Vale ancora
Si ritroveranno ancora una volta tutti in fila, a tre a tre, ad aspettare la luce verde. Il Motomondiale riparte, le solite tre classi, i giovani che aprono, l’intermezzo della Moto2, infine la gara che tutti attendono, la MotoGP, quella dei grandi, quella dei campioni. Ci sono i graditi ritorni, della Suzuki e della Aprilia, la speranza Ducati, competitiva finalmente nei test invernali e griffata Italia con Dovizioso e Iannone, ma saranno ancora in quattro a lottare per il titolo, i soliti: la Spagna a motore, quella dei Marc Márquez, l’uomo da battere, il numero 1, Daniel Pedrosa, l’eterno piazzato e Jorge Lorenzo, l’ormai ex primattore diventato grande sfidante. Con loro la storia recente di questo sport, Valentino Rossi, considerato troppo presto bollito, ora tornato davanti, voglioso come non mai di far vedere il suo ruotone posteriore a tutti quanti.
Si inizia in Qatar, circuito di Losail. Le luci rosse si spengono, le moto scattano, la mano sulla manopola dell’acceleratore è ancora forte, la moto tirata a tutta in rettilineo, perché in rettilineo nulla conta se non andare al massimo. La velocità è alta e quelle due ruote sembrano essere su di un filo di ragnatela, fragili e poco rassicuranti. Ma è tutto dritto e quasi non ce se ne accorge. Il bello viene dopo, quando il nero dell’asfalto cambia direzione e la mano destra lascia il gas, le dita e il piede tirano i freni e il corpo si inclina a contrastare la gravità. E’ lì che si fa la differenza. E’ lì che contano i millesimi, “perché di millesimi si tratta”, e a ogni anno che passa, a ogni primavera che ti allontana dai vent’anni, ne perdi qualcuno a frenata. “E’ naturale, succede a tutti. Capisci che è l’ora di smettere quando quei millesimi che perdi diventano troppi di più di quelli che impiegano i tuoi avversari più giovani”. Era il 30 settembre del 1967 quando Mike Hailwood, pronunciò queste parole. Il britannico era scuro in volto nonostante la vittoria nel Gran premio del Canada. Agostini infatti si era piazzato alle sue spalle e, nonostante la parità di punti, aveva vinto il titolo mondiale della 500: 46 punti e 5 vittorie per entrambi, ma 3-2 per quanto riguarda i secondi posti e alloro all’italiano. Mike “The Bike”, aveva 27 anni, 4 Mondiali 500 vinti, la certezza di essere stato il migliore, la consapevolezza che con quell’Agostini lì, che aveva due anni in meno e tanto gas nel polso destro, c’era poco da fare. “Frena dopo e piega prima”, disse, “sta qui la differenza, nei millesimi che riesce a guadagnare in curva, non c’è altro, è poco, ma su di una moto è tutto”: fu il suo addio alle due ruote.
Gli anni mangiano millesimi. Questione di riflessi, in parte, questione di consapevolezza, soprattutto. A vent’anni il futuro è lì davanti, sembra infinito e per sempre, sembra garantito. Poi i chilometri dietro le spalle aumentano e l’orizzonte che sino a pochi anni prima sembrava lontano, si fa più vicino. Le responsabilità si fanno sentire e si aggrappano ai freni. E i millesimi diventano decimi e a ogni giro aumentano. Così per tutti, così è stato anche per Valentino Rossi.
The Doctor ha compiuto 36 anni il 16 febbraio. Trenta di questi li ha passati in pista su di una moto, è il meno giovane in gruppo e ha quasi il doppio degli anni del bicampione del mondo in carica Marc Márquez, uno che nella vita vuole vincere tutto e battere tutti i record, per sua stessa ammissione. Trentasei a ventuno, ossia molti millesimi in più, che sommati fanno decimi che in una gara sono secondi e secondi pesanti. Almeno stando a Mike “The Bike”. E secondi sono stati l’anno scorso, minuti gli anni prima, perché l’età avanza per tutti e poco ci si può fare. Ma con Valentino le cose non sono mai semplici e anche gli anni hanno un loro percorso ondivago, non si sommano, si altalenano. Per Vale i millesimi contano in modo diverso, viaggiano a seconda dell’umore, si accumulano sulle ruote come la rugiada sui prati, basta un po’ di caldo per farla scomparire, è ciclica, mai permanente. Lo hanno dato per finito due volte. La prima nel 2006 quando venne battuto prima da Nicky Hayden e l’anno successivo da Casey Stoner, poi nel 2010, ai tempi dei litigi in Yamaha e del passaggio in Ducati. Male, malissimo, sempre distante, senza mai lottare per la vittoria. Ma Rossi si è sempre ripreso e l’anno scorso ha concluso la stagione al secondo posto del Mondiale, migliorando costantemente gara dopo gara, come un novellino al primo anno. I millesimi a un certo punto della stagione sembravano essere scomparsi, come se per lui l’equivalenza Hailwood non valesse: lui dà gas e sulla moto sa ancora fare la differenza, ma la sua manopola è umorale, quando si diverte diventa incontenibile, altrimenti veleggia a vista, senza rabbia né ambizione.
In 19 stagioni Valentino Rossi ha corso 312 gare, ne ha vinte 108 ed è salito sul podio 196 volte; ha vinto tutto, nove Mondiali e per quattro volte si è classificato secondo. Meglio di lui solo Giacomo Agostini (15) e Angel Nieto (13), per Mondiali vinti, solo l’italiano per gran premi conquistati (122), ma erano altri tempi e i piloti spesso correvano contemporaneamente in più categorie. E’ stato l’ultimo pilota a vincere in 500, il primo in MotoGP, dopo aver conquistato l’alloro anche in 125 e 250: mai nessuno era riuscito ad affermarsi in quattro classi, nemmeno quando le categorie erano cinque e si poteva competere in tutte allo stesso tempo.
Risultati incredibili, eppure non sufficienti a spiegare perché il motociclismo a cavallo dei due millenni sarà ricordato come quello di Valentino Rossi. The Doctor non è stato solo un pilota, è stato un mattatore, è stato carisma e inventiva, talento e imprevedibilità, ha segnato usi e costumi del Motomondiale degli ultimi vent’anni. E lo continua a fare.
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Si è presentato al grande pubblico nel Gran premio di Malesia del 1996, sesto, capelli lunghi alle spalle e sguardo un po’ perso nel tentativo di capire cosa gli stava attorno. Ha impiegato poco a comprenderlo. Ha vinto il suo primo Gp dieci gare dopo, a Brno, in Repubblica Ceca e da lì non ha più smesso. Campione del mondo 1997 in 125, nel 1999 in 250, nel 2001 in 500. L’intermezzo tra questi successi sono vittorie parziali, qualche caduta e rimonte sorpasso dopo sorpasso. Vinceva, come tanti prima di lui, come Max Biaggi, a quei tempi la massima espressione del motociclismo italiano, come prima di lui Umberto Masetti, Libero Liberati, Giacomo Agostini, per restare all’interno dei confini italiani. E’ il contorno però a fare la differenza. Valentino cambia taglio di capelli e colore, fa diventare il suo casco una nuova forma d’arte, si inventa personaggi, sponsor finti ed esultanze.
Nel 1997, il 18 maggio, al Mugello, Rossi stacca tutti i suoi avversari, vince per distacco, cosa non comune in 125. Nel giro d’onore non si limita alle impennate, alla bandiera nazionale sventolata davanti agli altri, al salutare il pubblico, magari con un burnout (la pratica di fermarsi, inchiodare al suolo la ruota anteriore e dare gas alla posteriore facendola girare a vuoto sull’asfalto per generare una nuvola di fumo). Si ferma a bordo pista lì dove ci sono i suoi tifosi, gli porgono come premio una bambola gonfiabile, bionda, abiti succinti e una scritta sul retro della maglietta: “Claudia Skiffer”. Il riferimento è a Max Biaggi, l’italiano più applaudito, al tempo impegnato in una relazione con l’altra grande top model dell’epoca, Naomi Campbell, e soprattutto colpevole di aver dichiarato poco tempo prima, “Valentino Rossi non mi preoccupa, ho vinto in 125 prima di lui, lo continuerò a fare quando correrà contro di me”. E’ l’inizio di una serie di gag e travestimenti che avranno grossa risonanza mediatica e che renderanno le vittorie di Rossifumi – come si faceva chiamare allora in onore di Norifumi Abe, il capellone giapponese che nel 1994 a Suzuka da debuttante duellò per la vittoria in un continuo di sorpassi con due campioni come Schwantz e Doohan, cadendo nel tentativo di allungare sui rivali una volta in testa – un evento, qualcosa di unico e irripetibile. A Donington, a due passi da Sherwood, diventa Robin Hood, poi carica sulla moto un pollo, in onore di uno sponsor inventato, un angelo, si infila in un bagno chimico, gioca a bowling con gli amici al posto dei birilli a bordo pista, incontra Biancaneve, si veste da carcerato. E lo fa in modo spontaneo, senza spocchia.
In uno sport di matti e per matti, come è da sempre riconosciuto il mondo delle moto, si erge a più matto. Diventa il personaggio che sdogana il motociclismo fuori dalla cerchia degli appassionati facendolo diventare passione popolare, tanto che negli anni dei cinque titoli mondiali consecutivi (1 in 500 e 4 in MotoGP) dal 2001 al 2005, il Motomondiale sopravanza per fama e appeal mediatico, per la prima volta nella storia, la Formula 1.
Rossi innova, rende pop le due ruote a motore. Lo si riconosce subito in pista, con quel suo giallo elettrico sulle braccia, con il suo casco coloratissimo, che cambia, si evolve, diventa fumetto e pop art, una tartaruga e un pallone, la sua pupilla o la sua faccia basita. Basta osservarlo da lontano, alto dieci centimetri (1,82 ) in più della bassezza media dei piloti, sulla moto ferma sembra goffo, quando è in sella è sgraziato, ma la guida è perfetta e riesce a fare la differenza a ruote finite, quando l’aderenza inizia a latitare e i tempi si alzano. Per tutti, non per lui. Le gare di Rossi sono un crescendo musicale che diventa assolo negli ultimi giri.
Ma non è solo colore The Doctor, in lui c’è soprattutto l’indole del gran pilota, capisce prima degli altri i cambiamenti del mezzo. E’ il più lesto ad adattare il suo stile di guida nel passaggio dai 500 cc ai 990 cc (MotoGP), e poi nella discesa agli 800 cc nel 2007 (anche se a fine anno sarà terzo in classifica), lo ridisegnerà con il passaggio alle 1.000 nel 2012. Staccate al limite, aggressive, ma dritte senza derapata e piede sinistro che lascia la pedivella per avvicinarsi al terreno. I bolidi da pista che sembrano diventare motard, mai nessuno aveva osato tanto. All’inizio era il solo, ora sono la quasi totalità.
Valentino Rossi è veloce, spericolato, ma mai pericoloso, doma la moto sapendola assecondare. Non è un pilota ingegnere, di quelli che leggono le telemetrie e agiscono in base ai dati rilevati da un computer, il suo motociclismo è sensazioni. La sua messa a punto è sempre lunga e problematica, a volte completamente errata, ma si aggiusta (quasi) sempre nello scendere in pista al momento della gara. Perché è lì che riesce a correre al limite, al massimo delle sue possibilità.
La moto è infatti velocità ed equilibrio, forza ed eleganza, agilità. Sulle due ruote si danza, ci si rannicchia, quando è sparata sul dritto, ci si distende, quando si curva, si saltella da una pedivella all’altra quando le esse costringono la moto a piega e contropiega. In pista è soprattutto tempo, il minore possibile, e senso del limite. “Il trucco è toccare l’asfalto da piccolo e ricordarselo duro. Il resto viene da sé, rimanere in piedi e tenerseli tutti alle spalle è una conseguenza”, ironizzò il primo grande campione delle due ruote, il britannico Geoff Duke, intervistato dopo la vittoria del suo primo titolo mondiale. Sapere fino a dove ci si può spingere e andare quel minimo oltre per battere tutti rimanendo in piedi, questo è il cosiddetto limite. Arrivare a capirlo non è facile, perché si rischia di andare incontro a scivolate e figuracce, se va bene, al farsi male, se va peggio. Qui sta la differenza tra un campione e un piazzato, trovarlo al più presto e spostarlo in avanti il più possibile. Valentino Rossi per anni lo ha spostato troppo in avanti per tutti gli altri, lo ha smarrito, poi se ne è riappropriato, tornando a essere il migliore in assoluto, prima di dovere ancora abdicare. Una caduta al Mugello, la frattura di tibia e perone e un anno compromesso, poi la scelta di sfidare tutti ancora, come anni prima quando decise di abbandonare la moto più forte, la Honda, per salire sulla cugina sfigata, la Yamaha. Il passaggio in Ducati è difficile, la moto non reagisce come vorrebbe, è troppo spigolosa e Rossi non si trova a suo agio. E’ un rapporto che non funziona: il massimo dell’ingegneria motociclistica italiana incapace di trovare le soluzioni richieste da The Doctor e lui incapace di dettare la linea, di domare la Desmosedici, come sino a pochi anni prima riusciva a Loris Capirossi, in origine, e a Stoner, poi. L’anno peggiore chiuso con il momento peggiore, la morte di Marco Simoncelli, suo collega, ma soprattutto suo grande amico.
[**Video_box_2**]Rossi cambia di nuovo, ritorna in Yamaha, ma è ancora lontano dai primi. Qualcuno gli consiglia di ritirarsi, che ormai ha un’ètà, che è inutile accumulare piazzamenti e sporcare la sua immagine di vincente. I dottoroni e gli espertoni di stampa e televisione, dicono che il suo tempo è finito, che i nuovi sono imprendibili. Lui sorride meno di un tempo, come se l’incidente capitato all’amico lo condizionasse e da quel ricordo non riuscisse a uscirne. La vittoria ad Assen, Olanda, lo rincuora, ma passa il 2013 sempre costantemente dietro a Pedrosa, Márquez e Lorenzo. E così doveva essere anche il 2014, lui vecchietto che rimanda il ritiro, agnello sacrificale di giovani centauri affamati. L’inizio è buono, poi due passaggi a vuoto, un’altalena di piazzamenti e podi, infine un fatto inaspettato. Rossi si presenta a Silverstone, in Gran Bretagna, con il sorriso, con il divertimento nei polsi e la voglia di ritornare a mettere gli altri dietro. Finisce terzo, poi va a vincere a Misano e in Australia, concludendo in crescita la stagione, come fosse un ragazzino che è riuscito a trovare confidenza con il mezzo solo alle ultime gare.
Valentino riparte da Silverstone, la voglia di rivincita è la stessa, nei test invernali si è divertito, ha beccato qualche decimo, ma sul passo di gara era coi primi. Soprattutto è tirato a lucido come non accadeva da qualche stagione. Ora è di nuovo pronto a stupire. Davanti a lui c’è il decimo Mondiale da vincere, c’è l’ultimo record da battere, quello di anzianità.