Il 19 luglio 2004, alle ore 15,10, ha versato ventuno milioni di euro per salvare la Lazio. Andarono in migliaia a festeggiarlo, anche se non lo conoscevano (foto LaPresse)

Brutti, sporchi, vincenti

Beppe Di Corrado
Laziale grazie al fidanzato della tata, opportunista quanto basta, quest’anno Lotito le ha indovinate tutte. “Mi criticano? Do fastidio”.

Claudio Lotito non si vede più. Come se non ne avesse bisogno: agita un pugno e gode. Terza la Lazio che nessuno considerava a inizio campionato. Terzo Pioli che molti avevano preso per una scelta un po’ così. Terzo lui. L’uomo sbagliato che fa cose giuste. Quarantamilacentodiciannove spettatori paganti per Lazio-Verona, ovvero il record dell’ultima giornata di Serie A, ovvero anche una vittoria implicita che ha un valore maggiore di quelle esplicite sul campo: sei nelle ultime sei partite. Perché all’Olimpico sponda Lazio non ci andava nessuno per lui: sopportato, criticato o detestato. Un presidente perennemente contestato: “Non spende”, dicevano. E quindi lo chiamavano Lotirchio. “Mi criticano perché ho tolto tutti i privilegi alla curva”, rispondeva lui. La verità dipendeva dalla fonte e dai risultati. La verità di oggi è che il brutto Claudio, lo scorretto Claudio, l’impresentabile Claudio funziona. A ogni gol di Felipe Anderson quel pugno si stringe sempre di più: l’ha pagato quasi otto milioni, non poco per la Lazio, e oggi ne vale almeno il triplo. Il primo anno aveva fallito e il Lotito che in molti hanno dipinto avrebbe potuto cederlo, no? Invece l’ha tenuto, confermato, coccolato. Ora va. Trascina la Lazio e i suoi investimenti. Lo venderà? E’ la domanda che oggi è vietato formulare, perché la risposta per il pubblico laziale è un fatto: l’estate scorsa, tutti dicevano che Lotito avrebbe ceduto Candreva. E lui: “Non lo vendo a nessuno”. Ha mantenuto la parola. Contro la vulgata, contro le certezze preconcette. Quindi di Anderson non si chiede. Meglio immaginare la proprietà transitiva delle trattative: se non l’ha fatto l’anno scorso, non lo farà quest’anno. Punto.

 

Lotito è discusso, e per molti versi discutibile. Dice male cose sulle quali bisognerebbe riflettere. E’ questo il guaio suo, il più grande. L’esempio migliore è la storia della telefonata rubata con il direttore sportivo dell’Ischia. Quella di “con il Carpi e il Frosinone in serie A siamo rovinati”. Lasciando un secondo da parte il come e perché siamo venuti a conoscenza di quella frase (ovvero un’intercettazione in cui non c’è traccia di reato, ma è finita comunque sui giornali), il modo con cui s’esprime è da brividi: la sensazione collettiva è che intendesse dire che forse bisogna fare qualcosa affinché Carpi e Frosinone in A non ci vadano. Ora, è ovvio che è inaccettabile, agghiacciante, terrificante. Ma se tralasci il tono vagamente inquietante e ti concentri sul tema, allora scopri che dice una cosa che merita attenzione: il calcio italiano deve porsi il problema di funzionare soltanto in microrealtà, che costano poco e che però ricavano poco. Per la Lega e per la Federazione questo non può non essere un campanello d’allarme. Non si può trascurare che se in Serie A ci sono Sassuolo, Empoli, Carpi, Frosinone e Chievo il valore commerciale del campionato si riduce. E’ un problema di forma, quello che riguarda Lotito. Che non è trascurabile, visto che il presidente della Lazio è pure consigliere federale e, diciamolo, non perde occasione per provare a farsi detestare. Perché il caso Tavecchio dell’estate scorsa sta ancora lì a ricordare al paese che Claudio si fece in quattro per salvare l’indifendibile candidato alla presidenza della Figc per interessi tutti suoi prima che dell’intero sistema. In quei giorni e in quelli successivi Lotito era esattamente l’opposto di oggi: visibile ovunque e comunque, presente a se stesso e agli altri. Come ha scritto a settembre Fulvio Paglialunga: “A gennaio 2013 si doveva votare il presidente della Lega di Serie A, e Andrea Agnelli non voleva più Maurizio Beretta. Voleva rompere un pezzo di governo del pallone e cambiare facce. Puntava su Abodi, e Lotito no. E infatti fu proprio quest’ultimo lo stratega del fallimento di Agnelli: fece andare a vuoto le candidature di Abodi e Simonelli (sostenuto da un timido Galliani), quindi ha raggruppato molte piccole società e ha vinto. Beretta presidente, Lotito trionfatore: e fuori dagli accordi club che, di fatto, rappresentano il 70 per cento dei tifosi italiani. Del consenso esterno sostanzialmente se ne frega, le manovre interne sono il suo forte. E sono ciò che gli ha permesso di raddoppiare, quindi di rafforzarsi e di essere l’unico vincitore della feroce battaglia per Tavecchio in Figc. Ha partecipato a tutte le assemblee, ha sfidato chiunque, con il suo modo di fare non necessariamente diplomatico (se si cerca ‘Lotito rissa’ su Google, escono liti a volte anche manesche con De Laurentiis, Ulivieri, alla ‘Domenica Sportiva’, con Zamparini, Abete e altri ancora), ha ignorato ogni accusa e difeso il suo candidato – che in fondo era lui stesso – non necessariamente con argomenti convincenti, ma solo per difenderlo, mentre ancora una volta operava con astuzia politica, andandosi a riprendere i tasselli che Malagò cercava di portare via, richiamando società (anche in cambio di favori di mercato, come sempre tutto legittimo, tutto nelle pieghe delle norme), anticipando comunicati dei ribelli per bruciarne le intenzioni, operando da squalo della Prima Repubblica ma dicendo di essere osteggiato perché lui è il nuovo. Quindi, ecco che ritorna, “dà fastidio”. E alla fine ha vinto lui, anche in questo caso emarginando componenti fondamentali come arbitri, allenatori, calciatori e società come Juve e Roma. Dunque rispondendo a giochi di potere e non necessariamente alla logica. E dopo la Lega e la Figc gli mancava la Nazionale, per completare la sua anche un po’ esibizionistica collezione: voleva la delega agli Azzurri, oltre alla vicepresidenza, come premio al suo successo elettorale, ma poi ha mimato il beau geste della rinuncia quando Malagò, almeno sulle cambiali di Tavecchio, l’ha spuntata. Per finta, però. Perché poi Lotito è diventato il delegato ombra della Nazionale e il vice di fatto di Tavecchio.

 

Non è esattamente uno che si possa definire simpatico. E’ uno che rivendica il diritto di essere opportunista negli affari, ma che al contempo ha l’oggettivo merito di aver salvato una società come la Lazio dal fallimento. Era il 2004, il 19 luglio per essere precisi, le 15,10 per essere pedanti: versò 21 milioni di euro, quasi nove per superare i controlli precedenti all’iscrizione al campionato, il resto per avere un po’ di liquidità e ripartire, dopo l’incredibile crac di Cragnotti. Andarono in migliaia a festeggiarlo. Non lo conoscevano neanche, perché all’epoca nessuno sapeva chi fosse. Era “avulso”, per usare una parola che ha sempre amato e che continua ad amare. Provate a ripescare sue interviste o sue dichiarazioni: “Io sono avulso da questo mondo”, ma anche “questa è una situazione avulsa dal resto”, oppure “una volta lo sport era quasi avulso dal carattere economico, oggi è un mercimonio”.

 

Chi si chiedeva in quei giorni del 2004 chi fosse questo signore aveva più o meno questa risposta: “Il genero di Mezzaroma”. Era un imprenditore di successo da anni, a dirla tutta. Ma non mediaticamente rilevante, non giornalisticamente noto: uno di quei padroni di Roma un po’ invisibili e un po’ no. Nel 1987 aveva fondato la prima impresa di pulizie, la Snam. Poi altre tre: la Linda, l’Aurora e la Bonadea. Più una società di vigilanza. Appalti e milioni. Regione, provincia, comune, banche, ospedali, Asl. Però zero fotografie, nessun segno di riconoscimento, nessuna segnalazione mondana, nessuna voce, se non qualche piccolo incidente di percorso durante l’epoca di Mani pulite. Lotito come tanti, tranne che per il matrimonio: la moglie è Cristina Mezzaroma, figlia del celebre costruttore romano ex socio di Franco Sensi nella Roma. Nell’estate di dieci anni fa, questo circolava. Erano le prime informazioni, compresa qualche maldicenza. I maligni erano verdi, diessini, rifondaroli. Sospettavano. Dicevano che era proprio difficile che vincesse tutto lui. Tiravano fuori il complotto: l’amicizia con l’allora governatore Francesco Storace. Prima che lo facesse Lotito, arrivò la replica del presidente regionale: “Il momento di maggiore espansione del fatturato del gruppo Lotito con le aziende della regione è tra il 1995 e il 2000, quando governava il centrosinistra. Non dubito che fossero regolari anche le gare dell’epoca”.

 

Altro veleno. Quello del presunto tifo per la Roma: pareva l’avessero visto più volte in tribuna Montemario e non quando giocava la Lazio. Cattiverie, respinte con perdite da altre indiscrezioni: sulle divise della guardie giurate della Global Security, la sua società di vigilanza che alla Regione Lazio andava per la maggiore, c’era un’aquila biancazzurra. Altro che romanista: laziale da sempre, come avrebbe ripetuto qualche tempo dopo in una intervista: “Ho cominciato a tifare biancoceleste all’età di cinque anni, per merito del fidanzato della mia tata. L’amore per il calcio, però, è arrivato dopo. Ho anche giocato a livello amatoriale: facevo il portiere, il mio idolo era Yashin”.

 

Il calcio non lo conosceva. Un po’ quello che è successo dieci anni dopo con Massimo Ferrero, che stando alle ricostruzioni, alla prima riunione in Lega calcio, l’estate scorsa, è stato introdotto proprio da Lotito, così: “E mo’ so cazzi vostra...”. Un linguaggio poco lotitiano, per dir la verità. Perché a dispetto dei contenuti delle telefonate rubate, in pubblico il presidente della Lazio ha una specie di ossessione per la lingua e possibilmente per il suo condimento forbito: “Noi abbiamo una forte responsabilità, l’obbligo di promuovere un’azione di insegnamento civile. E di liquidare il paradigma negativo, il dispendio dei soldi, l’edonismo. Lo sport dev’essere un elemento catartico com’era in Grecia”. Catartico è un’altra parola che adora, viene subito dopo “avulso”. Una volta con la Gialappa’s Band, però, gli scappò un catarsico: “Lo feci apposta, per provocarli. Per favorire la coagulazione tra sport e umorismo”. Perché è ovvio che lui non sbaglia: racconta spesso che a scuola era il migliore della classe, così bravo che gli altri compagni lo volevano picchiare. Non ne sbagliava una e quindi metteva in difficoltà gli altri alunni pecoroni. I professori, invece, lo stimavano. Gli volevano dare un premio, anche. Qui la biografia ha un buco: c’è chi dice che la targa era quella di miglior studente del centrosud. A 48 anni, Claudio ricorda un’altra versione: “Non ero il migliore del centrosud, ma di tutta Italia. La miglior pagella: la media del 9, ahò”. Un fenomeno che lo spirito dell’insegnamento di buone maniere e saper vivere l’ha imparato in famiglia e poi l’ha studiato all’università. “Non nego che il latino e il greco possono essere utilizzati per stordire l’interlocutore. Ma lo sport non può essere disgiunto dalla cultura. Nel calcio ce so’ troppi analfabeti”. Rivendica la forza di essersi fatto da solo. Il padre era un dirigente di polizia di origini umbre, la madre una signora di San Lorenzo di Amatrice. Dopo il Classico, la facoltà di Pedagogia fino alla laurea: è lì che Lotito ha affinato le tecniche del moralizzatore. Adesso è complicato farlo credere, però è così che si presentò nel mondo del pallone: come quello che non avrebbe speso più di quanto necessario e che non sarebbe sceso a patti con le curve. “Nell’Ottocento i ricchi si davano alla caccia alla volpe: era di moda. Poi fu la volta delle scuderie e dei cavalli. Nel secolo scorso, negli anni 50, ricchi e arricchiti si sono buttati nel calcio, il vezzo è diventato acquistare un club. Senza badare ai conti. A volte si ha l’impressione, e mi riferisco alle tasse, ai pagamenti dell’Iva, al rispetto dei contratti, alla verità dei bilanci, che nel calcio le leggi non esistano. Un territorio franco. C’è la tivù, ci sono i miliardi facili, il tifo impazza… siamo forse in un territorio franco? Io mi batto per il ripristino della legalità, per il rispetto delle norme. E con una legge uguale per tutti. Non accetto posizioni distruttive, combatto i tifosi di professione. Amo gli empatici, sospinti dalla passione. E poi non mi riconosco, per la vita privata. Non lascio avanzi nel piatto. Nel lavoro applico dettami morali ed etici. Ma non sono tirchio, è una bufala giornalistica”.

 

[**Video_box_2**]Entrambi gli intenti sono in una certa misura stati rispettati: i conti della Lazio sono in ordine, i rapporti con gli ultrà sono stati azzerati. Questo gli ha portato oggettivamente un sacco di guai: la contestazione della curva laziale, durata anni, si basava sulla sua scarsa propensione all’investimento, sull’idea che lui una squadra forte non la volesse costruire. Ma pare quantomeno plausibile che il suo prendere le distanze dal tifo organizzato abbia accelerato la distanza che il tifo ha preso da lui. Bravo, Claudio il moralizzatore. Bravo e birichino perché oggi quelle dichiarazioni fanno a cazzotti con l’idea e la pretesa di essere al centro di tutto: io sono bravo, io ho fatto ciò che altri non hanno fatto in dieci anni, io conto e gli altri non contano nulla. L’apparato lessicale e d’atteggiamento che l’ha reso antipatico a molti e ostile a diversi. “Io do fastidio”, ripete a chi gli chiede perché in tanti lo criticano. L’idea di aver sbagliato o di sbagliare non gli passa per la testa, così come non nota che c’è un oggettivo problema se il principale provvedimento che potrebbe prendere la Figc del presidente-amico Tavecchio avvantaggerebbe soprattutto lui: liberalizzare la possibilità di avere più squadre. Multiproprietà, si chiama, ed è un tema assai importante in Italia come all’estero. Ma da noi il più interessato è proprio lui, padrone della Lazio e pure della Salernitana in Lega Pro.

 

Il confine è sottile e Lotito si muove sempre con poca grazia. Però adesso ha ragione lui: scorretto e non esattamente carino. Uno che all’internazionalizzazione della Roma americana ha risposto con la lazionalizzazione della sua squadra. Fa battute, accusa, critica, parla, a volte straparla. Però vince. Quest’anno le ha indovinate tutte. Il direttore sportivo che ha fatto gli acquisti giusti, l’allenatore, i giocatori. Lui. Detestato e spiacevole. Efficace, però. Perché se parti come il reietto con una squadra che non va da nessuna parte resti reietto. Se la squadra funziona può cambiare tutto, non chi sei, ma che cosa pensano gli altri di te.

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