La legittima difesa di Rossi
Penultima prova del Motomondiale, Malesia, circuito di Sepang, è il settimo dei venti giri, Rossi entra nella curva numero quattordici, è a destra, trova Márquez all’esterno, ce lo lascia, lo supera di un piede, di un inch, di un niente, entrambi si piegano verso l’asfalto, Márquez cambia traiettoria, si piega di più, con il casco tocca il ginocchio di Rossi che d’istinto allarga la gamba, Márquez va per margherite. Frame e fotogrammi passano e ripassano al rallenty, si fa fatica a immaginare: qui non è semplice come un gol non gol sotto l’occhio di falco che vede con precisione millimetrica se un pallone ha passato interamente la linea di porta, qui tutto accade nella follia dei 330 chilometri l’ora, in uno spazio ordinato secondo traiettorie dove un niente può decidere anche della vita e della morte. Comunque qualcosa si vede: Rossi e Márquez non si amano, si inseguono, ma non guardano sempre in avanti, ogni tanto si girano l’uno verso l’altro a scambiarsi sguardi di fuoco. Rossi spinge in fuori il ginocchio, allarga la gamba ma lo fa per proteggersi, per allontanare da sé il pericolo dopo che Márquez cambia traiettoria, lo stringe e lo tocca una prima volta.
Tutta la Spagna, che fino a ieri lo ha idolatrato, preferendolo di gran lunga alla pur nutrita e talentuosa scuderia di casa, oggi gli salta addosso, lo fa a pezzi. Macchiata la leggenda, idolo infranto, “Se cade un idolo”, titola Marca, quotidiano sportivo di Madrid, Rossi vergognoso, butta giù Márquez con un calcio e riceve una punizione ridicola, qualche punto nel patentino. Il calcio di Rossi è da storia dell’infamia, dicono, come la testata di Zidane a Materazzi del Mondiale 2006 o il morso di Mike Tyson a Holyfield. Infamia? Valentino Rossi non è incivile maestro di cerimonie, né procuratore di iniquità e come impostore è assolutamente inverosimile.
Zidane dà la testata a un avversario diretto per il titolo, Marco Materazzi, che lo provoca, gli cita per nome mamma e sorella proprio per farlo uscire dai gangheri, farlo espellere dal campo e mettere a segno così un vantaggio considerevole per sé e per la sua squadra. Tyson morde l’orecchio di Holyfield con cui combatte per il titolo, vuole vedere il sangue che schizza, sentirne il sapore: animalesco ma pur sempre fighting spirit.
[**Video_box_2**]Márquez no. La sua ambizione del momento, la posta in gioco, è modesta: vincere una singola gara. Gli avversari diretti quindi sono o dovrebbero essere tutti gli altri piloti, non uno in particolare. Il competitor di Rossi per il titolo è Jorge Lorenzo. Che pure lui sia spagnolo è irrilevante persino per quegli italiani sempre propensi a credere a complotti e biscotti: il motociclismo è sport individuale, è un po’ una gara a chi ce l’ha più lungo, si può escludere perciò che “los arriba España” si siano coalizzati per fare fuori Rossi e impedirgli la conquista del decimo titolo che lo avrebbe consacrato come il più grande pilota di tutti i tempi. In questo caso Márquez sarebbe un prezzolato, caso senza precedenti di infame per conto terzi. Invece lo spagnolo si è comportato come si è comportato, è andato addosso a Rossi semplicemente perché è un loffio, un roquet, uno di quei cagnolini coattelli e ringhiosi che si attaccano al risvolto dei pantaloni e non mollano più la presa. Ma ha incontrato un formidabile adolescente di trentasei anni. Che non si è tenuto e se l’è scrollato di dosso: come si dice, quando ci vuole ci vuole.