sviluppati e controllati da capitali cinesi – rischia di marginalizzare Dubai dalle principali linee di trasporto merci.

Ma gli Al-Maktoum, la famiglia reale dell’Emirato, non sembrano però intenzionati a restare a guardare e hanno ingaggiato alcune delle più importanti società di consulenza del mondo, come Strategy& di PwC Consulting, per trovare un modo di uscire dall’attuale crisi. Ma l’impresa non si presenta di facile risoluzione e, mentre Abu Dhabi cerca di presentare gli EAU al mondo come la nuova “Piccola Sparta” mediorientale (come la soprannominò l’ex Segretario alla Difesa James Mattis), Dubai rischia di pagare il prezzo del nuovo protagonismo politico emiratino.

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