Mister con i guanti
La strana estate di Walter Zenga, o la dimostrazione che se sei stato un portiere spettacolare non diventerai mai un grande allenatore
Li credono folli e forse a ragione, perché un po’ pazzi bisogna esserlo per prendersi certe responsabilità, per scegliere non gli scarpini ma i guantoni, il numero uno rispetto a qualsiasi altro numero. Portieri, gente strana, diversi per vestiario e atteggiamento, amati e detestati, perché parare dev’essere la normalità, la perfezione è dovuta e ogni errore viene ingigantito dalla sanzione, il gol subito. Portieri, gente di responsabilità ed ego, perché parare è una cosa, essere spettacolari un’altra e se pari e basta, anche se pari bene, al massimo ti scansi gli insulti, ma mai sarai amato dai tifosi. Stesso ruolo, due modi di interpretarlo, chi va alla sostanza, e chi cura anche la forma, per rendere indimenticabile anche un tiro innocuo a metà altezza. Modi diversi di stare in campo che ti segnano per sempre, che rimangono in te, diventano te. Anche quando i guanti li lasci e ti reinventi nel mondo del calcio, soprattutto se dalla porta passi alla panchina.
Walter Zenga apparteneva alla prima categoria, agli animatori della porta, perché alla bravura univa la spettacolarità del gesto, il tuffo a effetto, la parata che si faceva applaudire. Era furia e carisma, trascinatore e generale. Comandava e gestiva i difensori, parava e urlava loro in faccia errori e imprecisioni, esultava per parate e gol dei compagni, si voltava verso la curva e li incitava. E la curva si esaltava con lui. Perché Zenga era uno di quelli bravi per davvero, tre volte miglior portiere al mondo, uno scudetto e due coppe Uefa da protagonista, 58 presenze in nazionale, e un Mondiale, quello di Italia 90, giocato da saracinesca, senza subire un solo gol. Almeno sino a quell’uscita sventurata nella semifinale con l’Argentina di Maradona che spalancò la porta e regalò a Caniggia l’1-1. Finalissima all’albiceleste, a noi la “disgrazia” della finalina. Quella Coppa del Mondo fu immagine della sua carriera, fatta di numeri eccezionali e qualche errore clamoroso, papere che affrontava a testa alta rivolta ai tifosi, senza chiedere mai scusa, perché chiedere scusa non serve se hai il numero uno, se sei il numero uno; perché quello era il carattere, baldanzoso e fiero, primattore mai comparsa, leader in ogni caso.
Walter Zenga in Nazionale
Un carattere da capopopolo, da mattatore, che sapeva farsi valere, adattissimo per allenare, dicevano, perché quando ti trascini dietro i compagni, fare lo stesso dalla panchina sembra quasi scontato. Le carriere di Alex Ferguson, Bob Paisly, Franz Beckenbauer, Johan Cruyff, Carlo Ancelotti sembrano dimostrarlo: leader in campo e allenatori vincenti dopo il trasbordo. Tutti giocatori eccezionali e tecnici vincenti, tutti però giocatori di campo, non di porta. E questo è un dettaglio da non trascurare.
“Essere stato un portiere amato dagli spettatori per le parate fatte sul campo non fa di te un allenatore, anzi”. Ricardo Zamora è stato tra i numeri uno più forti della storia, forse il più forte con Lev Yashin e Gordon Banks, ma una volta seduto in panchina i risultati non furono gli stessi. “In venti anni di campo ho vinto qualcosa, sono stato il migliore per molto tempo, in venti anni di panchina ho vinto poco e non sono stato il migliore mai”, dichiarò alla fine della sua esperienza come tecnico dell’Espanyol nel 1961. Nessun grande portiere dal carisma strabordante è riuscito a diventare un grande allenatore. “Colpa del carattere. Se tu crei spettacolo è per soddisfare il tuo ego, per sentirti importante come un numero 10”, sentenziò Bruce Grobbelaar, portiere del Liverpool che sconfisse la Roma dopo i calci di rigore nella finale di Coppa Campioni del 1984, un giocatore divenuto famoso soprattutto per i balletti sulla linea di porta che contribuirono a far perdere la concentrazione ai rigoristi giallorossi. “Non abbattersi mai dopo un gol preso e ripartire come se niente fosse successo, se è qualcosa che ti fa essere grande in campo, allo stesso tempo ti frena fuori, in panca, perché lì devi guardare cosa succede e reinventarti ogni volta, non puoi permetterti di rimanere il pezzo di roccia che sei”.
Lo Zenga allenatore sembra riflettere le parole dei suoi colleghi. Carismatico, certo, ma non decisivo nella guida e nella gestione della squadra. Nella sua carriera giramondo, dalla Serbia agli Emirati arabi, passando per America, Romania, Turchia e Arabia Saudita, è andato incontro a due campionati vinti e a molti esoneri. Un po’ poco per un tecnico che sbandiera da anni il suo desiderio di allenare la sua squadra del cuore, l’Inter.
Poco come quanto raccolto in Italia se si esclude l’anno d’oro a Catania, stagione 2008-2009, chiusa con la salvezza e il record di punti (43) per gli etnei nel massimo campionato. Dopo l’addio al Cibali, per l’Uomo ragno c’è stato solo l’esonero dopo appena cinque mesi a Palermo. Ora la nuova possibilità datagli da Massimo Ferrero, la panchina della Sampdoria, stessi colori che aveva già difeso per due stagioni dopo la fine della sua esperienza interista.
Genova lo aveva accolto con entusiasmo, lui al solito modo aveva tranquillizzato tutti: “Sono state fatte cose fantastiche, ma sono qui per migliorare”. Implicita la promessa di grandi risultati e una nuova qualificazione alle coppe europee, perché “sono ottimista di natura, sono sempre positivo e non voglio essere di passaggio. Mi interessa lavorare bene”. E lavorare con le proprie idee, solo quelle. Una squadra a sua immagine, senza compromessi, neppure se il compromesso si chiama Antonio Cassano, giocatore di classe, ma appesantito da chili e anni, impossibilitato a rientrare in piani tattici fatti di pressing e ripartenze, di velocità e intensità. FantAntonio no, il diktat, quasi un “o lui o me” imposto alla società, nonostante gli attestati d’amore della tifoseria e le avances della presidenza.
Cassano alla fine è arrivato, nonostante i mugugni di Zenga. Il peso contrattuale il tecnico l’aveva perso due settimane prima, in quei primi novanta minuti europei della stagione. Il risultato è secco, imbarazzante, 0-4 in casa contro il Vojvodina (a Torino). Walter guarda la curva dei suoi tifosi con l’espressione di chi ha capito di aver sbagliato. Alza il braccio, si indica, si prende la responsabilità di quanto accaduto. Come non era mai successo, perché un numero uno, anzi il numero uno, non sbaglia. Mai. Neppure quando è evidente, quando è sotto gli occhi di tutti, neppure quando ci si gioca l’accesso alla finale dei Mondiali. Allora bastava un “ho sbagliato”, l’avrebbero capito tutti, può capitare dopo un torneo da migliore al mondo. Invece: “Solo Maradona ha capito tutto. Perché lui conosce il calcio: la verità è che è stato bravo Caniggia. E’ riuscito ad anticipare la mia idea di anticipare lui”.
Quando nel 1988 chiesero a Sepp Maier – numero uno della Germania campione d’Europa nel 1972, del mondo due anni dopo e del Bayern Monaco con il quale ha vinto tutto – perché avesse deciso di accettare il ruolo di allenatore dei portieri nel club bavarese e rifiutato le panchine di altre squadre del massimo campionato tedesco, rispose: “Non scherziamo, un portiere l’allenatore non lo dovrebbe fare, soprattutto se sei stato uno bravo”. Alla richiesta di spiegazioni disse: “Nella mia carriera ho sempre dovuto rispondere solo a me stesso. I portieri è meglio che facciano altro che allenare, vediamo il calcio in un modo distorto perché ci siamo sempre esaltati solo per la nostra bravura. Di tutto il resto ce ne siamo, bene o male, sempre fregati. Perché iniziare ora? I portieri restano portieri anche in panchina, non cambiano, rimangono cultori di loro stessi e non capiscono che l’occhio di un allenatore deve prima di tutto essere rivolto agli altri, a quanto avviene in campo, negli altri campi e al di fuori dal campo. Chi ha regalato spettacolo non capirà mai che in questo sport non conta il superfluo, ma la semplicità del gioco”.
Sepp Maier ritorna al principio, a quei due modi di interpretare il ruolo di portiere. Perché se è vero che sono pochi gli estremi difensori che sono riusciti a sedersi su una panchina, sono rarissimi quelli che hanno vinto qualcosa. E tutti portieri che badavano al sodo, piuttosto che allo spettacolo.
Il migliore di tutti resta Raymond Goethals. In campo si nota appena; sarà per la faccia da anziano che ha già a vent’anni; sarà per le squadre in cui ha giocato, Daring Bruxelles e Racing Bruxelles, non il gotha del calcio belga; sarà per il fisico gracile che non svetta sugli altri nonostante il ruolo, portiere; sarà forse proprio per il ruolo e per come lo interpreta. Raymond para e basta, fa l’essenziale, ai tuffi e alle uscite pazze preferisce osservare e utilizzare quello straordinario senso della posizione che gli permette di ritrovarsi sempre dove serve, anticipando avversari e pallone. Non un campione, un numero uno ordinario. Questo in campo, perché quando Goethals lo lascia per sedersi sulla panchina del RFC Hannutois, si capisce subito che qualcosa di non ordinario si è impadronito di quello squadretta: intensità, difesa altissima, pressing continuo e asfissiante, gioco sulle fasce e triangolazioni. Dalle serie inferiori al miracolo Sint-Truiden che prende dai bassifondi della seconda divisione e trascina sino alla lotta per lo scudetto. Poi la nazionale, la qualificazione al Mondiale 1970 e il terzo posto all’Europeo del 1972.
Raymond parla poco, studia e fuma tanto. In campo osserva, si informa, è ossessionato dal movimento collettivo della sua squadra: “Deve essere un giunco, piegarsi e rialzarsi in un solo movimento, sinergico”. Approfondisce, si interroga con i giocatori, azzarda, ritorna sui suoi passi, cambia in continuazione, non si arrabbia mai per un errore sotto porta o un passaggio intercettato, diventa una furia se l’errore è tattico. Le sue squadre si evolvono, si adeguano all’avversario quando questo è più forte, macinano gioco e chilometri quando è più debole. Vince. Negli anni Settanta il suo Anderlecht conquista due coppe nazionali, una Coppa delle Coppe e due Supercoppe europee dominando Bayern Monaco e Liverpool. Negli anni Ottanta con lo Standard Liegi vince tutto in Belgio e stupisce in Europa arrivando in finale di Coppa delle Coppe.
Non solo Belgio, va in Francia, a Bordeaux, in Brasile, dove vince il campionato con il San Paolo, in Portogallo e ancora in Francia, Marsiglia, il momento più alto di una carriera già eccezionale. L’OM è la creatura di Bernard Tapie, miliardario francese e politico socialista, oltralpe non ha eguali, ma in Europa stenta. E così il presidente pensa a Raymond, alle sue imprese europee. A dicembre va Bruxelles a prenderlo in aereo, ma l’allenatore è scettico, non vuole prendere una squadra in corsa e poi, a 69 anni, pensa alla pensione. Tapie gli fa recapitare a casa una cassa di sigarette e una di rum, narrano. Lui aspetta un mese, poi dice di sì. Franz Beckenbauer esonerato e Raymond di nuovo in panchina. I risultati sono immediati. Il Marsiglia cambia pelle, diventa una furia europea, raggiunge la finale della Coppa Campioni, ma a Bari, contro la Stella Rossa, lo tradiscono i rigori. “Sono molto incazzato”, dice alle telecamere, “abbiamo sbagliato, non so ancora dove, ma abbiamo sbagliato, non riaccadrà”. Accetta fischi e critiche, le prende in considerazione sigaretta dopo sigaretta. Studia e rende l’OM una potenza. Nel 1992 esce agli ottavi con lo Sparta Praga e un arbitraggio vergognoso; l’anno successivo vince. E lo fa battendo il primo grande Milan di Fabio Capello con una zuccata imperiosa di Basile Boli.
“Nella mia vita sono stato un discreto portiere anche perché non facevo le cose spettacolari che facevano i portieri che piacevano al pubblico. Se potevo non buttarmi non mi buttavo, la terra è dura. E poi passavo troppo tempo a guardare come la difesa doveva giocare. Sono diventato un buon allenatore perché ho seguito il modo di fare che avevo in campo. Guardavo, osservavo, riflettevo, decidevo, con calma, il tempo di un paio di sigarette. Perché il calcio è studio, se lo fai prima non serve che cambi in corsa, anche perché cambiare in corsa se ti può far vincere una partita te ne fa perdere cinque”, disse in una delle ultime interviste prima di morire. Un po’ come Dino Zoff, altro numero uno di classe, essenzialità e riflessione, anche lui allenatore eccellente sebbene meno vincente di Raymond. Un po’ come mai è stato Walter Zenga. Ma è questione di carattere, “l’allenatore che sei rispecchia il portiere che eri. Questione di Dna e al Dna non si scappa”.