Spazio Okkupato
Dal Logos al logo
In quasi 30 anni di World Wide Web l’opinione pubblica si è trasformata in opinione pubblicitaria. Cultura e mercificazione
In zona Porta Venezia a Milano ha aperto un negozio heideggeriano. Si chiama “Dasein. Pane & champagne” in omaggio all' "Esserci” di Heidegger, uno dei concetti fondamentali di Essere e tempo. Dopo avere avvistato l’insegna, sono tornato a casa trafitto dall’angoscia (“angst”) e dallo spaesamento (“unheimlichkeit”), domandandomi se tutto sta diventando cultura o se tutta la cultura sta diventando prodotto.
Poi in tv è passato uno spot raggelante: famiglie truccate da Einstein con parrucca e baffi bianchi si aggirano fameliche e felici tra le corsie dei supermercati Eurospin. “C’è un solo posto dove essere intelligenti costa poco”, dice lo slogan, mentre un orripilante Einstein-bambino estrae un metro di lingua. “Il cliente che entra da Eurospin”, chiarisce l’azienda, caso mai il messaggio non arrivasse al grande pubblico, “si “einsteinizza” man mano che, tra le corsie, fa la spesa”.
E’ tutto relativo, d’accordo, e ci sono problemi peggiori, però la battuta geniale di Checco Zalone “della Che Guevara c’avete anche il borsello?” sta diventando realtà. Sempre più spesso le parole e i simboli della cultura diventano marchi. Come è potuto accadere? Com’è che dalle Palle di Mozart, i cioccolatini inventati nel 1890 a Salisburgo dal mastro pasticciere Paul Fürst , o dalla linea Philosophy di Alberta Ferretti siamo arrivati ai panettieri heideggeriani?
Il 6 agosto di ventinove anni fa Tim Berners-Lee, un informatico di 36 anni che collaborava con il Cern di Ginevra, mise online il primo sito della storia. Ci vollero diciassette giorni – era il 23 agosto – perché il primo utente esterno al Cern si collegasse. Oggi i siti sono un miliardo e mezzo, in gran parte inattivi. “Il World Wide Web (W3)”, scrive Berners-Lee nella prima riga del sito, “è un’iniziativa per il recupero di informazioni ipermediali ad ampio raggio che ha l’obiettivo di fornire accesso universale a un grande universo di documenti”.
L’idea era semplice, illuminista quant’altri mai: condividere gratuitamente il sapere attraverso una rete di link. Il sito è ancora online e navigarci oggi fa tenerezza perché nella sua sobrietà – è più scarno di un comunicato stampa – dimostra l’ingenuità con cui gli intellettuali tendono a sovrastimare la conoscenza e a trascurare le passioni, in particolare l’istinto umano a utilizzare quello che si conosce per divertirsi o arricchirsi. D’altronde è dai tempi della clava che l’uomo usa quello che inventa per trarne vantaggi.
In questi ventinove anni il sogno di Berners-Lee si è in parte realizzato. L’umanità ha riversato sul World Wide Web tutta la propria conoscenza, rendendola disponibile gratis per tutti. Al confronto di Wikipedia, lanciata il 15 gennaio 2001, l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert sembra un instant book. Parallelamente, però – non solo sul web – il sapere si è progressivamente mischiato alla pubblicità, rendendosi indistinguibile da essa.
E’ un caso tipico di eterogenesi dei fini: il sogno di un sapere universale di massa, compiendosi, si è ribaltato in qualcosa di nuovo. E la parola “Ricerca”, che proveniva da ambiti scientifici, si è messa presto a puntare alle merci.
Il primo motore di ricerca nacque nel 1994. Allora Yahoo! si chiamava Jerry and David’s Guide to the World Wide Web. Chi è abbastanza vecchio ricorda che se non trovavi un risultato, dovevi arrampicarti sui rami dell’albero aristotelico ancora suddivisi nelle categorie e sottocategorie in cui fino ad allora era stato organizzato il sapere: Scienza, Letteratura, Società, Giochi, Sport. La concezione tradizionale della conoscenza era ancora egemone nel 1998 quando Larry Page e Sergey Brin fondarono Google il cui algoritmo si basava sull’idea che le pagine più linkate, quindi lette e apprezzate dagli utenti, sarebbero state quelle di maggior valore.
Si basava, cioè, sulla fiducia che gli esseri umani avrebbero spontaneamente scelto e premiato le informazioni migliori. Con Google la cultura diventò di massa, ma l’egemonia culturale degli intellettuali finì perché a decretare il valore di un’informazione cominciò a essere la popolarità, e chiunque si trasformò in un testimonial. Dal Logos si passò al logo.
Su Instagram – il social che funziona come quando ti costringevano a guardare per ore diapositive dei viaggi altrui – niente distingue la pubblicità di un libro da quella di uno shampoo. Su TikTok – il social che funziona come una slot machine di brevissimi spot – tutti fanno a gara per pubblicizzare gratis, anzi pagando, marchi e prodotti.
E’ stato un processo lungo, passato attraverso le magliette Lacoste, la transizione dall’Eskimo al Moncler (dagli anni Ottanta non vanno più di moda le cose, i jeans a zampa o i sandali olandesi, ma i marchi), le t-shirt Emporio Armani, la cultura griffata dei rapper, le marchette travestite da articoli dei giornali. Sapere chi è Heidegger, oggi, è molto meno importante che saper consigliare una crema idratante o identificare i loghi con cui definire il proprio essere-nel-mondo. Quello che conosci è quello che consumi, e consumi quello che conosci. Come gli indiani d’America – pardon, nativi americani – che si agghindavano di piume e perline per definire il proprio posto nella gerarchia sociale, l’identità individuale è affidata alle cose, anzi ai marchi delle cose. L’opinione pubblica, quell’agente magmatico su cui si fonda la democrazia, scompare. Quel che rimane è l’opinione pubblicitaria.
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