Travaglio addormenta il Giro, l'urlo di Ulissi lo sveglia
L’altro Giro di Maurizio Milani
Ieri al termine della tappa ai ciclisti stravolti dalla fatica e dalle cadute è stato imposto di partecipare alla presentazione del nuovo libro di Marco Travaglio, Slurp. Ancora vestiti da gara hanno dovuto sentire l’autore parlare per due ore. Alla fine non c’è stata nessuna domanda. I ciclisti andando verso le docce commentavano tra loro: “Guarda cosa ci tocca fare per tener buono chi comanda in Italia e per far andare avanti il Giro”.
Alla Vuelta certe cose non succedono. Anzi. Una volta è venuto Peter Gomez a presentare un libro, che però era un libro sul ciclismo, con tante belle foto dei campioni degli anni Settanta. In più a ogni corridori ne ha regalato una copia. Travaglio nemmeno quella.
Salta su un altro ciclista: “Una volta alla fine della Manchester-Edinburgo, classicissima del nord, è venuto Gian Antonio Stella”.
Un altro: “A me è capitato di dover sopportare un convegno su ‘Stato e diritto’ alla fine di una tappa del Tour, relatore: Federico Rampini, in videoconferenza da New York. Però è stato interessante, purtroppo non sono stati stampati gli atti, mi sarebbe piaciuto rileggerli nei lunghi inverni quando ci esiliano al Sestriere”.
Un altro ciclista prende la parola: “Non capisco perché tutti questi letterati si appassionino di ciclismo. Comunque sentendo parlare Travaglio sono sempre più convinto di votare Ncd”
Amarcord – I campioni sono volti, fisionomie, nomi che richiamano imprese. Sono ricordo, condiviso, maglie rose e gialle, statue, quadri ogni tanto, a volte addirittura canzoni. Il resto è un collage di volti sfiniti, aria e sole in faccia, sconosciuti. Un esercito di nomi e cognomi senza pedigree, senza titoli e fotografie sui giornali. Sono i tanti, i più, la classe operaia della bicicletta, uomini di fatica e silenzio, i gregari. Sono l’altra faccia del campione, quelli che preparano il terreno, che danno tutto prima che arrivi il traguardo, balia e guida. Pedalano, sorreggono, guidano. Hanno nomi che non ricordi, nomi che parlano per loro, Tiralongo, Croci-Torti, Sforacchi, che sanno di fatica, che non trovi negli annali. Ogni campione ha i suoi: Carrea era l’angelo di Coppi, Corrieri quello di Bartali, Alonso l’ultima ruota di Indurain, Borgheresi quella di Pantani.
Fiuggi è Lazio, provincia di Frosinone, boschi di castagni attorno, acqua soprattutto. E’ storia antica, avanti Cristo, papale. Fiuggi è anche lavoro, fatica, ciclistica, gregariato. E’ terra di Valerio Agnoli, uno di quelli che a mani alzate sotto il traguardo non ci arriva, uno di quelli che in sella ci stanno più di tutti, che fanno avanti indietro tra testa del gruppo e coda a portar borracce, che quando tornano davanti menano forte, alzano il ritmo, fanno faticare gli altri, poi levano il disturbo, si fanno sfilare, sfibrare, proseguono piano e arrivano tardi. Agnoli al Giro non c’è, prepara il Tour con Nibali, si prepara a guidare Nibali, come fece nel 2013, quando lo Squalo conquistò la maglia rosa.
Faticatore, frangivento, di vittorie nemmeno a parlarne, un gregario non vince. Mai, quasi mai. Se succede è per sbaglio.
Anno 1953, trentasettesimo Giro d’Italia. L’anno prima Fausto Coppi lo vinse per la quinta volta, vorrebbe dedicarsi solo al Tour, ma Torriani, il patron della corsa, lo convince a partecipare con un lauto assegno. L’Airone si veste subito di rosa, trascinando i suoi compagni alla vittoria della cronometro a squadre. Alla sera festeggiano a cozze, ostriche e champagne. Il mattino Coppi non si alza, crampi allo stomaco, intossicazione alimentare. Lo rimettono in bicicletta, ma viene attaccato, va in crisi e perde oltre un quarto d’ora. Restano gli altri. Koblet e Magni, su tutti, poi un Bartali all’ultimo anno di carriera che al Giro chiede solo di non faticare troppo. Lo svizzero e l’italiano chiedono più soldi al patron per rendere interessante la corsa, Torriani promette ma non mantiene. Alla sesta tappa, Napoli-L’Aquila, 256 chilometri, in fuga vanno in cinque. Sembra un tentativo normale, diventerà storico. Clerici, Assirelli, Peeters, Metzger e Roks sfidano la pioggia in testa, dietro il gruppo prima insegue, poi protesta, chiede più premi per i traguardi, minaccia di disinteressarsi alla corsa. Lo fa. I cinque continuano ignari nella loro azione, Clerici e Assirelli staccano gli altri sugli strappi che portano alla città abruzzese, hanno notizia dal pubblico che dietro non inseguono e accelerano ancora. Clerici, che è quello messo meglio in classifica, chiede ad Assirelli di collaborare, promettendogli la vittoria, ma di quella promessa se ne dimentica alla vista del traguardo, sprinta e vince. Assirelli lo insegue, lo minaccia, vorrebbe riempirlo di botte, ma gli organizzatori riescono a separarli e a portare Clerici sul podio. L’attesa della premiazione è lunga 35 minuti, il tempo necessario per aspettare l’arrivo del gruppo. La maglia rosa ha quasi 14 minuti su Assirelli, 21 su Conterno, addirittura 34 su Magni. Carlo Clerici è svizzero, in carriera ha vinto solo una corsa minore, non lo conosce nessuno e di professione fa il gregario. Venne scelto da Walter Diggelmann, il suo primo capitano, perché parlava poco, tirava tanto e non si lamentava. Era uno coriaceo, che non mollava, che se c’era da soffrire soffriva e si sacrificava quando era il caso, cioè sempre. Magni era convinto che mezzora a quel signor nessuno poteva dargliela tranquillamente in ogni tappa e così portò avanti la sua battaglia con Torriani. Le trattative tra gruppo e organizzazione si sbloccarono prima della 15a tappa, la cronomentro sul Garda. Koblet e Magni sono sicuri di poter ribaltare la corsa, Clerici di difendere il primato. I campioni attaccano, lo svizzero non molla, non si stacca, rimane attaccato alle ruote dei più forti, manda addirittura in crisi Magni, che sul Passo Gardena va in crisi e perde altri tre minuti. A Milano la maglia la indossa lui, gregario sconosciuto, divenuto per caso vincente.