Se cercate gli ultimi selvaggi, domani li troverete a Valencia per Vale
Uno degli ultimi consigli per Valentino a Valencia domani, due del pomeriggio, lo hanno chiesto a Mino Agostini. “Parti velocissimo, non pensare e nei primi due giri superane dieci. Ce la puoi fare”, ha risposto il più grande campione di moto di tutti i tempi, quello che un tempo diceva che i nuovi campioncini lo facevano ridere perché si lamentano per un nonnulla e invece lui, a furia di sfiorare muri, aveva la tuta da nera a bianca e perdeva sangue e pezzi di carne dalle mani. Chissà che cosa avrebbe risposto un altro Mino, più meno nato a metà anni Quaranta, più o meno stessa classe di Agostini, che all’inizio di questa torrida estate si prendeva in piena faccia il gelido sole limpido del Nord Europa in cime alla tribuna Haarbocht, proprio verso la curva medesima. Si era appena goduto da vicino quello che viene considerato “un precedente” nel duello Rossi-Marquez: sorpasso e controsorpasso, bagarre, contatto (“Finisce a sportellate”, avrebbe titolato il giorno dopo la Gazzetta). E se ne stava ben piantato ad ascoltare Mameli, il Mino, dopo essersi fatto quasi milletrecento chilometri in due giorni, dritto dritto dai colli trevigiani. E come guardava di traverso chi scendeva prima e qualcuno lo fermava anche, tirandolo per un braccio: “Sei italiano, tu? E allora dove vai? Stai qui a sentire l’inno, no?”. A guardarlo proprio nel dettaglio un pochino alimentava il dubbio antico che le mamme e le nonne hanno sui motociclisti, quando la domenica in gita con la famiglia li vedono arrivare in raduno su qualche altura, soddisfatti d’aver curvato, d’aver piegato al massimo, sognando i 65 gradi di inclinazione: “Ma si laveranno?”.
Chissà queste donne – nate o vissute quando di centaure non è che ce ne fossero di meno, ma proprio non esisteva la razza, almeno in Italia – che cosa avrebbero pensato se ad Assen, con Mino, a fine giugno, ci avessero passato la notte. Perché se qualcuno vuol vederli da vicino, gli ultimi selvaggi, un modo c’è, anzi più di uno. Se ne stanno appiccicati lì, uno contro l’altro, in Francia, in Australia, in Olanda. Su prati che non sono più prati, ma carnai, ricoperti di umani barcollanti ed equivoci, che paiono piovuti da altre ere, di molto precedenti a questa. Assen, ad esempio, tutt’intorno, nel cerchio più esterno al circuito, si popola di tende e di roulotte. E fin qui passi: per video o per racconto un ricordo à la Woodstock ce lo abbiamo ancora tutti. Solo che poi quando si arriva più vicino si scorge un tappeto luccicante, come un pantagruelico specchio per allodole preistoriche: sono le moto. Parcheggiate una accanto all’altra, a perdita d’occhio. Perché la differenza tra questo pubblico e quello, ad esempio, della Formula Uno, è che la massa critica di chi va al circuito a vedersi il MotoGp ci va in moto e in moto ci va.
Motociclisti che guardano altri motociclisti. Motociclisti che sentono sotto il culo lo stesso brivido – freddo, assolutamente freddo – di quelle pieghe che se ne fregano della fisica meccanica, della pista che ti scivola sotto, della ruota che forse ci molla, adesso ci molla, il terrore della pioggia, che non è divertente per niente, che rovina tutto. Sentono sotto il culo lo stesso equilibrio sopra la follia e sanno che, finito tutto, per tornarsene nel mondo risaliranno sulla loro, di sella. A Monza, per dirne una, a vederti Hamilton sul podio ci arrivi mediamente con la macchina, mediamente dopo un triste parcheggio strapagato a un paio di chilometri dalla tribuna. Con la consapevolezza acida che su quei bolidi non ci salirai mai, che alla fine è come andare a guardar partire la Cristoforetti. C’è gusto, niente da dire. Però, vuoi mettere a commentare un duello sulla pista sapendo esattamente che cosa significa esser sfiorati mentre vedi la strada davanti che si chiude e vuoi tirare dritto nella via di fuga, perché ritrovarsi a sfrigolare sulla ghiaia è questione di un centimetro?
Mino la notte ad Assen ce l’ha passata. Non è come al Mugello, no, se vuoi dormire ti fanno dormire. Ma gli olandesi, i tedeschi, insomma i barbari, come dice lui, che ogni volta si trova intorno, che ogni anno gli sembrano più grossi, che ogni circuito bevono più birre e se le portano in giro con quei girelli contenitori da sei, sette bicchieri da mezzo litro l’uno, ecco i barbari lo scioccano e lo divertono ogni volta. Per qualche giorno il circuito diventa bagno, tinello e stanza da letto di casa: girano con le calze o gli zoccoli di legno e i piedi nudi davanti e dentro ai cessi pubblici. Ma la maggior parte delle volte non li usano affatto: fanno pipì in direzione recinto, tenendo il bicchiere della birra coi denti. Il resto s’immagini. Vengono con un solo vestito e ci stanno giorni, perché le loro moto non hanno bauletto. Vengono con i figli, anche piccoli, anche due o tre figli, anche di tre o quattro anni: ragazzini biondi e spavaldi che danno calci alle lattine, alla carta appallottolata, si lasciano scivolare a pelle giù dalle collinette della zona prato del circuito. Sono piccoli europei selvaggi e tronfi, figli di inquietanti Odino su due ruote e appena sentono il primo rombo si arrampicano, avidi di velocità.
[**Video_box_2**]La vita del motociclista è l’ultimo scampolo di libertà reale: in moto non puoi digitare, non puoi leggere nemmeno la mappa, anche se hanno di certo già inventato le diavolerie adatte per farlo. Ma il centauro si definisce tale perché il momento se lo vuole godere. La moto lo libera, lo trasforma, velocizza la muta verso Zoè, natura totale dell’essere. Si può pensare che siano stereotipi, finché non ci si parla, non li si vede: dall’operaio – pochi, perché la moto alla fine costa – al notaio alla commessa sanno che in moto conta camminare, mettersi alla prova, con qualunque condizione di tempo. Starci dentro. Hanno ancora i codici che gli automobilisti si sono lasciati alle spalle con la muta degli anni Novanta: quando piove si fermano tutti insieme, quando uno ha un guasto accostano e lo aiutano, quando si sorpassano si salutano. Molti, dalla generazione di Mino in poi, con la moto ci hanno fatto il primo viaggio, prima dei vent’anni, magari a Capo Nord. E moltissimi, Mino compreso, domani saranno in tribuna o sul prato, a vedere Valentino che parte ultimo e chissà come arriva. Per farlo si saranno beccati l’acqua, il caldo, il freddo, la polvere. Con la stessa giacca da moto, gli stessi pantaloni e lo stesso casco in testa per ore e ore. Magari a vederli da fuori sembra che non si lavino. Ma se Vale vince, in fondo al bauletto hanno la maglietta pulita per uscire a festeggiare, magari in un ristorante vero. Per il Dottore, questo e altro.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA