Perché nel calcio italiano fanno soldi soprattutto le squadre senza ambizioni
Al netto dei commenti prettamente tecnici, degli sfottò, del bagno di realtà fatto cadendo dal trampolino di un’iperbole troppo osè per poter essere rispettata (“Vincere è l’unica cosa che conta”), il post Juventus-Barcellona, finale di Champions League che ha visto prevalere i catalani per 3-1, insegna che se una squadra di calcio vuole ambire al top in Europa deve ottenere sì risultati sul campo, ma soprattutto aumentare esponenzialmente i ricavi, o rischia di essere una meteora nel cielo illuminato dalle solite stelle (Barcellona appunto, Real Madrid, Bayern Monaco, Manchester United e compagnia calciante). Il brand assume un’importanza capitale (si pensi al Milan, valutato un miliardo non certo per il parco giocatori attuale), il Fair Play finanziario costringe a tenere d’occhio i conti, una certa leggerezza nei bilanci non è più perdonata (si pensi alle licenze Uefa negate a Parma e Genoa, ma non solo), gli stadi di proprietà sono la chiave per fare soldi: il vecchio luogo comune per cui un imprenditore che vuole guadagnare non dovrebbe investire nel calcio forse non è mai stato così vero come in questi tempi. Tempi di rivoluzioni calcistiche impensabili poco tempo fa, almeno da noi, con società storiche fallite o impantanate nelle serie minori e tante “piccole” che si affacciano in serie A con l’intenzione di restarci: il Chievo da qualche lustro, e di recente il Sassuolo, il Carpi, il Frosinone. Queste ultime due citate da qualcuno come esempio negativo di un sistema che avrebbe bisogno di ben altri richiami per tornare a essere spettacolare. Maurizio Stirpe è presidente del Frosinone dal 2003; arrivato in serie A per la prima volta, parla già con la prudenza di chi conosce gli squali che lo circondano. Spiega al Foglio che fare soldi con il calcio in Italia è un privilegio di pochi, e non sono quei pochi che tutti abbiamo in mente: “In questo mondo è bravo chi riesce a farsi meno male – spiega – In Italia il pallone non è ancora un’impresa che riesce a produrre reddito”. Difficile dargli torto, guardando certi bilanci.
[**Video_box_2**]Paradossalmente “sta bene soltanto chi non lotta per grandi obiettivi – prosegue Stirpe – e riesce a mantenere una certa stabilità sportiva”, evitando di retrocedere e galleggiando in serie A, ma non troppo in alto, salvo eccezioni. Il patron del Frosinone pensa a società come Udinese, Chievo, Lazio, che da tempo hanno trovato una loro dimensione, alternano stagioni buone a stagioni discrete, e ogni estate riescono a vendere qualche giocatore prima sconosciuto e poi esploso, generando plusvalenze e reinvestendo. Chi lotta per la vetta si trova invece a spendere molto per ingaggi e acquisti, ma a incassare poco. In attesa del calciomercato, è difficile trovare chi scommetta sulla permanenza in A del Frosinone l’anno prossimo: “Noi stiamo studiando quei casi virtuosi – spiega Stirpe – per trarne esempio. Vogliamo che il calcio sia sostenibile per gli azionisti, che diventi un’attività autosufficiente”. Stirpe usa il linguaggio rodato di chi osserva la crisi del calcio italiano: parla di settori giovanili e brand da valorizzare, di fonti di ricavo da diversificare, di “zoccolo duro della squadra” da cui ripartire, di entusiasmo dei tifosi da incanalare nel verso giusto – c’è uno stadio da costruire a Frosinone, intanto si giocherà al Matusa. Sa che l’occasione è imperdibile, che è fondamentale azzeccare la prima stagione, come hanno fatto Sassuolo ed Empoli, e che “la crisi sta cambiando la geografia del calcio, non per niente anche in Italia arrivano acquirenti stranieri. Il Frosinone ha approfittato della situazione particolare – ammette – alcuni stereotipi, come quello delle neoretrocesse che una volta tornavano subito in serie A, non si avverano più”, ormai chi scende in B perde tutti i giocatori più forti e un sacco di soldi. “E poi sul campo siamo stati più forti”, sorride. Presidente di Confindustria Lazio dal 2007, Stirpe conosce pesi e contrappesi della Lega Calcio da tempo: usa parole di miele per i colleghi presidenti (“Tanti amici che provano a migliorare questo sport”), evita di parlare di Lotito e si sbilancia solo sull’inchiesta che ha colpito la Fifa: “Sono allergico alle poltrone occupate per troppo tempo. Questa storia nuocerà molto al movimento del calcio, ne mina profondamente la credibilità”.
Piero Vietti