Cari juventini, l'#allegrimania ha le ore contate. Ecco perché
Cari membri della vasta e autorevole famiglia bianconera che in rete spandete a piene mani #allegrimania, fossi in voi non perderei tempo a discettare sulla formazione o sul nome del trequartista più adatto alla bisogna: il problema quest’anno non è in campo ma a lato. E’ Allegri. Sa di calcio e ne capisce, è magro misurato ed elegante, icona di stile come immagino possa piacere alla Grande Famiglia. Eppure quel suo carattere di animale a sangue vagamente freddo, che mai esplode, che si tiene dentro risentimenti e collere, la paura del conflitto conclamato che lo porta inevitabilmente ad essere accomodante con i forti e autoritario con i deboli: ecco tutto questo alla lunga mina qualsiasi spogliatoio.
Ricordo che fece di tutto per far fuori il mite Luca Antonini che non era sicuramente Roberto Carlos ma un ottimo giocatore sì, sulla fascia correva e si dannava l’anima perché il Milan l’aveva nel sangue: lui pianse ma non ci fu nulla da fare e quando segnò con la maglia del Genoa la rete decisiva della vittoria contro la Juve di Allegri, la moglie non si tenne: visto, mister, che Luca non era finito?
Allegri è uno che balla una sola estate: la prima va, la seconda stecca, la terza si schianta.
Dopo la sconfitta contro la Roma, l’ho sentito ridire: “Niente paura, non siamo diventati brocchi all’improvviso”. Fossi in voi, cari Christian Rocca, NicVaccani, Stefano Discreti, e qui mi fermo perché gli allegri maniaci sono legione, fossi in voi dicevo, comincerei a toccarmi. Disse la stessa cosa a noi, alla seconda stagione, appena cominciammo a perdere colpi dopo la prima, trionfale, che a detta del maestro Galeone lo aveva consacrato come il nuovo Sacchi. Perdemmo il campionato malamente: “gol non gol” a parte, la verità è che ci avvitammo, lasciammo per strada punti pesanti addirittura in casa, furono i nostri difensori a tenere a battesimo la terza o la quarta giovinezza di Luca Toni.
Il comportamento e le parole di Allegri pesarono assai. Becchiamo 0 a 3 dall’Arsenal negli ottavi di Champions e lui dice bravi complimenti, senza ironia ma davvero per rincuorare: è maldestro e Ibrahimovic quasi lo attacca al muro, sei uno stronzo, non sai allenare. Si comporta come il padre di figli discoli che non vuole strigliare e rifiuta di alzare la voce o una mano contro di loro. Rimprovera raramente e blandamente, sempre alludendo. Mai prende di petto il giocatore forte che sbaglia per farne un caso, dimostrarsi equo e rinsaldare così lo spogliatoio: al più dice che ci vorrebbe un Lazzari, che oggi è come far giocare Padoin. Se ha improvvisa crisi di autorità, la scarica con un’osservazione velenosa ma velleitaria magari alla vigilia di una partita: dice per esempio che lui può cavarsela anche con quattordici giocatori, la rosa delle squadre di provincia ai tempi in cui vi evolveva come centrocampista. In “Una vita da terzino” Zambrotta racconta che in quel momento incrociò con lo sguardo Ibrahimovic e tutti e due rimasero basiti. L’equilibrio della squadra, la certezza di remare tutti nella stessa direzione, requisito indispensabile alla vittoria, andò così a farsi fottere.
[**Video_box_2**]Domenica ho visto un Paul Pogba inutile anzi nocivo rimproverare un compagno per un errore: Zidane che fu, lui sì, immenso, non si sarebbe mai permesso nemmeno a venti anni. Va bene, siete ancora un cantiere aperto, il vuoto lasciato da quei tre non è facile da colmare, avete dunque tutta la comprensione di chi ha vissuto, alla terza di Allegri, la vendita a fini contabili di Ibra e Thiago Silva. Ma noi eravamo visibilmente in disarmo, voi, almeno come società, avete le stesse ambizioni. Allora anche la sbrasata dell’immaturo Pogba conta in una squadra che ha fatto della forza del collettivo un’arma micidiale: è il primo segno di un disagio. E di un’incrinatura nella forza mentale di chi allena.