La Juventus avrebbe dovuto essere Wawrinka per battere il Barca-Djokovic. E' stata Murray
“Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better”. Il tennista svizzero Stan Wawrinka si è fatto tatuare questa citazione di Samuel Beckett. A furia di fallimenti, di eliminazioni ai primi turni, Wawrinka ha imparato a fallire così bene che domenica ha vinto il Roland Garros, il suo secondo Slam dopo l’Australian Open dell’anno scorso, due major vinti a quasi trent’anni, età negli anni Ottanta e Novanta proibitive per i tennisti (Borg e McEnroe hanno vinto l’ultimo major a venticinque anni, Edberg a ventisei, Wilander a ventiquattro).
Il fine settimana ha visto accavallarsi le fasi finali del Roland Garros con la finale di Champions League, due eventi diversi certo, ma con un filo conduttore comune: ad affrontarsi sulla terra rossa di Parigi e sull'erba dell'Olympiastadion di Berlino c'erano un grande favorito, il serbo Novak “Nole” Djokovic - numero uno al mondo che sta dominando la stagione lasciando le briciole agli avversari - e il Barcellona di Messi, Suarez e Neymar e uno sfidante già battuto sulla carta.
La Juventus è arrivata in finale da outsider, una squadra non certo scarsa, ma considerata inferiore al Real Madrid (eliminato in semifinale), al Bayern Monaco e al Chelsea. Un po’ come Wawrinka, giocatore di eccelso talento ma incostante, non un Roger Federer (che non vince uno Slam da tre anni – è fermo a quota diciassette, record storico – ma è sempre il numero due al mondo), o un Rafa Nadal (in questa stagione, peraltro, usurato e in declino, forse definitivo).
Djokovic sembrava aver già vinto il torneo, l’unico major che gli mancava e molti parlavano di Grande Slam (vincere i quattro tornei più importanti - Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e Us Open - nello stesso anno) che fra gli uomini non accade dal lontanissimo 1969 (Rod Laver). Ma Wawrinka non si è arreso ai pronostici, si è battuto, ha giocato al meglio, con un vincente dopo l’altro, grazie al suo splendido rovescio a una mano, ormai insolito in un circuito dove trionfano i bimani, deliziando il pubblico con rovescio passanto di lato alla rete che se l’avesse fatto Federer ce lo avrebbero riproposto nei secoli dei secoli.
La Juventus, avrebbe dovuto superarsi come Wawrinka (“videogame tennis” lo ha definito su Twitter l’ex tennista Andy Roddick, di soli tre anni più vecchio di Stan), invece con il Barca ha fatto come lo scozzese Andy Murray con Djokovic in semifinale. Sotto di due set, si è battuta, ha lottato. Non abbastanza, però.
John McEnroe nella sua autobiografia “You Cannot Be Serious” (ma lo confermano i suoi colleghi) dice che per uno sportivo la vittoria è soprattutto una non sconfitta, si gioca per allontanare la sconfitta, che, come la morte, incombe sempre, non tanto per la vittoria, breve e illusoria. Per scacciare “l’imago della fatal quiete” Murray si è messo a tirare ogni palla, a provare vincenti, senza aspettare, come suo solito l’errore dell’avversario. Ma era tardi, dopo aver vinto il terzo e il quarto set, si è sciolto nel quinto (6-1).
[**Video_box_2**]La Juventus, preso un gol nei primi minuti, era riuscita a pareggiare nel secondo tempo e a mettere sotto i favoritissimi blaugrana. Poi il (presunto, ma probabilmente c’era) rigore negato su Pogba e il successivo gol di Suarez (nato anche grazie alle recriminazioni bianconere per il rigore), l’hanno messa in ginocchio. E così invece della Coppa è arrivata la sesta sconfitta in finale per la Juventus, la quarta consecutiva. Ma, del resto, lo stesso Murray, a quota due major, ha perso le prime quattro finali. E stavolta, volendo essere positivi, ha perso molto meglio di altre volte (quando magari era favorita), è stata una finale diversa da quelle abuliche contro l’Amburgo nel 1983, il Real nel 1998 e il Milan nel 2003.
Per tornare a Beckett, ha tentato e ha fallito. Ma ha fallito meglio. E forse, a furia di fallire meglio come Wawrinka potrà rivincere la stregata Coppa con le Orecchie.