Spazio Okkupato
I luoghi comuni con cui gli adulti guardano ai giovani, solo per autoassolversi
La schizofrenia di una generazione impotente. E’ Il ritratto di Dorian Gray al contrario: l’immagine della gioventù si carica del male per permettere ai vecchi di sentirsi candidi
Il discorso dell’ex presidente della Bce Mario Draghi al Meeting di Rimini ha dato una formulazione economica e politica al senso di colpa dei vecchi verso i giovani: “Il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. E’ nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre. Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. E’ un po’ come chi, dopo averti svuotato il portafoglio, ti rassicuri sul fatto che non si ripeterà mai più. Il problema, però, è che il senso di colpa ottenebra le idee e la visione, ed è forse alla base dello sguardo strabico, per non dire schizofrenico, con cui immaginiamo e raccontiamo quelli che oggi hanno meno di vent’anni.
Come vecchi rentier che in punto di morte si impegnano l’ultimo pezzo di argenteria, gli adulti oscillano tra il dispiacere di non potere garantire agli eredi la qualità di vita promessa e un senso di iperprotezione apprensiva che impedisce ai figli di rischiare e trovare una strada da soli (quelle attuali sono le prime generazione di bambini della storia a cui è stato vietato di arrampicarsi sugli alberi). Questa schizofrenia, naturalmente, sfocia in una rimozione rabbiosa: pur di sentirsi innocenti, si finisce per accusare quelli che non si può più proteggere, imputandogli ogni nefandezza: superficialità, consumismo, bullismo, dipendenza da smartphone, ignoranza. E’ Il ritratto di Dorian Gray al contrario: l’immagine della gioventù si carica del male per permettere ai vecchi di sentirsi candidi e autoassolversi. I giovani (sempre siano cosiddetti) funzionano come capro espiatorio su cui proiettare egoismi, paure, errori e sensi di colpa.
Gli assembramenti in discoteca, e i relativi contagi, sono soltanto l’ultimo caso di un processo che l’epidemia – come è tipico delle epidemie – non fa altro che accelerare. Sono stati gli adulti a decidere di tenerle aperte, per guadagnarci, ma chiedendo di ballare a distanza (come dire “corri, ma non sudare”). Sono stati gli adulti – alcuni: non pochi – a rifiutarsi platealmente di mettersi le mascherine e a proclamarsi “umiliati e offesi” per le misure di contenimento, organizzando ridicoli happening di spiriti liberi in Senato. I ragazzi non hanno parola, nemmeno sulla scuola (perfino il dibattito generazionale innescato da Michele Serra è stato alimentato da quarantenni ansiosi di sedersi alla tavola dei vecchi) e questo silenzio ha una ragione banale, demografica: negli ultimi cinquant’anni i giovani si sono dimezzati e i vecchi sono raddoppiati. Oggi il 18 per cento della popolazione italiana ha meno di 20 anni e il 45 per cento più di 50, mentre nel 1971 la proporzione era inversa: 33 per cento tra bambini e ragazzi, 25 per cento di ultracinquantenni. Se negli anni Settanta, in occidente, i giovani erano maggioranza, oggi sono una minoranza culturale e politica, che per questo andrebbe trattata con rispetto e verità. Come ha fatto Draghi.
Secondo lo storico francese Philippe Ariès, l’infanzia fu un’invenzione dell’età vittoriana. Non è del tutto vero, ma certamente anche allora i giovani erano concepiti e trattati in modo ambivalente, benché incomparabilmente più agghiacciante (in “Breve storia della vita privata” Bill Bryson riporta alcune cronache dell’epoca: la direttrice di un istituto nelle Midlands fece buttare un ragazzino di nome Henry Cartwright in una soluzione di solfuro di potassio perché puzzava – il tanfo fu eliminato, insieme al bambino; il povero Alec Waugh, fratello della scrittrice Evelyn, fu costretto a intingere le mani in una pentola piena di acido solforico perché la smettesse di mangiarsi le unghie; e ci fu un gentiluomo, tale Willy Smiles che, per incoraggiare i suoi undici figli a venire a tavola in fretta, dava ordine di preparare solo per dieci). Oggi l’infanzia è protetta, per fortuna, quasi sacralizzata – a proposito, in Inghilterra la Società per la prevenzione della crudeltà dei bambini nacque sessant’anni dopo quella per la difesa degli animali, ma a differenza di quest’ultima non ottenne mai il beneplacito reale – ma questo non deve esimerci dal riconoscere che intorno a questa idea abbiamo tessuto una ragnatela di luoghi comuni che ha l’unico scopo di farci sentire migliori.
Il primo luogo comune è che i ragazzi non leggano, mentre leggono molto più degli adulti, anzi hanno tenuto in piedi il mercato dell’editoria negli ultimi dieci anni. Leggono, soprattutto, molto più dei “lettori forti” che o leggono meno di quel che raccontano o sono così pochi da essere quasi irrilevanti per il mercato. Leggono soprattutto libroidi, d’accordo, ma anche gli adulti mandano in classifica libri di diete e sulle corna (l’Italia è il paese europeo con il più basso indice di lettura di libri tra la popolazione adulta). Il secondo è che i ragazzi stiano sempre attaccati al telefono (cfr. “Metti via quel cellulare” di Aldo Cazzullo), il che è vero, ovviamente, ma non più dei grandi: in Italia i ragazzi sono solo 11 milioni, ma ci sono 80 milioni di smartphone, 50 milioni di persone online al giorno e 35 attive sui social. Il terzo è che tra i ragazzi imperi il bullismo, quando basta leggere “Libera nos a Malo” di Meneghello o Dickens o quel che volete voi, per rendersi conto di quanta violenza ci fosse in passato (e in ogni caso il bullismo è una modalità fondante anche delle relazioni adulte, solo che sul lavoro si chiama mobbing). Un altro è che i giovani non si informino, anche se gli adulti – che non lo fanno di più – non si sono sentiti in dovere di creare per loro un solo giornale, sito Internet, programma tv degno di questo nome in modo da non lasciarli da soli a cercare di capire quello che accade nel mondo.
I ragazzi sono pochi, ma consumano molto e politicamente non contano niente. Sono quelli a cui vendiamo le nostre merci e su cui carichiamo le nostre paure. Sono lo specchio nero in cui guardiamo noi stessi senza vederci, sono il sosia in miniatura a cui imputiamo i nostri peccati. Diciamo che non leggono, ma leggono più di noi. Li accusiamo di stare sempre al telefonino, ma lo facciamo quanto loro. Li rimproveriamo di essere ossessionati dai marchi, ma facciamo di tutto per venderglieli, bombardandoli fin dalla nascita di spot che raccontano che se non consumano rimarranno sfigati per sempre. Dopo averli ingrassati di desideri come polli in batteria, ora gli diciamo che i soldi sono finiti, ma che non l’abbiamo fatto apposta. E intanto li accusiamo di cercare quello che li abbiamo obbligati a desiderare.
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