Regole per mantenersi in Formula
Alonso corre anche da fermo. Corre anche adesso che non si sa se salirà mai più su un’auto. Corre perché è la vita che accelera con lui. Primo in molte cose, successore di Schumacher, precursore di Vettel, rivale di Hamilton. Come fa a non correre? E’ il pilota che non sta simpatico agli altri piloti, ma alla gente.
Alonso corre anche da fermo. Corre anche adesso che non si sa se salirà mai più su un’auto. Corre perché è la vita che accelera con lui. Primo in molte cose, successore di Schumacher, precursore di Vettel, rivale di Hamilton. Come fa a non correre? E’ il pilota che non sta simpatico agli altri piloti, ma alla gente. Bello e bravo. Prima dell’incidente dell’altro giorno, prima di salire in macchina, prima di andare a sbattere non si sa bene il perché, è andato a salutare i meccanici Ferrari. Uno per uno: stretta di mano, o bacio sulla guancia. Hola, ciao. Sorridente lui e sorridenti loro, nonostante gli anni a Maranello non siano stati come si aspettava lui e come si aspettavano loro. Ma Fernando è così: bravo o paraculo, non importa. Quelle immagini sembravano sincere, quindi lo erano. Per la gente, per il pubblico, per i meccanici stessi che sono la parte meno glamour della Formula 1 e per questo fanno simpatia a tutti. Fernando ferrarista per sempre, anche se è andato via per sé e per la scuderia. “Quando è stato soccorso parlava italiano e credeva di essere sulla Ferrari”, ha scritto la Bild in questi giorni, ripresa da tutti i media del pianeta. Vero o falso che sia, è un racconto che alimenta la sensazione che ci sono storie che prescindono dai risultati. Alonso allora è un ferrarista pur senza aver mai vinto niente sulla Ferrari. Forse è stato l’essere arrivato dopo Schumacher. Siamo passati da un diverso a un simile, per aspetto e inclinazioni. C’era quella specie di non detto, che era forse la speranza nascosta e pudica che la Ferrari avesse trovato il Senna che non aveva mai avuto: latino, ma signorile; una bella faccia, una grande storia; veloce, sfrontato, forse anche un po’ pazzo, ma senza dare l’impressione di esserlo. Uno così: “La paura non esiste in Formula 1. C’è rispetto per la macchina, per la velocità, per quello che facciamo, ma mai paura. Nelle gare sul bagnato, quando c’è pochissima visibilità, hai una sensazione di non comodità. Anche in quel caso non è paura, vorresti solo togliere l’acqua per andare più veloce. La macchina è il tuo ufficio alla fine. Quando me la sono vista brutta? Quando fai incidenti o errori troppo evidenti, quel giorno vorresti sparire per qualche settimana e fare in modo che non ti veda nessuno. Succede in tutte le discipline, ma in Formula 1 e negli sport più mediatici il disagio aumenta. Poi ricordi che capita a tutti e non ci pensi”.
Alonso è un rimpianto. Per i tifosi e probabilmente per se stesso. Perché in verità ce ne sono due, di Fernando: quello pre-Ferrari, quello post Ferrari. E’ più una questione di atteggiamento, che di risultati. O forse è che i risultati hanno cambiato l’atteggiamento. Perché se uno riguarda o riascolta le sue interviste, le sue uscite dopo gara, ha tutta un’altra impressione. Era più aggressivo, più vorace, più cinico. Anche più sbruffone, se volete: “Sesso prima del Gran Premio? E’ normale. Sono giovane e credo che faccia bene”. Lo disse nel 2005, quando non era ancora campione del mondo ma stava per diventarlo. Una frase che fece più rumore di quanto ne meritasse. Ma è come se all’epoca, un giovane di Oviedo, scoperto da Briatore, lanciato in Formula 1, vincente per carattere e spirito, dovesse essere lanciato a prescindere: questo è quello giusto. Uno che cancellava le certezze di un circus abituato alle vittorie di Schumi. Glaciali, uguali a se stesse, inevitabili. Fernando era l’antidoto: con quei capelli e quella faccia. Veloce, spavaldo, furbo. Quello che ha lasciato la Ferrari è diverso. E’ quello del post: sette anni senza vittorie l’hanno reso meno sicuro. E però provate a chiedere in giro, se e quanto sia amato, Fernando. E’ uno di quei piloti ai quali credi a prescindere dalla macchina che hanno. Cominciò in Bahrein, nel 2010, con la prima vittoria in Ferrari. La Gazzetta dello Sport l’ha ricordata così: “Dopo il divorzio immediato con la McLaren e due stagioni di purgatorio in Renault, aveva mosso mari e monti per arrivare a Maranello, facendo scendere in campo una potenza economica come il Banco Santander e cercando appoggio in amici e addetti ai lavori. Cercava la macchina migliore, la scuderia più vincente del decennio, per aprire un ciclo dopo i due titoli vinti con la Renault. Doveva essere una favola da Mille e una notte. Una grande storia d’amore fra due che sembravano fatti l’uno per l’altra. Come si pensò per Valentino Rossi e la Ducati. Invece, in entrambi i casi, non c’è stato lieto fine. La cattiva stella di Alonso cominciò nella notte di Abu Dhabi di quello stesso 2010, quando lo spagnolo e la Ferrari videro sfumare per un errore di strategia (pagò l’ingegnere Chris Dyer) il Mondiale che avrebbe potuto cambiare tutto il senso della loro storia. E il fatto che fra due domeniche la strada comune si concluda proprio ad Abu Dhabi e vada in scena l’ultima corsa di Alonso con il Cavallino è un altro dei tanti segni del destino. Un cerchio che si chiude. Nelle ultime due stagioni il rapporto fra Fernando e la rossa si è deteriorato. Complici delusioni e incomprensioni legate ai tanti momenti difficili, in pista e fuori”.
A settembre dell’anno scorso disse che non se ne sarebbe andato da Maranello. Due mesi dopo corse l’ultima gara su una Ferrari. Rancori? Forse, ma non si vedono. Quelle mani strette e quei baci dati a Montmeló prima dell’incidente dicono che Fernando è uomo che rispetta la memoria. O forse che vuole marcare una differenza: saluto il team, non il board. Come il giorno dell’ultima gara in Ferrari: “Correrò questo fine settimana con tutta la squadra in macchina con me”. Ovvero con un casco dedicato che portava su di un lato le firme di tutti i meccanici e dirigenti di Maranello. “Il loro lavoro e la loro firma, grazie di tutto”. Resta che i suoi sorrisi, così come le sue lunghe e visibili incazzature siano amate dal suo pubblico. Lui è uno di quegli sportivi nei quali la gente crede: esistono gli alonsiani, così come ci sono i federeriani. La vittoria finale è un accessorio che influisce poco. Si tifa per uno stile, per un talento. Quello di Alonso lo si vide la prima volta nel Gran Premio di Malesia del 2003: conquistò la sua prima pole position, sulla Benetton. Diventò il più giovane pilota in pole della storia. Record battuto poi da Vettel. Sarebbe diventato anche il più giovane campione del mondo della storia, nel 2005. Record – di nuovo – battuto poi da Vettel.
La sua vita è stretta tra Michael e Sebastian. Un gioco di incastri che lo tira su e poi giù. Fernando è intelligente, per molti è tra i più intelligenti piloti di sempre. Legge, si documenta, s’appassiona. Studia, sa. E ha saputo quando mollare. Non si poteva più andare avanti. La Gazzetta ha ricostruito così ciò che è accaduto tra la fine di settembre e novembre: “L’urgenza, a 33 anni, di avere una vettura competitiva e lo spirito di un progetto non più condiviso hanno spinto Alonso a cercare una via d’uscita (i contatti dell’estate con la Mercedes per uno scambio con Hamilton) e a porre condizioni che la Ferrari non è stata disposta ad accettare, dopo anni in cui lo aveva sempre assecondato, sottolineando i suoi meriti e le carenze della macchina. La Ferrari, a sua volta, ha cominciato a guardarsi attorno cercando alternative, come aveva già fatto l’anno prima andando a prendere Kimi Raikkonen per timore che gli alti e bassi di un rapporto turbolento con il proprio numero uno potessero sfociare in un divorzio clamoroso. All’inizio della prossima settimana potrebbe esserci l’annuncio comune della fine del rapporto, per cui la Ferrari e Alonso ci tengono sulle spine da Suzuka. E subito dopo, a ridosso del GP, quello dell’ingaggio di Alonso alla McLaren-Honda, un ritorno di fiamma quasi obbligato, mancando altre strade per lo spagnolo”.
Di fiamma per dire. Perché gli anni alla McLaren, i primi, non sono stati felici. Ci era arrivato da campione del mondo. Due volte. Da spagnolo in Gran Bretagna. Da un paese senza pedigree automobilistico a un paese che crede di essere ancora la patria assoluta delle auto da corsa: “Vengo da un paese che non ha tradizioni in F1. Ho lottato da solo per ottenere tutto quanto ho avuto. Nessuno mi ha aiutato. Tutta la carriera si è basata sui risultati che ho fatto nelle categorie minori, con gli sponsor che mi sono procurato da solo. Ora ho raggiunto il massimo che potevo raggiungere. Posso ringraziare la mia famiglia, al massimo tre, quattro persone, non di più. Pochi amici veri”.
Uno di quegli amici era, è, Flavio Briatore. L’ha scoperto e gli ha fatto prima da direttore sportivo, poi da manager. Un rapporto che non c’era mai stato in uno sport come la Formula 1. Se vuoi sapere qualcosa di Fernando, qualcosa di vero, di certo, di autentico devi chiedere a Briatore. Saprai poco, ma saprai la verità. Perché c’è un codice non scritto tra loro: non si rivelano dettagli, ma si dicono cose giuste. Non ci sono i depistaggi classici dei procuratori del calcio, non ci sono giochi dei manager di molti altri sport: la Formula 1 è talmente ricca, i piloti sono talmente ricchi che non c’è neanche da bluffare per il rilancio. “Alonso rimarrà alla Ferrari a vita”, disse Briatore a settembre. Era il desiderio di Fernando, prima del Gp di Monza. Prima che capisse che era finita. “Lui è ferrarista. Punto”. Il che non significa che non possa guidare altrove. Perché c’è quell’intelligenza lì, quella del professionista: mi sento ferrarista, ma voglio guidare, se non posso alla Ferrari, sarà altrove.
[**Video_box_2**]Non sappiamo ancora se sarà. Perché oggi nessuno sa dire se e quando tornerà. Alonso corre, comunque. Per i tifosi corre sul bagnato. Perché è lì che si vedono i piloti. “Nella storia di ogni campione c’è almeno un capitolo con la pioggia”, ha scritto Stefano Mancini. “Deve essere il racconto di una gara spettacolare e di una vittoria impossibile ottenuta con il cuore e la tecnica: da Ayrton Senna che ci ha costruito il suo mito a Sebastian Vettel che è diventato il più giovane vincitore di un Gran Premio, Monza 2008, ventun anni appena compiuti. E ora Fernando Alonso, che in un pomeriggio monsonico riesce a far volare una Ferrari fino alla vigilia definita dai suoi stessi padri lenta e inguidabile e diventa il leader della classifica”. Era il giorno del Gran Premio di Malesia, a Sepang. Tre anni fa: ottavo alla partenza, primo al traguardo. Come a Valencia, dove superò dieci concorrenti, sempre sotto l’acqua.
Alonso piace al mondo. Uno di quei ragazzi che sta bene quasi ovunque. E’ amato dagli sponsor perché funziona: forte in quello che fa e forte in come lo fa. Non è uno politicamente corretto, è uno che per vincere farebbe (e ha fatto) cose scorrette. Perché lo sport è in fondo anche questo: vincere a qualunque costo, se un giudice non si accorge di una irregolarità a me va bene così, fa parte del gioco. E’ stato bene in Renault, meno bene altrove. Lamentele giuste, mai troppe. Perché correre era stato sempre più importante. Nonostante ci sia un prima e un dopo nella sua carriera. E nonostante il paragone con chi l’ha preceduto (Schumi) e chi l’ha seguito (Vettel) lo metta sempre in difficoltà. Ma qui c’è la domanda che lo sport a volte non riesce a farsi: conta di più la vittoria (quindi il numero, il dato, la statistica) o l’emozione? Fernando è uno da emotività forte. Ha vinto meno di quanto l’amore che gli dedica la gente possa suggerire. Anche adesso, nei giorni post incidente, c’è un’attenzione nei suoi confronti che è sproporzionata sia all’evento in sé, sia al suo attuale ranking. Perché quest’anno avrebbe corso (o correrà) non per vincere il Mondiale, ma per esserci. Dicono che la sua forza sia il modo di essere: “Imprevedibile, acuto, mai banale, spesso scomodo, provocatorio, ma comunque di raro spessore”, dicono. Simpatico non è previsto, né prevedibile. Simpatico nella Formula 1 significherebbe lento. E Alonso non è lento, non lo è mai stato. Ha vinto meno di quanto pensava e avrebbe meritato. “Con otto punti in più, ora avrei altri tre titoli in bacheca”, ha riflettuto qualche tempo fa Alonso ripensando a quello mancato per un punto con la McLaren (2007) e ai 4 punti costati la beffa di Abu Dhabi 2010. L’intelligenza è la frase successiva, non detta nello stesso momento, ma perfetta come finale: “Vincere è la cosa più importante, ma non l’unica”. La banalità diventa non banale. Perché a volte dipende da chi la dice. E Alonso fugge dalle cose scontate, l’ha sempre fatto. Se gli chiedi chi sia il migliore, lo sa: “Ho in testa una lista dei più bravi: Lewis Hamilton è il migliore”. Anche di se stesso, forse. Per la macchina, anzi per le macchine. Perché se lotti per vincere devi pensare di essere alla stessa altezza. Alonso lo è stato, se gli date una macchina lo è, per talento, per gestione delle proprie forze e della propria testa. Per quella cosa che disse dopo il primo titolo e che ripete ogni volta che qualcuno gli chiede chi è: “Ho lottato da solo per ottenere tutto quanto ho avuto. Nessuno mi ha aiutato. Tutta la carriera si è basata sui risultati che ho fatto nelle categorie minori, con gli sponsor che mi sono procurato da solo. Ho raggiunto il massimo che potevo raggiungere”. Dieci anni fa, giorno del primo Mondiale della sua vita. Vale ancora, tranne l’ultima frase che non dice più, perché non ci crede. Ha continuato a correre per smentire se stesso. Se glielo permetteranno continuerà per lo stesso motivo.
Il Foglio sportivo - In corpore sano