Big Bill Tilden, il primo “migliore di sempre”
William Taten Tilden II diventa Big Big Tilden nella finale di Wimbledon del 1930. Inizia lì ad essere la leggenda del tennis. A ventisette anni non aveva ancora mai vinto una prova del Grande Slam. Ma quando, sotto di un set, cambio di campo rivolge un cenno d’intesa alla sua amica attrice Peggy Wood seduta in prima fila a vederlo, per rassicurarlo della sua vittoria, avviene una trasformazione: vince i successivi tre set, batte il campione uscente, l’australiano Gerald Patterson, è il primo americano a vincere i Championships, allora forse più che adesso il campionato del mondo di tennis.
È un momento fondativo, ha raccontato Peggy Wood a Frank Deford, autore di “Big Tilden. The Triumph and the Tragedy”, libro pubblicato nel 1976 quando molti dei giocatori che aveva affrontato erano ancora vivi, una delle più belle biografie di tennisti mai pubblicate (seconda solo a “Open”, l’autobiografia di Andre Agassi scritta con il Premio Pulitzer J. R. Moehringer).
Quando si parla di “migliori di sempre” nel tennis i nomi sono suppergiù sempre gli stessi: nell’era Open, iniziata nel 1968 quando anche i professionisti hanno potuto giocare le quattro prove del Grande Slam (Roland Garros su terra, Wimbledon su erba, Us Open prima su erba poi per un breve periodo su terra e dal 1978 su cemento, Australian Open prima su erba e dal 1988 su cemento) svetta Roger Federer, seguito da Pete Sampras, Rafa Nadal e Bjorn Borg (forse in futuro di aggiungerà Novak Djokovic), molti citano Rod Laver, che ha fatto due volte il Grande Slam (pre era open nel 1962 e nell’era Open nel 1969), i più acculturati citano Pancho Gonzales (1928-1995), che ha vinto solo due major perché è passato presto professionista, ma è quasi imbattuto fra i pro, o Jack Cramer (1911-2009), fra i fondatori negli anni Settanta dell’Atp, l’associazione dei tennisti professionisti.
Ma è Tilden il primo a essere considerato il migliore di sempre. Colui che, negli anni migliori, sia che giocasse per se stesso, per il suo Paese in Coppa Davis (vinta sei volte), o per la Storia era invincibile. “Non era solo che non poteva essere battuto, era come se il tennis lo avesse inventato lui” scrive Deford.
Nei tre anni successivi alla vittoria di Wimbledon non perde nessun incontro importante, lo chiamano Big Bill perché contrapposto al connazionale Little Bill Johnston, prima di lui il numero uno americano per vari anni, pur se più giovane di un anno (era nato nel 1894). Ma Tilden ha iniziato tardi a dedicarsi al tennis, nonostante lo praticasse dall’età di cinque anni.
Non è un caso: è nato in una ricca famiglia di Philadelphia, tipicamente wasp, e il tennis all'epoca è lo sport dell'aristocrazia, percepito come un'attività da "femminucce". Il padre è un ricco commerciante e politico, che quasi lo ignora, la madre è invalida e poco affettiva. È la morte dell'amato fratello Herbert a cambiargli la vita: ha 22 anni e inizia a dedicarsi al tennis come mai prima, grazie all'incoraggiamento della zia (vivrà nella sua casa fino all'età di 48 anni) e secondo Deford per tutta la vita cerca di creare con i raccattapalle e con i giovani tennisti quel rapporto padre-figlio che non ha mai avuto.
È lui ad aprire il tennis alla working class, lo rende popolarissimo e concorre a farlo diffondere fra i meno abbienti.
Scrive Rodney Stark in “The The Triumph of Christianity: “Crescere in un ambiente privilegiato spesso genera la convinzione di avere la superiore saggezza per trasformare il mondo e il diritto, forse persino il dovere, di farlo.” Lo storico americano si riferisce al fatto che il cristianesimo, al contrario di quanto generalmente si ritiene, si diffuse fra i patrizi dell’impero romano, non era la “religione degli schiavi” che pensava Nietzsche. Ma vale per tutte le rivoluzioni, che non sono fatte dai proletari, bensì dagli aristocratici: sono loro che cambiano i sovrani e rovesciano i principi. E la rivoluzione tennistica negli anni Venti è guidata proprio da un figlio dell’America privilegiata.
Nell’epopea di Bill Tilden vibra l’America dei Roarin’ Twenties, di Francis Scott Fitgerald. E infatti è attratto da Hollywood e da Broadway (e sarà la sua rovina), è amico di attori come Douglas Fairbanks e Charlie Chaplin. E come un attore si comporta in campo, spesso perdendo il primo set apposta e vincendo in rimonta contro gli avversari meno impegnativi, giudicando che una facile vittoria non avrebbe soddisfatto il suo pubblico.
Vince sei Us Open consecutivi (sette in totale, record ancora insuperato), all’epoca giocati sull’erba di Forest Hills. Ma poi arrivano quattro francesi. I Moschettieri tennisti, a differenza di quelli di Dumas dei quali alla fin fine interessa soprattutto il quarto D’Artagnan e meno gli altri, erano tre campioni, Renè Lacoste, Henri Cochet e Jean Borotra, tutti plurivincitori di prove dello Slam e un quarto, Toto Brugnon, buon doppista a far scudiero.
Gli Stati Uniti hanno vinto sei Coppe Davis consecutive, ma nel 1927 nella finale di Philadelphia, come dice Lacoste che lo sconfigge, "Tilden non avrebbe potuto essere battuto da un solo giocatore, fu battuto da una squadra”. L’anno successivo viene sconfitto da Cochet a Forest Hills e, con grande classe, afferma di aver giocato il suo miglior incontro (“Cochet gioca un tennis che io non conosco”).
Racconta Lacoste detto Il Coccodrillo per essere stato sorpreso una volta in ammirazione di una borsetta di coccodrillo e che userà il rettile poco amato da Capitan Uncino come simbolo per le sue polo: “Non è che si fosse ritirato, il re era sempre lui, era come un sovrano che lasciava regnare gli altri”. Dei Moschettieri detesta Borotra che considera “un ciarlatano”, ma in realtà la sua antipatia nasce dal fatto che sul campo tende a fare lo showman come lui.
Tecnicamente, Tilden ricorda i giocatori attuali: ha un ottimo servizio, corre splendidamente ("come un cervo" dirà lo scrittore Allison Danzig), non va molto a rete.
Ed è anche uno straordinario scrittore tecnico di tennis. “Ha pubblicato una dozzina di libri, tra i quali ‘Match Play’ and The Spin of the Ball’ sta tra i primi dieci di tutti i tempi dice il noto scriba tennistico Gianni Clerici intervistato nel 2010 dalla figlia su “Tennis italiano”.
Luca Bottazzi e Carlo Rossi in "Il codice del tennis. Bill Tilden. Arte e scienza" (Guerini Next) hanno tradotto pressoché integralmente The Art of Lawn Tennis” del 1921, sul quale si innestano in maniera organica ampie parti di “Match Play and the Spin of the Ball” del 1925 per chiudere con “How To Play Better Tennis”, scritto nel 1950, tre anni prima della morte, compendiando l'evoluzione del pensiero di Tilden che ha sempre seguito il gioco. la volontà di non scoraggiarsi se non arrivano i progressi perché “il segreto di un colpo che avete allenato a lungo senza apparente successo vi si rivelerà improvvisamente, quando meno ve lo aspettate”.
Fa il giornalista e la federazione americana più volte cerca di toglierlo dalla Davis visto che non è un dilettante “puro”. Mentalità arcaica, come il nome della Federazione che all’epoca è ancora USLTA, permane la L di “lawn”, prato, mentre il tennis si gioca già su altre superfici (la terra di Parigi, iniziano i primi campi in cemento), e Tilden intuisce gli sviluppi futuri dicendo: “Il campo in erba cesserà di esistere. Devo ammetterlo, per quanto mi dispiaccia. Non durerà a lungo, magari venticinque anni, prima che il campo in erba diventi una rarità e tutti i tornei si giocheranno sulla terra o su qualche altra sporca superficie”.
Nel suo ultimo anno da dilettante, trentasettenne, si concede un nuovo tour europeo dopo anni, in un periodo nel quale i viaggi oltreoceano erano in piroscafo, rari e lunghissimi. Ma è un tour memorabile: vince Wimbledon per la terza volta, arriva in finale a Parigi e si aggiudica persino gli Internazionali d’Italia.
Il circuito professionistico, iniziato poco prima era ben diverso dall’attuale tennis pro: i giocatori giravano per gli Statesi in treno e in macchina e si affrontavano più volte in esibizione, su campi spesso orribili, era più come il tour di una rockstar come del resto era Tilden prima che il rock venisse inventato. E come le rockstar più genuine suonano dappertutto, Tilden si adatta anche ai court più squallidi nelle cittadine più oscure
Guadagna tantissimo fra i professionisti, nel suo primo anno centomila dollari (del 1931), a fine decennio (dove, quasi cinquantenne, è ancora molto competitivo), mezzo milione, ma ha un talento ancora superiore nel dissipare. Produce film e spettacoli teatrali, alcuni scritti da lui, cerca di fare l’attore, anche se il suo vero palcoscenico è il campo da tennis.
Del resto ha detto: “Il tennis è ben più di uno sport. È un'arte, come il balletto. O come il teatro. Quando scendo in campo mi sento come Anna Pavlova, o come Adelina Patti, anche come Sarah Bernhardt. Vedo le luci della ribalta, sento i gemiti del pubblico”.
Ma forse la storia di Tilden non sarebbe così affascinante senza la rovina. Quello che ha reso memorabile “Open” è il continuo mix di trionfo e tormento. Quella dell’ex di Kid di Las Vegas è però una storia a lieto fine: anche se traspare l’invidia per Peter Sampras, Andre ha sposato Steffi Graf, a sua volta una leggenda del tennis e ha due bei figli.
[**Video_box_2**]Big Bill invece è un solitario, e gli ultimi anni della sua vita gli riservano una rovina economica e sociale.
È omosessuale: secondo Deford negli anni della gloria era pressoché asessuato, gli bastava l’adorazione della folla. Ma, con il progressivo invecchiamento (sebbene fosse competitivo fin oltre i cinquant’anni), la sua omosessualità diventa sempre più evidente. Da buon figlio del puritanesimo anglosassone ha un cattivo rapporto con il proprio corpo, non si fa mai vedere nudo negli spogliatoi, né dirà mai di essere omosessuale. Alla fine degli anni Trenta parlando con un giovane tennista, ammette: “Noi siamo i prescelti. L’eccezione. Dio ci ha sorriso.” Forse considerava le sue preferenze sessuali un altro segno della propria particolarità, al pari del talento tennistico.
Viene arrestato due volte, la prima nel 1946, è sorpreso con un prostituto adolescente, ma condannato, a un anno e mezzo solo per "contribuzione alla delinquenza di un minore". Tre anni dopo propone avance sessuali a un autostoppista sedicenne, e viene condannato a dieci mesi
Sarebbe facile pensare che i rapporti con i suoi giovani protetti fossero di natura sessuale, ma in realtà tutti gli interpellati lo hanno negato, aveva giocato con lui anche un undicenne Jack Kramer. L’America puritana gli volta le spalle, ed è costretto a utilizzare il campo del suo amico Charlie Chaplin per dare lezioni di tennis. Viene trovato morto in una camera d’affitto a Hollywood il mattino di sabato 6 giugno 1953. Sul letto si trova una valigia appena fatta, con tutti i suoi beni. Stava partendo per un torneo di professionisti. A sessant’anni.
Ma la morte non è necessariamente la fine. E forse anche Tilden ha avuto il suo happy ending. Deford racconta che nel 1974, in una stanza dall’albergo a Philadelphia Big Bill gli è apparso in sogno. Un sogno più vivido degli altri (era un fantasma?) nel quale lo istruiva su come scrivere il libro. Da giornalista egli stesso, ha voluto supervisionare la propria biografia.
Il Foglio sportivo