That win the best
Molto meglio la Juve
Londra. Lo dico a denti stretti e con il cuore un po’ appesantito, ma in questo torneo che seguo distrattamente, si chiama Champions League, tifo per la Juventus. Nonostante la manifesta inferiorità del calcio italiano, nonostante la strafottenza dei dirigenti bianconeri, nonostante sul campo sia trascinata dalla controfigura di un capobanda della Mara Salvatrucha, nonostante tutte le motivazioni che si potrebbero addurre per gufare contro la squadra di Allegri sento il dover morale di sostenere l’unica forza di interposizione al potere smisurato del gel, delle pubblicità di mutande, del calcio circense, dei brand globali, della superiorità antropologica degli eredi del tiqui-taca che commettono il parricidio, che è un po’ come Frankenstein che ammazza il medico di cui porta il nome. Il mio è una specie di “non possiamo non dirci juventini”, un grido estremo e pronunciato di malavoglia ma con una certa fierezza, per mettere un argine al calcio bello e pettinato. Penso con trasporto a uno scomposto tackle di Chiellini su Messi, e forse significa soltanto che devo vedere un analista, ma forse è anche il fotogramma mentale del riscatto da un mondo calcistico e d’immagine che, sia detto con tutto il rispetto del mondo, ha rotto i coglioni. E questo vale a prescindere da chi passerà il turno oggi. Sembra parecchio dura per il Bayern e pure Lapalisse Guardiola dice che il Barcellona non è il Porto. Una massima simile va parecchio anche nella redazione del Foglio: “Il brandy non è il porto”.
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Il mondo retorico del calcio da qualche anno vive di un nuovo luogo comune, quello dell’esaltazione dell’applauso al campione da parte della tifoseria avversaria. In questi giorni di Real Madrid-Juventus ci hanno già fatto venire la nausea con la riproposizione commossa dell’applauso del Bernabeu a Del Piero, e non c’è volta che commentatori e telecronisti – seduti a chiappe strette sulla punta della loro sedia – non si sdilinquiscano per il tributo sportivo al fuoriclasse nemico. La pratica è ormai stucchevole quasi quanto le lezioni di vita a partire dal calcio di Alessandro Baricco, che non pago di averci sbronzati di frasi fatte sull’Argentina, ha dedicato altre due pagine di Repubblica al derby Boca-River per spiegarci con originalità che il pallone è l’oppio dei popoli, e che tanti violenti allo stadio sarebbero più violenti nella vita privata se non avessero la partita di pallone. A quando un approfondimento sul fatto che tifiamo una determinata squadra di calcio vincente per cercare il riscatto dai fallimenti nella vita privata? Comunque. Doveva pensarci un inglese come Steven Gerrard, a gridare a tutti che il re è nudo e il tifoso del Chelsea stronzo. Quello di Gerrard è l’addio alla Premier League più lungo del mondo (per fortuna Osvaldo Soriano non c’è più, altrimenti ci avrebbe sicuramente scritto un racconto, ambientandolo in una serie minore sudamericana), e da qualche partita l’allenatore Rodgers gli concede standing ovation a caso verso la fine delle partite del Liverpool. Domenica a Stamford Bridge i tifosi del Chelsea lo hanno perculato per tutto il match, ricordandogli lo scivolone contro di loro che un anno fa costò ai Reds il titolo. Poi, il lungo e sentito applauso alla sostituzione, Mourinho molto commosso ed editorialisti sportivi pronti a vergare pagine immortali. Però Gerrard non è stato al gioco, e ha detto che lui dell’applauso di quei buffoni dei tifosi blues non se ne fa niente, che preferisce gli applausi dei suoi tifosi, e che se avesse voluto farsi applaudire da altri sarebbe andato in altre squadre più vincenti. C’è solo una cosa che non torna: nell’elenco di queste squadre vincenti, Gerrard mette pure l’Inter. Un altro scivolone, un anno dopo.
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Quello fa la capriola, però senza convinzione perché non era un’esultanza ma un messaggio cifrato all’ex presidente della sua squadra; per il vecchio principio per cui il salto mortale solitamente non si fa ai funerali, la curva della vecchia squadra la interpreta come un’esultanza, e s’incazza di brutto. Lui allora segna di nuovo e non esulta per niente, perché tanto il messaggio all’ex presidente è già arrivato, ma a quel punto l’altra curva è confusa: ma che fa, esulta, non esulta, non potrebbe decidersi? Per peggiorare la situazione il giorno dopo sui social fa un video di scuse concettualmente confuso e poco sostenuto dal congiuntivo, spiegando che non voleva mancare di rispetto a nessuno. E, del resto, di video postumi in cui un calciatore dice che voleva mancare di rispetto a tutti non me ne ricordo molti. Ma insomma, Hernanes, non poteva esultare per i gol ed evitare d’infliggerci questa telenovela brasiliana di serie B?
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Ho osservato con attenzione il 6-0 con cui il Manchester City ha fatto retrocedere il QPR domenica. Perfetto, meraviglioso e molto inglese (a partire dal punteggio, che ricorda con eleganza un altro sport che abbiamo inventato noi, il tennis). Ho ripensato poi all’8-0 con cui il Barcellona ha spazzato via il Cordoba dieci giorni fa. Eh no, signori, qui siamo alla pagliacciata, al salto dello squalo pallonaro. Il 6-0 è regale, lo 0-8 circense. La Liga ormai c’entra poco con il calcio, è pornografia pura. Può piacere, figuriamoci, ma se qualcuno venisse a dirmi che John Holmes era il re delle pellicole romatiche gli direi di smetterla di bere.