Nel carrello dei bolliti
Londra. Diciamo le cose come stanno. Lo stato di paura in cui è precipitata l’Europa è una notizia terribile, orrenda, preoccupante, di una gravità assoluta, ma mai mi azzarderei a dire lo stesso per la pausa forzata di alcune partite del campionato belga. Di quelle nessuno ha sentito la mancanza, forse dovrebbero unire le esigenze della sicurezza a quelle del decoro e chiudere per intero quella che apprendo ora si chiama Pro League, ché a volte radunarsi e spensieratamente giocare a pallone è un bel simbolo dello stile di vita occidentale, delle famose “libertà” di cui andiamo fieri, altre è puro nichilismo travestito da sport. Come cantare “Imagine” del mio sciagurato connazionale o mettere sui social le foto dei gattini contro il terrorismo. Il grande almanacco della storia sportiva non ricorderà tifosi afflitti per queste chiusure improvvise, e dirò di più: l’astinenza dal calcio brutto potrebbe perfino giovare al Belgio e ai belgi, popolo che merita tutto il mio rispetto per le birre d’abbazia e il taglio dei diamanti, arti antiche che nel tempo sono state soppiantate da ben più miseri sostituti.
Il Belgio vive il dramma della (dis)integrazione sociale, la minaccia islamista dentro i propri quartieri, le tentazioni nullificanti del modello di vita mitteleuropeo, è il paese dell’eutanasia per tutti dove la polizia scoperchia tombe di cardinali con i martelli pneumatici alla ricerca di documenti sulla pedofilia. E’ una porta degli inferi semiaperta. Un posto dove la maggior parte dei componenti della nazionale di calcio viene da qualche altra parte. Poi uno si domanda perché hanno scelto Bruxelles come sede dell’Unione europea. Fosse stata nell’Unione, avrebbero scelto la Svizzera, ma da quelle parti sono più furbi di così, conoscono i pregi dell’isolamento e della neutralità armata, sanno accontentarsi di dominare in altri ambiti. Nella burocrazia del calcio, ad esempio, teatrino in cui Blatter rimane ancora la marionetta principale. Talvolta, lo confesso, ho sentito bussare alla porta di quella che una volta era la mia coscienza una specie di rimorso per le mie posizioni eccessivamente dure verso un uomo di quasi ottant’anni. Poi se ne esce sui giornali con la storia che stava per morire per lo stress, che ha avuto una crisi mentre visitava la tomba di famiglia (forse una metafora involontaria sulla condizione della Fifa oggi), dice in giro che Platini è un uomo onesto e sarà contento se diventerà il suo successore, ed è allora che quella specie di rimorso si stanca di bussare alla porta e torna da dov’era venuto.
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[**Video_box_2**]Confesso di essere tra quelli che hanno dato del bollito a Claudio Ranieri più di una volta, credo anche su queste pagine se il brandy non mi inganna. In realtà non cambio idea, ma so argomentare le mie ragioni: ci sono allenatori che potrebbero allenare fino a novant’anni senza dare mai nemmeno l’idea di un appannamento, di un déjà vu, che non farebbero pensare ai tifosi cose tipo: “Se abbiamo chiamato lui vuol dire che proprio non c’erano alternative”. Ce n’è altri che invece bolliti ci nascono. E possono vincere anche un sacco di cose (tendenzialmente minori), inanellare sfilze di secondi posti da applausi, ma nell’immaginario collettivo resteranno sempre l’equivalente calcistico delle birre analcoliche: dissetanti, persino con un buon gusto, ma senza effetti notevoli. Ranieri è meritatamente primo in classifica in Premier League con il Leicester – e questo è un segnale della crisi del calcio inglese, lo ammetto, non solo della sua poetica imprevedibilità – ma poiché i bolliti si giudicano a fine pasto dovrebbe stare attento a certe interviste come quella data ieri alla Gazzetta. Il dimenticabile allenatore di Juve e Roma oscilla tra il bullismo pallonaro (“Alla prossima giornata incontro il Manchester United di Van Gaal, quando allenavo il Valencia l’ho battuto tre volte”) e la finta umiltà (“Arriviamo presto ai 40 punti per la salvezza”). Mi ha ricordato Mattia Destro nella piscina di Bologna sabato sera, dopo il rigore del 2-2 alla sua ex squadra, la Roma. Lo ammetto, avrei voluto farne un elogio sfrenato, esaltare quella sua corsa forsennata sotto la curva del Bologna – ma cosa gliene fotterà a lui, poi, dei tifosi del Bologna – ma poi ho letto che non pochi giornalisti italiani lo hanno fatto, rendendo improvvisamente mainstream l’esultanza contro la propria ex squadra. Ecco perché dico che Destro con quelle urla e quelle smorfie ha dimostrato che la Roma ha probabilmente fatto bene a venderlo: tenersi un frustrato del genere in squadra non sarebbe servito a nulla.
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