Il cambio di paradigma juventino alla prova della dura realtà blaugrana
La sconfitta, onorevolissima, della Juve a Berlino riapre l’eterno dibattito, quasi uno stream of consciousness collettivo su vittoria e sconfitta, fine e mezzo, destinazione e viaggio, pragmatismo ed estetica.
Tutto nasce dalla frase di Giampiero Boniperti, leggenda bianconera da 459 presenze, 179 gol e diciannove anni di presidenza, aforisma tanto famoso ed efficace da finire sulla maglia juventina come un manifesto programmatico, una selling line perfetta e accattivante: “Vincere non è importante, ma è l’unica cosa che conta”.
Un’iperbole, certo, una lucida, esagerazione per comunicare in poche parole il dna bianconero, da sempre ispirato da frenetica cultura del lavoro e del risultato, con la vittoria che diventa ossessione, obiettivo imprescindibile, ragione di vita.
Tutte cose sane, addirittura indispensabili se sei un atleta professionista, qualità decisive in un contesto come quello dello sport, dove la distanza tra trionfo e fallimento a volte è sottilissima: un rimbalzo sul palo, una frazione di secondo, una zolla d’erba che si alza e cambia tutto, come le cinquecento catenelle della Caterina di De Gregori.
Di più, è indiscutibile che questa filosofia negli anni abbia contribuito molto ai successi bianconeri. Giocatori scelti anche per la loro serietà, molto concentrati, instancabili lavoratori, “soldati” nel senso più lusinghiero del termine, poco distratti dall’ambiente torinese, protetti da sempre da una società forte e disciplinata, lontana dal dna più artistico e confusionario di altri club.
Oggi dopo la “bella” sconfitta di Berlino, quella frase sulla maglia fa perciò uno strano effetto.
La domanda invade non solo il campo da calcio ma quello della vita. Il dualismo permanente tra risultato e prestazione, tra il premio che speri di ottenere e l’impegno che ci metti, qualunque sia il trofeo che hai in mente, la Champions League o la donna che ti piace da matti, la promozione sul lavoro o quella all’esame di maturità.
E’ un tema enorme e riguarda tutto. Emozioni e speranza, la tensione verso l’obiettivo e le esperienze durante il percorso (da Malmoe a Berlino).
“Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare” diceva De Andrè. Ancora, Springsteen e Kerouac, il valore letterario del viaggio e della strada, il disordine delle emozioni mentre stai andando, e pazienza se non arriverai, o lo farai in ritardo.
Tutto molto letterario, indeed. Come all’opposto l’epopea della sconfitta, il senso di appartenenza di chi vince di rado, la naturale simpatia per il più debole.
Categorie dello spirito nobili, a patto di non perdere di vista la possibilità di godere, prima o poi.
[**Video_box_2**]Il tremendismo granata, fatto di tragedie e eroismi, il romanticismo estetico e piuttosto in ribasso di Zeman, il “mai schiavi del risultato” che la Curva Sud romanista ha orgogliosamente scritto per proteggere Luis Enrique, proprio lui, all’inizio della sua avventura romana. La maledizione del Benfica, quella di Bela Guttman, che lasciò il club promettendo di diventare il più implacabile gufo della storia. Ottimi risultati, in effetti, con la striscia oramai interminabile di finali europee perse.
Prospettive diverse. Angolazioni impreviste. Per me, che sono cresciuto più a carboidrati che a proteine, uscire a testa alta, cadere sull’ultimo metro, come hanno fatto Buffon e compagni all’OlympiaStadion dopo aver dato tutto, battuti con molto onore e qualche affanno dai più bravi, è parente stretto della vittoria.
Gli almanacchi parleranno solo di chi ha vinto, è vero, ma nel calcio e quindi nella vita ci sono molte altre cose che contano, caro Giampiero.
Il Foglio sportivo - In corpore sano